Torto, ragione, umiltà

d-30x30Torto, ragione, umiltà. Dizionario del

Una delle cose più difficili per il nostro Io (e, di conseguenza, per noi stessi) è quella di ammettere di essere dalla parte del torto. Impostare un rapporto sulla dicotomia «torto e ragione» è un errore non da poco – ci dicono le Guide – perché pone già in partenza la presenza di una conflittualità che finirà col manifestarsi impedendo ai contendenti di essere obiettivi e di mantenere quell’elasticità e quell’obiettività che, sole, possono garantire la creazione di una situazione di scambio.
Spesso manca l’umiltà, spesso ci si dimentica che la ragione o il torto non stanno mai sempre da una sola parte ma che nelle situazioni di conflitto le responsabilità appartengono a tutti i partecipanti al conflitto.
Questo non significa certo rinunciare a portare avanti le proprie idee o a dichiarare le le personali convinzioni ma soltanto che può essere fatto, e con migliori risultati per la comprensione reciproca, senza mettere in essere atti di forza controproducenti.
Questo si vede nel corso delle discussioni: un conto è spiegare le proprie idee e cercare di far capire all’altro se e perché sono giuste, un altro conto è difenderle a spada tratta come se fossero verità assoluta e pretendere che l’altro le accetti incondizionatamente. Quanti rapporti, nella nostra vita, siamo riusciti a rovinare attuando questo tipo di comportamento, finendo col causare attriti, rivalse, rancori, ripicche che, alla lunga, deteriorano qualsiasi possibilità di utile scambio? Se siamo sinceri con noi stessi non possiamo che ammettere che sono stati molti e che, a posteriori, quello che abbiamo perso è stato molto di più di quello che abbiamo guadagnato.

Messaggio esemplificativo (1)

Quante volte, fratelli e sorelle, vi ascolto dire: «Quella persona sta sbagliando e quell’altra, invece, ha ragione» o – peggio ancora – «Io ho ragione e tu hai torto».
Quant’è triste udire queste parole persino da uomini che, pure hanno ogni conoscenza necessaria per non commettere questo tipo di errore così comune, sia tra chi vive della sola materialità che tra chi segue, o cerca di seguire, o dice di voler seguire la via spirituale.
E proprio a questi ultimi, a coloro che seguono la via dello spirito, che voglio rivolgermi, miei cari, quindi a tutti voi, presi uno per uno – con l’accoratezza di una madre che cerca di far comprendere ai propri figli i loro errori.
Dire: «Io ho ragione e tu hai torto!» – figli nostri – significa fare mostra di presunzione, significa credersi più avanti dell’interlocutore, osservarlo dall’alto in basso con superiorità, o con degnazione o – peggio  ancora – con compatimento.
Ma se fosse davvero così, se uno avesse ragione e l’altro torto, allora dovrebbe essere proprio colui che ha ragione a fare atto di umiltà verso chi ha torto, perché chi sbaglia non va crocifisso, bensì aiutato.
Non commettete l’errore di confondere la conoscenza e la cultura che qualcuno può possedere, con la sua comprensione e la sua evoluzione, poiché non è detto che l’uomo che conosce l’intero vocabolario a memoria sappia poi scrivere un libro in forma corretta e sensata; e quante volte accade che un uomo sappia citare tutti e quattro i vangeli e intanto dimostri con le parole e con le azioni di non aver compreso neanche il più semplice insegnamento di Gesù!
Quante volte vi ascolto – e con rammarico – definire il comportamento di un vostro simile sbagliato e non voler esaminare invece la parte di responsabilità che voi stessi possedete per questo suo comportamento! Quante volte vi sento dire che un insegnamento è infantile, senza rendervi conto che state dicendo qualcosa di inconcepibile poiché non può esistere che «l’insegnamento», e classificarlo in qualche maniera significa solamente dimostrarsi incapaci di capire quello che sta dietro alle parole e alla forma, significa dimostrare che è inutile voler affrontare temi difficili e complessi quando quelli semplici e – in apparenza – puerili, non sono stati ancora, evidentemente, da voi compresi a fondo. Conoscenza non è comprensione – miei cari – così come dialettica non è superiorità, e così come intelligenza non è evoluzione. Ognuno esprime se stesso in un modo particolare ma tutti i modi di esprimere se stessi sono equivalenti, dalle disquisizioni filosofiche al pianto accorato, perché ognuno di essi è il modo di essere di un individuo.
E quante volte – miei cari – il mio rammarico viene trasformato in sorriso nel sentirvi cercare una definizione dell’amore, nel volerlo inquadrare in parole inadatte quando non riuscite a percepirne che un pallidissimo riflesso, un’idea egoistica che è solo l’immagine sfocata di una realtà che voi percepite – attualmente – in modo sommario e largamente soggettivo! A tutti voi che siete con noi io dico: se siete tra di noi per apprendere delle nozioni o delle verità assolute, o delle cognizioni mentali, state sciupando un’occasione perché non godete che di un’infinitesima parte di ciò che andiamo costruendo per voi; perché, anche se spesso le nostre parole parlano all’intelletto, sempre – invece – esse parlano al cuore di chi sa ascoltarle e far vibrare il proprio essere non al suono delle belle frasi o delle teorie complesse, ma alle vibrazioni ben più profonde e trasformatrici dei sentimenti,  dei trasporti, degli abbandoni.
Fratelli, sorelle, chiedetevi perché siete qui con noi e, se la vostra risposta sarà che siete qui per conoscere cose nuove, me ne dorrò per voi; così come mi rattristerà sentirvi rispondere che siete qui per conoscere la spiritualità e dimenticare la materialità.
Perché vedete, fratelli, non dimenticatelo, sorelle, materia e spirito non si oppongono ma si completano, l’aldilà non è sacro e il mondo fisico non è profano, i problemi materiali non possono essere staccati da quelli spirituali, altrimenti come potete affermare di crederci e di capire allorché vi diciamo che Tutto È Uno?
E se «Tutto È Uno», fratelli, se «Uno È Tutto», sorelle, giudicare gli altri significa mettersi in condizione di essere giudicati, agire sugli altri significa lasciare che gli altri agiscano su noi, aiutare gli altri significa farsi aiutare dagli altri, essere accettati significa accettare gli altri, essere compresi significa comprendere gli altri, evolversi significa aiutare gli altri ad evolversi, essere amati significa saper amare a un punto tale da diventare l’Amore stesso. Viola

1  Sussurri nel vento, pag. 69 e segg.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte seconda, Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

I limiti delle organizzazioni

d-30x30Orgamizzazioni. Dizionario del

Pur riconoscendo che le forme organizzative possono essere usate per ottenere grandi risultati non solo per se stessi ma anche a livello sociale, le Guide ci hanno sempre messo in guardia sui pericoli in cui, alla lunga, si finisce con l’andare incontro, in particolare il fatto che, col tempo, l’organizzazione finisce facilmente col non essere più un utile mezzo per ottenere uno scopo bensì lo scopo stesso della sua esistenza, col risultato che ogni mezzo può diventare valido per la sopravvivenza anche della più umanitaria delle organizzazioni.

Messaggio esemplificativo (1)

Io affermo, con una certa presunzione, di essere al di fuori della ruota delle nascite e delle morti; di essere stato incarnato (con la personalità con cui mi presento adesso) ai tempi di Atlantide (e, questo, so che ad alcuni di voi può anche interessare); sono conosciuto come un «mangiapreti», come un anarchico, un sovversivo, un ribelle, un «originale» a tutti i costi … Questa è l’immagine che ho voluto dare; in realtà ho delle idee ben precise su tutti questi punti che ho citato; e li ho citati apposta, ovviamente, per poterne parlare, dovendo avere un punto di partenza.
La religione … Non è vero che sono un «mangiapreti». Certamente mi rendo conto che è molto vero quello che disse una volta qualcuno, ovvero che «la religione è l’oppio dei popoli» ma il problema, vedete, creature, non è la religione in se stessa, il problema è, continua ad essere, ed è stato nel tempo, nei secoli e nei millenni, l’uso che dei concetti religiosi viene fatto da chi ha l’ambizione di poter fare da ponte tra la divinità e l’essere umano.
Ahimè, che triste figura hanno fatto nei secoli questi «ponti con la divinità», al punto tale da rendere una ben misera cosa persino la divinità che rappresentavano, perché, se quelli erano i rappresentanti, come si poteva poi, alla fin fine, avere una grossa fiducia in ciò che rappresentavano?
Pensate alla religione cattolica, pensate a tutto quello che ha combinato nel tempo tutta la gerarchia su cui è fondata sul piano fisico e vi renderete conto, da questa osservazione, che la figura di Dio, o del Cristo, potrebbero – se non fossero così forti nel sentimento degli individui – veramente ricevere un’immagine poco edificante; fra l’altro … non so voi, ma vi siete mai chiesti perché vi è una cultura del Cristo, vi è una cultura «mariana» e, invece, del povero Giuseppe non se ne parla?! «Eppure – mi sono detto più volte io – se proprio dovessi osservare le cose con un minimo di raziocinio, direi che alla fin fine questo signor Giuseppe doveva avere un’evoluzione mica male, considerati i tempi! Trovarsi la moglie incinta di non si sa bene chi, eppure accettare quella che facilmente poteva sembrare una scusa delirante; e poi avere un figlio che faceva miracoli quando uno meno se lo aspettava; e poi restare nell’anonimato e sparire addirittura dalla scena, come se non avesse avuto nessuna importanza ..»
Forse, in minima parte, potrebbe anche essere vero che una figura maschile contrapposta a quella del Cristo dà fastidio all’ordinamento religioso; ci deve essere una figura maschile e una femminile, in tal caso la Madonna. Ma, molto probabilmente e più semplicemente, è perché la figura di Giuseppe, come tutte le persone umili, tutte le persone pazienti, tutte le persone con un Io non forte, un bisogno di protagonismo molto debole, come tutte le persone schive, diventava difficilmente usabile per poter essere manipolato e presentato come carismatico alla massa dei fedeli. Certamente, al fedele dell’epoca, faceva molto più effetto la figura del Cristo coi suoi discorsi importanti, con la sua fine «meravigliosa», o Maria, con la sua gravidanza miracolosa; quello, per la gente semplice dell’epoca, poteva essere lo stimolo per poter accettare con maggior meraviglia quello che era già meraviglioso di per sé.
Certamente, non voglio entrare nell’analisi di quanto è stato detto dal Cristo, ma voglio, invece, sottolineare che i problemi della religione all’interno della vostra società non sono dovuti alla religione stessa ma, come ho detto, all’apparato che su di essa è stato costruito.
Detto così, qualcuno di voi potrebbe dire: «Scifo è comunista!».
«Destra-sinistra» si chiedeva un vostro personaggio. Non ci si aspetta, di solito, che delle Entità parlino di politica; e certamente non posso io, questa sera, mettermi a dire: «Votate a destra», «Votate a sinistra», «Tendete a destra», «Tendete a sinistra», ma posso dire però che forse uno dei più grandi cristiani della storia fu quel Marx che viene contrabbandato come il «comunista mangiapreti» (peggio di me!) che in realtà non era.
Se voi leggeste «Il capitale» – cosa non facile, perché già il nome è pesante – vi rendereste conto che, in fondo, l’operazione di Marx non prescindeva dall’insegnamento del Cristo; anzi, presentava le teorie del Cristo, le teorie di uguaglianza, di fratellanza, di distribuzione ai poveri, e via e via e via e via, con l’aggiunta … di che cosa? Di un’analisi socio-economica che dava a questa presentazione della dottrina cristiana un aspetto apparentemente svincolato da quella che è la forma strettamente religiosa. Non so quanti di voi hanno letto «Il capitale» ma, se qualcuno l’avesse fatto – cosa che non credo – penso che concorderebbe in gran parte con me.
Il problema è che bisogna rendersi conto che questa dicotomia che viene creata a livello politico e sociale un po’ in tutto il mondo ormai tra destra e sinistra, ha finito un po’ alla volta per non avere alcun senso. Ancora una volta – così come succede per quanto riguarda la religione – la struttura che è stata creata al di sopra dell’idea politica della necessità di avere delle persone che guidino, è diventata la cosa importante, ha preso il sopravvento e si parla di valori di destra o di valori di sinistra senza rendersi conto che i valori non possono essere né di destra né di sinistra, ma sono semplicemente «valori», valori della coscienza, valori che l’individuo sente giusti al di là di quale fede politica egli possa avere.
Ancora una volta si può dire, quindi, che quello che crea i danni è l’organizzazione; e noi nel tempo abbiamo parlato spesso contro l’organizzazione, perché, vedete, sempre accade che le organizzazioni, essendo guidate dagli uomini – dai bisogni, dalle necessità, dagli egoismi degli uomini – finiscono col diventare importanti per se stesse e per perseguire scopi che sono diversi da quelli di partenza. Guardate le più famose sette spiritualiste del passato; prendete… che so … la Teosofia, ad esempio prendete la Massoneria, prendete tutte queste sette spirituali del passato e, se voleste fare un’analisi un po’ accurata, vi rendereste conto che, alla fine, i precetti e i concetti di partenza per tutte erano giusti e, direi, praticamente gli stessi; però, un po’ alla volta, poi, l’organizzazione ha preso il sopravvento e non sono stati più i concetti la cosa importante ma è stata la continuazione, l’esistenza continuativa dell’organizzazione stessa, anche a costo di andare contro i precetti di partenza.
È per questo motivo che noi non abbiamo voluto che intorno al Cerchio nascesse un’organizzazione, non abbiamo voluto che ci fosse un editore, non abbiamo voluto andare in Televisione, non abbiamo voluto parlare alla Radio, non abbiamo voluto fare nulla che potesse far nascere una vera e propria organizzazione intorno al Cerchio perché sapevamo che poi quella sarebbe diventata la cosa importante e il Cerchio non ha nessuna importanza, in realtà, se non quella di far risuonare le vostre anime, le vostre coscienze, ogni volta che una nostra parola riesce a perforare le vostre corazze. Scifo

1  Sfumature di sentire, vol. IV, pag. 62 e segg.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte seconda, Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

Onestà verso sé e coscienza

d-30x30Onestà. Dizionario del

Essere onesti non è certamente una cosa semplice da attuare, in maniera particolare nei propri confronti: sotto la spinta del nostro Io che vorrebbe essere perfetto e che tende a considerarsi il «meglio del meglio» facilmente perdiamo obiettività su noi stessi e sulle nostre intenzioni nell’agire di tutti i giorni.
Non ci vengono neppure molto in aiuto le regole della società in cui viviamo: malgrado le regole etico/morali siano tutte codificate nella concezione corrente di onestà è comune modo di pensare che il disonesto è riprovevole in particolar modo quando viene scoperto, altrimenti, sovente, è dichiarato, quasi con un’ombra di ammirazione, «furbo».
Il fatto è – ci dicono le Guide – che non dobbiamo valutare la nostra onestà sul metro di ciò che ci è esterno, bensì sui parametri dettati dalla nostra coscienza.
Chi ha davvero compreso cosa significhi veramente essere onesto lo sarà sempre e comunque, che gli altri lo riconoscano o meno, e non metterà mai in atto quei compromessi che così facilmente siamo in grado di escogitare per trovare giustificazione ai nostri comportamenti, spesso veramente difficili da giustificare.

Messaggio esemplificativo (1)

Eh già, creature; voi vi guardate attorno, restate a volte perplessi, a volte scioccati, a volte disgustati nel vedere la disonestà altrui. Nobili sentimenti, giusti; però… però… però… Nel corso di questi anni di insegnamento abbiamo fatto dell’intenzione uno dei cardini del nostro parlare, facendo risalire a questo aspetto dell’interiorità dell’individuo tutte le dinamiche che possono essere giustificate o meno nel comportamento dell’individuo stesso e, semplificando, abbiamo asserito che l’intenzione altruistica giustifica un’azione che apparentemente può sembrare egoistica, in quanto è chi osserva che può vedere l’egoismo in un’azione, ma in realtà chi compie l’azione può mettere in moto il suo agire spinto da un’intenzione benevola e altruistica. Ricordate questa parte dell’insegnamento? Un Maestro di secoli fa diceva, predicando: «Chi è senza peccato scagli la prima pietra». Bene, creature, voi che siete giustamente pronti ad offendervi per la disonestà altrui, chi tra di voi in realtà è disposto a scagliare veramente una pietra? Chi tra di voi pensa davvero di essere onesto, quanto quelle persone che giudica e che critica non sono? Pensateci un attimo e poi chi tra di voi si sente onesto me lo dica, in modo da rallegrare questa serata.
C’è differenza tra ammazzare una persona o ammazzarne due?
Rubare una mela o rubare un diamante, cambia qualcosa?
No, non c’è diversità per il semplice fatto che, come abbiamo sempre detto, quello che voi vedete e vivete in realtà è un’illusione, e non è che abbia poi grande valore. Quello che conta è ciò che vivete voi all’interno, nella vostra coscienza; è quindi la vostra intenzione quella che conta, non l’azione che compite, non i risultati dell’azione che compite.
Questo è uno dei principali corollari dell’insegnamento. Tutto quello che accade, accade per voi; per farvi comprendere. Il problema è che voi aspettate sempre che siano «gli altri» a comprendere, pensando che ciò che accade agli altri accade soltanto per quelle persone mentre invece, se voi lo notate, in realtà accade per voi; perché voi in quella cosa dovete trovare qualche cosa per allargare il vostro sentire.
Senza dubbio le azioni disoneste che tutti voi, uno per uno compite, possono avere una ripercussione maggiore o minore nel mondo in cui vivete, sulle persone che vi circondano, sugli ambienti, e via e via e via, però – ripeto – non è quello che è importante; non dovete fermarvi su quell’aspetto della cosa, dovete fermarvi invece sul fatto che «voi» avete compiuto quell’azione e che quindi siete responsabili di quell’azione. Anche se gli altri non si accorgessero mai della vostra azione disonesta, ciò non toglie che voi interiormente l’azione l’avete compiuta. Se nessuno vi vedesse rubare, non per questo voi non sareste ladri! Vero? Quindi il fatto di essere ladri non è una cosa che è ratificata, sottoscritta e decisa dal fatto che gli altri scoprano il vostro furto, ma dal fatto che voi avete compiuto l’azione con l’intenzione di rubare e – ripeto – che rubiate un’arancia o rubiate un diamante l’intenzione è sempre la stessa; è soltanto la manifestazione poi nel mondo fisico, chiaramente, che cambia.
Motivazione e intenzione in gran parte si può dire che coincidano, come concetto. Certamente se tu rubi perché i tuoi figli stanno morendo di fame, per dar loro da mangiare perché non riesci a trovare un altro modo di sfamarli (anche se è abbastanza difficile che ciò accada perché, se uno vuole sfamare i figli, in qualche modo col sudore della fronte solitamente ci riesce; magari non dando loro caviale, ma dando loro patate!) tuttavia in questo caso allora l’intenzione di un furto potrebbe essere non dico giustificata al cento per cento ma quanto meno avere interiormente – di fronte al giudizio, di fronte a se stessi, che è quello poi che conta in realtà nel seguito dell’evoluzione dell’individuo – avere un peso diverso di un’azione compiuta in un altro modo, con un’altra motivazione.
Ipotizziamo (è un caso abbastanza reale) che un’azienda di trasporti aumenti i costi dei biglietti. Sappiamo benissimo che molte linee di trasporti hanno sperperato denaro pubblico. Se io non pago il biglietto e quindi risparmio mille lire e poi ne regalo duemila al povero che trovo sulla strada, ho rubato?
Io direi di sì, perché ritorniamo allo stesso punto: il fatto che chi ha predisposto quell’esosità del biglietto non autorizza ad andare contro una legge accettata, ritenuta giusta e valida se il prezzo fosse stato inferiore, e certamente non è una compensazione dare poi le duemila lire a un povero! Diventerebbe un po’ come l’assoluzione o le preghiere date in confessione per assolvere i peccati dell’individuo. Una specie di ricatto morale nei confronti della divinità, in fondo!
Se accetti di vivere in una società e accetti le sue leggi allorché ti sembrano giuste, il fatto che un particolare poi venga variato da individui disonesti non fa sì che le leggi diventino ingiuste! Fa sì soltanto che certi particolari individui le applichino in modo sbagliato, e non è evadendo la legge che compensi o ritorci qualche cosa contro quelle persone. Vi sembra? Anche perché un comportamento del genere alla fin fine si ripercuoterebbe come minimo sulle persone che devono prendere gli stipendi e che vi servono, così come voi servite per pagare la loro vita, il loro lavoro.
Sappiamo benissimo tutti che quello di moralità è un concetto molto relativo. Molto relativo perché dato dalle abitudini, dalle tradizioni, dai costumi, dal tipo di legge che viene promulgata, e via e via e via. La moralità, sotto un certo punto di vista, è anche poco definibile perché – volendo parlare in termini razionali e logici, aderenti all’insegnamento che abbiamo portato avanti fino a questo punto – la persona morale è quella che segue il proprio sentire, in quanto, seguendo il proprio sentire, è in pace con se stessa. Giusto, no? La persona morale non può che essere in pace con se stessa, tuttavia voi sapete che non vi sono due individui con la stessa evoluzione.
L’individuo non nasce già completamente evoluto, col suo corpo della coscienza strutturato, per cui commette molti errori, ha bisogno di imparare e quindi la morale varia già da individuo a individuo, quindi immaginiamoci da società a società! Si arriva, alla fine del discorso, ad affermare che una vera società morale difficilmente può esistere proprio per il fatto stesso che all’interno della società sono incarnate individualità che hanno evoluzioni differenti e quindi morali differenti.
Allo stesso modo è ben difficile che possa esistere una società veramente equa per tutti, se non forse all’ultima ondata di vita all’interno di un pianeta, all’ultimo scaglione di incarnazioni su un pianeta, finito il quale il pianeta ritornerà ad essere un enorme sasso senza vita.
Allora, in quel caso, quest’ultimo scaglione avrà raggiunto un’evoluzione tale per cui gran parte di quelli rimasti saranno quasi alla fine della ruota delle nascite, avranno quasi perfettamente strutturato il loro corpo akasico, non avranno tra di loro i primi incarnati della razza successiva e quindi più indietro come evoluzione, indietro quindi anche come morale, e avranno la possibilità di creare una società molto più equilibrata e molto più morale di quelle che l’hanno preceduta. Fa parte insomma dell’ultima fase della vita di un pianeta. Scifo

Come si può sviluppare meglio il sentire, allora, a proposito di questa presa di coscienza di onestà morale?
Compiere quell’opera è nel contempo facile e grandemente difficile, figli cari. Imparare ad essere onesti significa senza dubbio imparare a tener conto dei bisogni altrui, significa osservare se stessi e vedere se stessi di fronte alla realtà, alla realtà fisica in cui vi trovate immersi, significa non aspettarsi che siano gli altri a diventare onesti ma lavorare affinché il proprio intimo arrivi a comprendere che ciò che si possiede è già abbastanza, che ciò che si può dare è molto, perché tutti i doni che voi possedete non vi sono stati dati per tenerli chiusi nelle vostre mani ma per distribuirli attorno a voi; significa riuscire ad identificarsi con gli altri che sono attorno, riuscire a comprendere che se voi avete dei problemi e cercate di risolverli in modo disonesto, questo modo disonesto si ripercuote sugli altri facendo sì che i loro problemi non possano da essi stessi venire risolti; significa quindi domandarsi: «Se gli altri così facessero, io come mi sentirei?»; significa essere in grado di mettersi nei panni degli altri per riconoscere nel loro sguardo ciò che noi siamo; significa arrivare piano piano, lentamente, sbagliando – questo senza dubbio – ma con coraggio, ad affrontare se stessi osservandosi, e cercare di migliorare senza pretendere che siano gli altri a cambiare per noi, ma cercando in tutti i modi possibili di essere noi a cambiare per gli altri, rendendoci conto che, cambiando per gli altri, di conseguenza – come estremo passo logico e inevitabile – cambieremo anche per noi stessi. Non è facile certamente tutto questo, ma tutto questo è quello che dà la risposta ad una domanda che è sempre nelle vostre menti ed alla quale difficilmente riuscite a trovare una soluzione che vi soddisfi fino in fondo. La domanda è: «Perché siamo qua, perché viviamo, perché portiamo avanti le nostre vite all’interno di questo pianeta che molto spesso ci sovrasta con necessità e bisogni che ci fanno soffrire?» Rodolfo

E poi pensate un po’ alla disonestà! Per che cosa si è disonesti di solito? Forza, sentite voi, voi che siete così esperti in disonestà, piccole e grandi, ditemi – secondo voi – per cosa avete fatto i vostri fatti disonesti? In linea di massima per ottenere qualcosa, per avere qualcosa. E questo qualcosa – pensateci bene – il più delle volte in cosa si traduce? Si traduce in un credito nei confronti degli altri, in un vantaggio di qualche tipo, in un possedere qualcosa di più. E allora io mi faccio la cassaforte con i lingotti d’oro, i biglietti da visita con i diamantini sopra, la carta igienica tempestata di smeraldi (difficile da usare, quella; lo riconosco, ma non mi viene in mente altro in questo momento), diciamo di seta cinese (così va meglio!), e via e via e via direbbe Scifo, per avere ancora di più. Ancora di più! Pensate quante cose volete! Prima Rodolfo diceva che avete già tanto, che vi è stato dato tanto e questo tanto non vi è stato dato per tenerlo stretto, ma per dividerlo con gli altri quando c’è la necessità e il bisogno, eppure voi vi lamentate in continuazione .. e pagate troppe tasse, e il biglietto dell’autobus è aumentato, e il giornale costa caro, e il caffè è aumentato di ben 100 lire tutte in una volta e invece di prenderne 5 vi tocca prenderne 4 al giorno, e le sigarette guarda come sono aumentate e adesso come faccio a farmi venire un cancro! Tutte queste belle cose, e poi andate nelle vostre povere e miserabili case, vuote di tutto, e vi annoiate tremendamente, e non sapete che televisione guardare: se quella in sala, quella in cucina, quella nello studio, e non sapete se guardare un film comico, una videocassetta, una registrazione teatrale o un concerto; non sapete quale di quei 17 libri che avete lì, che avete comprato in un momento di crisi depressiva e tutti vi attirano, ma nessuno poi vi attira in modo particolare, e allora «Ma che noia in questa casa! Non ho proprio niente! Mi ci vorrebbe qualcosa di diverso: un cioccolatino!
Per comprare questo cioccolatino cosa fate? Andate fuori e imbrogliate qualcuno perché almeno trovate quelle 1000 lire per comprarvi il cioccolatino! Anni e anni fa c’è stato un bellissimo messaggio di Viola che parlava di quello che uno ha o quello che uno non ha, e diceva, molto più o meno: «Vi lamentate sempre che vi mancano tante cose, ma se voi dimezzaste le cose che già possedete in casa, e poi le dimezzaste ancora e poi le dimezzaste ancora, quello che resta sarebbe ancora più che sufficiente per garantirvi una vita dignitosa».
Pensateci, se non è vero! Quante cose in più avete in casa? Basta che apriate uno dei vostri armadi: quante camicie, quanti vestiti, quante gonne, quante scarpe, quanti calzini, ecc. ecc. ecc. possedete, e magari poi mettete sempre gli stessi?
Certamente la vita bisogna viverla perché se no non sarebbe stata data, però uno dice: «Bisogna viverla e allora, se si vive, se si è disonesti, sembra un po’ il serpente che si morde la coda, si continua a girare in circolo». No non è vero, perché se tu ti osservi, stai attento a quello che fai anche nel momento in cui fai l’azione disonesta che il più delle volte per l’individuo che la compie non è disonesta, intendiamoci eh! Mentalmente è giustificata da un milione di motivi, questo non dimenticatevelo, eh! Voi pensate che quel signore della cassaforte coi lingotti non avesse delle giustificazioni, dei motivi mentali per cui faceva tutto quello? Magari aveva già pensato che, nel momento in cui moriva e non aveva più bisogno di tutta quella roba, l’avrebbe lasciata ad un orfanotrofio e quindi lo faceva per quei poveri orfani! Voi siete e siamo stati anche noi, specialisti nel trovare delle scuse per giustificare il proprio operato! Ed è li che c’è il punto importante: sapendo che siete e siamo tutti così pronti a trovarsi queste giustificazioni, allora cerchiamo di osservarci quando compiamo l’azione.
Cerchiamo di osservarci e di eliminare queste giustificazioni, che basta un’osservazione leggermente più accurata per dimostrare quanto siano sciocche e pretestuose per quello che si compie. E allora un po’ alla volta, con l’esperienza, osservando quello che si compie, il corpo akasico riesce a comprendere quali sono le cose giuste da farsi e quelle da non farsi, e quindi un po’ alla volta l’onestà – che è poi dal corpo akasico che parte – da quel sentire del corpo akasico arriverà veramente ad essere unita in tutte le sue parti, in tutti i suoi frammenti e l’individuo comincerà ad essere sempre meno disonesto fino a diventare veramente un santo. Zifed

Infine, figli, ancora una volta non possiamo fare altro che esortarvi non a fare i rivoluzionari, non a combattere contro i mulini a vento, non a diventare delle piccole bombe all’interno del sistema, ma a cambiare, impegnandovi fino in fondo, ciò che voi siete; perché, se è vero che la società è lo specchio delle persone che la compongono, voi fate parte di quella società e anche voi avete le vostre buone responsabilità per come la società è diventata. E allora ricordate che il vero cambiamento non parte mai dall’alto per arrivare in basso, non vi è mai stato un cambiamento buono, utile e positivo che venga deciso da chi comanda e che poi abbia portato dei benefici duraturi alla base della società. I veri cambiamenti sono quelli che partono dalla base, e la base della società non è il popolo ma è l’individuo. Ricordate perciò che l’unico vero modo per modificare le cose è che tutti gli individui cambino, ognuno per se stesso, senza guardare se e quanto stan cambiando gli altri, ma accontentandosi di osservare e comprendere se e quanto egli stesso sta cambiando. Soltanto in quel momento veramente vi sarà la possibilità di creare non un’utopia ma una società quanto meno accettabile e che garantisca i principali diritti a tutti gli individui che la compongono.
Questa non è una speranza, non è un augurio, non è un’imposizione; è una consapevolezza del fatto che è ineluttabile che ciò sia perché rientra nella stessa logica dell’evoluzione che questi fatti accadano, e che da questi fatti ognuno di voi – uno per uno – tragga la comprensione per farli mutare in qualcosa di positivo. Moti

1  L’Uno e i molti, Vol. IV, pag. 33 e segg.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte seconda, Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

Maschere, coscienza, Io

d-30x30Maschere. Dizionario del

La maschera è semplicemente un atteggiamento, il modo in cui ci si pone di fronte alla realtà che si va ad affrontare. Questo cosa significa? Significa che, volendo analizzare le maschere personali, si può notare che vi sono maschere utili, maschere meno utili, maschere che hanno un effetto positivo e maschere che hanno un effetto negativo; però la maschera in se stessa non ha alcuna connotazione, è semplicemente un modo di porsi dell’individuo di fronte all’esperienza quotidiana che si trova a dover attraversare. Ovviamente, la maschera non è una cosa concreta, ma è un risultato, un effetto, qualche cosa che l’individuo si trova a mettere in atto – da cui il fatto di riferire la maschera all’atteggiamento – sotto le varie spinte che riceve dall’interno e dall’esterno, cioè sotto le spinte che riceve dalla sua coscienza e le spinte che riceve dall’esterno e dall’esperienza che sta facendo all’interno del piano fisico. In una certa misura, può essere considerata l’aspetto visibile dell’Io dell’individuo. Si può quindi considerare la maschera come la facciata dell’Io nel momento in cui l’Io si trova a sperimentare la realtà fisica.
Ma attenzione: la maschera non è semplicemente un frutto dell’Io, pur essendo ad esso direttamente correlata e, proprio come era stato detto dell’Io, può denotare quello che non si è compreso ma può anche denotare quello che in realtà si è compreso, poiché tutto nella realtà ha sia un aspetto positivo che un aspetto negativo. Esistono, quindi, delle maschere che vengono messe dall’individuo – vuoi consapevolmente, vuoi inconsapevolmente – le quali possono avere un’origine molto positiva.
Voi direte: «Però, comunque sia, la maschera – per concetto stesso – è un coprire se stessi, un non mostrarsi così come si è; giusto? Quindi sembra, ragionandoci un attimo, che la maschera non sia mai positiva, perché impedisce all’individuo di essere ciò che veramente è!». Questo è fermarsi alle apparenze, creature, perché l’individuo molto evoluto, ad esempio, che si impone un certo tipo di comportamento per aiutare un altro, quest’individuo si mette, sì, una maschera diversa da ciò che veramente è, però è una maschera creata sotto la spinta della sua comprensione, della sua coscienza; è quindi una maschera che ha un’origine positiva, non un’origine negativa; copre, ma copre una realtà che l’altro non potrebbe comprendere; e allora, per far sì che vi possa essere un rapporto tra le due persone, la persona con una certa evoluzione è costretta magari a limitare se stessa, limitando il proprio modo di essere, di sentire, di rapportarsi con la realtà, in modo tale da poter interagire con l’altro, altrimenti, diventerebbe per l’altro magari l’immagine del santone irraggiungibile, con il quale è impossibile interagire e, tuttalpiù, ci si può affidare per chiedere una grazia, ma non si riesce ad avere uno scambio e, quindi, a crescere dinamicamente.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte seconda, Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

 

Il linguaggio e la reponsabilità

d-30x30Linguaggio e responsabilità. Dizionario del

Il linguaggio e la sua espressione, la parola, – ci hanno insegnato le Guide – sono ritenute generalmente un grande dono di Dio, qualcosa che distingue l’uomo dall’animale, nobilitandolo e rendendolo più completo, tanto da far esclamare spesso, alla vista di un animale particolarmente intelligente: «Gli manca solo la parola per essere un uomo!»
Quest’idea del linguaggio come dono divino non è certo sbagliata, anche perché ogni cosa che l’uomo ha in dotazione – e non solo ciò che è dell’uomo ma anche tutto ciò che lo circonda – è un dono di Dio.
Tuttavia, fermarsi a quest’asserzione è un errore: non esiste, infatti, cosa nell’universo che sia definibile solo positiva o solo negativa, e non solo: non esiste cosa che sia o positiva o negativa per più di un individuo allo stesso tempo.
Infatti, il linguaggio e la parola, in se stessi, mancano di attributi specifici che li possano definire buoni o cattivi, doni o castighi, se non quando assumono una connotazione positiva o negativa dovuta al loro uso, alla loro funzione, al modo, insomma, in cui vengono valutati da chi li usa o da chi li osserva mentre vengono usati.
Come sempre, le Guide, hanno cercato, insomma, di riportare la nostra attenzione alle responsabilità personali: qualsiasi dono fattoci dall’Assoluto può essere usato bene o male. Non possiamo attribuire la responsabilità degli errori fatti nell’usare un dono all’infuori di noi stessi o, addirittura al dono stesso: essa non può essere che nostra, e il riconoscerlo ed accettarlo è un passaggio importante nell’evoluzione dell’individuo.

Messaggio esemplificativo (1)

Il linguaggio è un dono di Dio allorché viene usato per dare più facilmente ai propri simili, per farsi comprendere e per comprendere più compiutamente, per esprimere e per ricevere più chiaramente l’espressione altrui; ma quanto spesso viene male usato in mille modi diversi e tutti sbagliati!
E sbagliati non secondo un qualsiasi giudizio formale, ma in quanto non sono altro che paraventi impenetrabili posti tra un’individualità e l’altra, tra un essere e ciò che lo circonda.
Prendiamo colui che parla tanto. Ascoltiamo il suo parlare, questo fiume di parole che esce ininterrottamente dalle sue labbra, abbastanza lento da permettergli di respirare ma abbastanza veloce da impedirgli di avere piena coscienza di quanto va dicendo.
Se la tecnica linguistica che il chiacchierone usa è buona, se la grammatica è corretta, se le immagini che forma quasi automaticamente sono colorite e ben disegnate, il chiacchierone viene definito un buon oratore, e la definizione è sfumata di ammirazione, tanto che l’oratore viene considerato un individuo intelligente e abbondantemente dotato dalla natura.
Ma ascoltate bene il suo discorso: togliete gli aggettivi, le parole inutili, i giri di frase volutamente complicati, le ripetizioni, e vi accorgerete che non ha detto nulla che un cattivo parlatore non avrebbe detto in poche frasi e, magari, in modo più comprensibile; vi accorgerete che l’oratore è un buon tecnico del linguaggio – questo è in- dubbio – ma che quello che vende sono solamente emozioni ben calcolate, che vengono stimolate in chi ascolta più dal modo in cui il discorso viene modulato che dal significato di quanto viene detto.
A questo punto è allora evidente che il linguaggio è – lasciatemelo dire – una solenne fregatura: è come la mano di vernice applicata su di un vecchio mobile tarlato, lucido e brillante per chi non sa osservare attentamente, ma screpolato e male in arnese per chi sa guardare sotto la crosta lucente senza lasciarsi impressionare dall’aspetto superficiale.
Se manca la stimolazione emotiva, l’enfasi, la dizione misurata ed espressiva, il variare sapiente della tonalità, ecco che non si ha più l’oratore bensì il pedante.
Costui può esprimere le stesse cose dette dall’oratore e può farlo anche in modo più chiaro e semplice ma – invariabilmente – chi lo ascolta poco alla volta comincerà a lasciar vagare la sua attenzione cosicché il pedante, alla fine, si ritroverà a parlare al vento, tanto che potrebbe inserire in un suo discorso le frasi più sconclusionate o gli insulti più offensivi che chi gli sta accanto non se ne accorgerebbe neppure.
Perché, allora, in questo caso vi è questa sovrabbondanza di parole?
È ancora un paravento; è un modo per nascondere non un secondo fine cosciente – come nel caso dell’oratore – ma per nascondere se stessi, per impedire – forse più ancora a se stessi che agli altri – di comprendere le proprie mancanze, le proprie esigenze, i propri impulsi.
Osservate bene colui che parla in continuazione, colui che spesso viene definito – con un’espressione genialmente intuitiva – uno «stancarcervelli». Potete ragionevolmente ritenere che ciò che egli dice sia davvero frutto di meditazione e di comprensione? Pensate davvero che egli sappia ciò che sta dicendo? Credete sia possibile che egli, in realtà, stia usando la parola come mezzo per esprimere il suo essere consapevole?
Provate a interrompere il chiacchierone inveterato e a chiedergli:
«Perché hai detto così? Cosa c’è dietro alla tua frase fatta, al tuo lungo discorso? Cos’è che ti ha fatto dire tutte le cose che hai detto?» Se riuscirete a interromperlo – e vi dico «se» perché spesso è difficile che il chiacchierone possa essere interrotto, in quanto una lunga pratica in costruzione di paraventi gli ha fatto capire che se riesce a costruirne tanti e in fretta, e ben ravvicinati, difficilmente qualcuno riuscirà a trovare uno spiraglio in cui introdursi per interrompere il loro fluire – lo vedrete annaspare, incespicare, noterete un lampo d’ira o una reazione improvvisa e – magari – oltraggiata che sfocerà poi, quasi sempre, in una brusca ripresa del parlare, in un improvviso aumento nella produzione di paraventi, perché la coscienza si rifiuta di essere portata in superficie e di venire messa a nudo.
Ecco quindi che il dono diventa pericolo.
Immagino che qualcuno di voi possa asserire, a questo punto, che io stesso sto usando il linguaggio in modo complesso e molto simile a quella valanga che do mostra di voler criticare. È giusto. L’unica differenza sta nel fatto che io ho piena coscienza di ciò che sto dicendo e del perché lo sto dicendo.
Così non vi dico di non parlare molto, ma vi dico che c’è modo e modo per farlo: se la parola diventa causa di se stessa, se diventa un bozzolo in cui avvolgersi, se diventa un impedimento all’evoluzione della persona, della coscienza e della consapevolezza, allora si trasforma in un difetto e non in un pregio. Ma, se la parola è espressione cosciente del sentire, se è un mezzo per esprimere, per cercare di arrivare a una maggiore comprensione di se stessi, per impedire all’individuo di restare bloccato nelle sue stesse trappole, allora la parola non solo è un dono divino ma diventa Dio stesso!
Ritorniamo all’inizio del nostro discorso.
Così come si dice che all’animale manca la parola per essere un uomo, si dovrebbe dire che nell’uomo vi sono troppe parole per essere un animale.
Sento già l’indignazione di coloro che propugnano l’elevatezza dell’uomo nella scala gerarchica della natura, che difendono l’iniziativa dell’uomo che è riuscito a salire dallo stadio animale fino alle attuali vette della civiltà! Calma, creature, non agitatevi troppo poiché non ho nessuna intenzione di svilire ciò che l’uomo è arrivato ad essere, e ve ne renderete conto alla fine del mio discorso. Intendevo solo dire che l’uomo, assieme allo sviluppo del linguaggio – sviluppo che ha scandito anche il mutare della civiltà in seno alla razza umana attuale – ha anche sviluppato ciò che più lo differenzia dallo stato animale, cioè l’Io.
Perché, vedete, ciò che diversifica l’uomo dall’animale non è certamente il fatto che l’uomo possieda un’anima e l’animale ne sia privo – se questo fosse vero, altrimenti, il nostro caro Dio non sarebbe poi così buono ed amante delle sue creature avendo fatto, già in partenza, una preferenza simile – ma è il fatto che l’uomo si identifica in se stesso: Pinco Pallino, figlio di…, nato a…, il…, e così via, estremo dopo estremo; è cioè il fatto che ogni uomo è un Io, separato e diverso – secondo lui – da tutto ciò che gli sta attorno.
La nascita dell’Io – che abbiamo visto svilupparsi gradatamente e strutturarsi a partire dai primi vagiti del neonato – è contemporaneamente un passo avanti e un passo indietro, positivo e negativo; segue, insomma, quella logica dell’ambivalenza che è in ogni cosa o fatto dell’universo. Se da un lato, infatti, l’Io diventa un vincolo, una catena, un impedimento apparente all’evoluzione dell’individuo, dall’altro lato lo sforzo di superarlo porta l’individuo al raggiungimento di uno stadio più elevato nel quale non sarà più l’animale che agisce, seguendo inconsapevolmente il suo istinto, ma sarà l’essere che agisce armonicamente e consapevolmente secondo la propria natura. Ma, attenzione: questa natura non sarà più solo quella propria del piano fisico, i cui impulsi sono tipici degli animali, ma sarà quella più complessa che è formata dalle parti dell’individuo che risiedono in piani di esistenza al di là di quello fisico e che l’uomo, poco alla volta, sente filtrare alla sua consapevolezza. Questo discorso porta troppo avanti e necessita di spiegazioni che ancora non tutti possedete, quindi ritorniamo al linguaggio, sperando che non vi sentiate come il coniglio a cui è stata sottratta, senza giustificazioni, un’appetitosa carota.
Se qualcuno di voi affermasse che il linguaggio e la parola sono necessari, e che senza di loro non potrebbe venire espressa la complessità della società attuale, io non potrei fare altro che inchinarmi in segno di tacito consenso. Infatti il linguaggio esprime chiaramente lo stadio che una società sta attraversando, ne è uno specchio, una perfetta esemplificazione. Questo spiega perché l’uomo attuale ha un linguaggio estremamente complicato, prolisso, cervellotico e, perché no, pieno di quelle che siete usi definire «parolacce»!
Quanto ho appena detto può apparire detto in tono ironico ed in effetti era proprio quella la mia intenzione, anche se non perché intendessi criticare la cultura attuale, ma solo per dare un attimo di respiro alla tetraggine di ciò che stiamo esaminando. In realtà sono felice di tutto ciò che sembro criticare nell’umanità attuale; anzi, vi dirò di più: spero che le cose vadano ancora peggio e che il linguaggio diventi così complicato e individuale che, alla fine, ogni essere umano abbia solo la possibilità di capire se stesso e non gli altri, come se si rinnovasse la storia della torre di Babele.
E – infatti – la torre di Babele è lì, che lentamente sta venendo nuovamente innalzata, bomba dopo bomba, satellite dopo satellite, ideologia dopo ideologia, religione dopo religione, teoria dopo teoria; e la storia si ripete esattamente come millenni fa: gli uomini stanno parlando sempre più linguaggi diversi fino ad arrivare alla completa incomunicabilità: il matematico è incomprensibile al letterato, il filosofo sembra che parli in marziano all’ingegnere, il politico – che è il più avanti di tutti, il più astuto nel saper cogliere e sfruttare la realtà umana del momento – parla proprio allo scopo di non farsi capire, il prete non si intende con i comunisti, i figli sembrano appartenere a un gruppo etnico totalmente diverso ed estraneo a quello dei padri, e via e via.
Che fare? Nulla: lasciamo andare avanti le cose come stanno andando perché ciò è un buon segno, fa sperare e rende ottimisti coloro che sanno guardare un po’ più innanzi: la torre di Babele crollerà da sola e da solo l’uomo si accorgerà che, per cercare e trovare Dio, non ha bisogno di violare i cieli, di proiettarsi all’esterno; che questa proiezione all’esterno è solo una tappa del cerchio che è la ricerca della sua divinità e che, in realtà – mentre sembra proiettarsi all’esterno in linea retta – sta curvando verso l’altro polo che è rappresentato dalla proiezione all’interno di se stesso. L’ubriaco che era tanto sbronzo da non riuscire a trovare la strada di casa sua, si sedette per terra e disse: «Se è vero che il mondo gira, la mia casa deve passare di qua!» Voi direte che questa è una logica da ubriaco. Niente affatto: questa è la logica dell’universo, dico io! Infatti, se è vero che esiste un Assoluto e che tutto fa parte di un Suo piano ben preciso in cui è contemplato che l’uomo ha un cammino davanti a sé da percorrere, allora qualunque strada l’uomo prenda o – come l’ubriaco – non prenda, il suo cammino, in realtà, sta proseguendo. Scifo

1  Il canto dell’upupa, pag. 104 e segg.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte seconda, Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

Illusione, percezione soggettiva della realtà

d-30x30Illusione, percezione soggettiva. Dizionario del

Un concetto importante riguardante l’individuo nella sua relazione con la vita che conduce sul piano fisico è quello della sua percezione soggettiva di quello che sta vivendo: la sua stessa costituzione (in particolare l’effetto conseguente al fatto di possedere un Io, illusorio ma, non per questo, scevro da conseguenze) lo porta a percepire in maniera selettiva i dati che gli provengono dalle esperienze affrontate, facendo tra essi una scelta influenzata da elementi quali il suo bisogno di comprensione o il suo tentativo di nascondere a se stesso verità sgradevoli che cerca di ignorare.
Questa ha come conseguenza una visione della realtà molto parziale e frammentaria, addirittura illusoria.

Messaggio esemplificativo (1)

Abbiamo visto in quale maniera l’Io viene alla ribalta nella percezione di se stessi a mano a mano che l’individualità inizia a incarnarsi nella forma umana e abbiamo sottolineato quale importanza esso rivesta, quale stimolo esso sia verso l’affrontare le esperienze e, quindi, verso l’evoluzione.
In quest’ottica risulta evidente il fatto che l’Io trae la necessità della sua esistenza (sia pure illusoria) dal bisogno di fornire all’essere incarnato l’occasione per osservare ciò che non ha compreso. Ne consegue che esso esiste nell’uomo fin dal primo momento in cui egli ha qualche cosa da comprendere e molto di non compreso: esso, infatti, è un’illusione che nasce proprio dalle sue non-comprensioni che si riflettono nel modo di affrontare la vita e le esperienze. Voglio sottolineare (anche al fine di sfatare errate concezioni o mal comprensioni dell’insegnamento) che anche l’uomo alla sua ultima incarnazione, effettuata prima di abbandonare definitivamente la ruota reincarnativa e, quindi, praticamente al culmine dell’evoluzione raggiungibile come essere umano, possiede ancora un Io e, se ci pensate bene, non può essere che così in quanto il solo fatto di essere immerso nella materia significa che doveva comprendere ancora qualche sfumatura, e questo, a sua volta, significa che una piccola parte di illusione e, quindi, di Io, esisteva ancora.
Da cosa si differenzia allora, rispetto all’Io, l’uomo alle prime incarnazioni dall’uomo alle ultime? Quello che è diverso nei due casi è la maniera in cui l’uomo si pone di fronte a quel fantomatico Io: se nelle prime vite come essere umano l’Io la fa da padrone, inducendo ad azioni completamente egoistiche al fine di soddisfare i propri apparenti bisogni, verso le ultime l’individuo riceverà certamente ancora delle spinte verso l’egoismo ma non ne sarà più dominato né sopraffatto e saprà, se vorrà farlo, accantonare le spinte del proprio Io quando la sua coscienza, ormai ben strutturata, gli suggerirà essere il momento giusto per andare al di là di se stesso nel nome di una fratellanza non più soltanto teorica bensì così acquisita da rendere «il fare per gli altri» ancora più soddisfacente intimamente del «fare per se stessi».
Tutto è Uno, dicono i Maestri, volendo significare con questo che siete, in realtà, tante piccole parti di quell’unico grande Tutto che l’uomo chiama con milioni di nomi differenti. Il fatto è, figli nostri, che non ne siete ancora profondamente consapevoli, tant’è vero che operate una separazione di valori e di intenti tra voi stessi e tutta la realtà che vi circonda, ignari del fatto che la meta sia unica per entrambi.
Mi sembra evidente, miei cari, che in questa prospettiva il concetto di illusione finisca col trovare spontaneamente una sua definizione e collocazione: dal momento che siete Uno, quello che siete e che fate appartiene non solo a voi ma anche a tutti gli altri che, assieme a voi, hanno percorso, percorrono o percorreranno, il cammino dell’evoluzione, così come è vero il contrario, ed è la vostra scarsa comprensione (e, quindi, il vostro Io) di come stiano veramente le cose che vi fa lottare, soffrire, gioire, desiderare di possedere, prevaricare, calpestare per ottenere e così via.
Inoltre, sotto l’influenza dell’Io, l’illusione è resa ancora più forte dal fatto che ognuno di voi, nell’osservare la realtà che vi circonda, crea una selezione tra le cose, le persone e i fatti che vi si presentano, trattenendo alla vostra attenzione solo ciò che colpisce, in qualche maniera, il vostro Io oppure ignorando o, addirittura negando contro ogni logica ed evidenza, quello che non è in sintonia con quelli che sono i vostri bisogni egoistici del momento.
Una cosa mi preme dirvi, fratelli: non sentitevi in colpa per ciò che siete ma pensate che il comportamento egoistico fa parte dei meccanismi naturali posti in essere per aiutarvi a comprendere: trovarsi di fronte a ciò cui il vostro Io, solitamente, si ribella (e, quindi, di fronte alla frustrazione o alla sofferenza), oppure a ciò che esso cerca di fare suo (e, quindi, ai suoi bisogni di soddisfazione) fa sì da dispiegare di fronte all’uomo che sa osservare se stesso quali siano le cose che non ha ancora compreso, al punto che può bastare talvolta anche la sola osservazione sincera delle proprie reazioni e dei propri comportamenti nelle varie situazioni per portare al raggiungimento della comprensione. Il mio timore è che la mia esortazione a non sentirvi in colpa possa essere usata dal vostro Io per giustificare ai suoi stessi occhi tutto ciò che fa… Sentirvi in colpa, lo ripeto, non serve che a farvi star male; tuttavia, fornirvi una giustificazione di questo tipo, in special modo per gli errori che commettete sapendo di commetterli, non vi porterà certamente una sofferenza minore; anzi, solo per il fatto di impedire al vostro sentire di fluire nel modo migliore, quello cui andrete incontro sarà ancora più doloroso di un normale senso di colpa, in quanto la consapevolezza di aver potuto, se aveste voluto, evitare sofferenza a voi e agli altri e non averlo fatto avvelenerà i vostri giorni.
Una domanda che ricorre spesso e che nasce spontanea allorché si parla dell’illusione è questa: «se il mondo che percepiamo è soggettivo, esiste qualche cosa di oggettivo?».
Non lasciatevi fuorviare da questa domanda, amici: ciò che percepite come esseri umani è soggettivo finché siete immersi nell’illusione, senza dubbio, ma lo è nei sentimenti, nell’attribuire connotazioni positive o negative a cose, persone e avvenimenti, nell’operare una scelta su ciò che osservate, nel pensare che esistano la fortuna e la sfortuna, nel ritenere appagante o deludente qualcuno senza tener conto che esistono anche i bisogni e le realtà degli altri. Tuttavia, sotto lo strato di percezione soggettiva, il vostro corpo è fatto di materia come lo è quello degli altri uomini, gli alberi hanno forma d’albero e le stelle brillano nei cieli senza nuvole, quindi, comunque, una realtà oggettiva esiste e, se pure essa non è esattamente quella che voi percepite, tuttavia ciò non la rende né meno vera né meno esistente.
Senza ombra di dubbio l’essere consapevoli di vivere immersi nell’illusione porta con sé delle conseguenze non indifferenti che creano un modo diverso di vivere la vita.
Chi riconosce le proprie illusioni vede più chiaramente se stesso trovando, così, più facilmente la strada verso il proprio sentire.
Chi svela l’illusione osservando se stesso si accorge che la sua stessa personalità è illusoria, per larga parte nata dalle sue incomprensioni, e con maggiore sicurezza può trovare la strada per far sì che la sua personalità assomigli sempre di più non al suo Io ma al suo vero Sé.
Chi percepisce l’esistenza dell’illusione non può che arrivare a sentirsi umile di fronte a ciò che crede di essere e di sapere perché diventa consapevole che da un momento all’altro le sue illusioni possono cadere e, allora, ciò che sapeva potrebbe rivelarsi un’assurdità priva di senso e ciò che era non sarebbe certamente più ciò che è diventato.
E, giunto alla fine dell’illusione, amerà con eguale amore le gioie e le sofferenze che ha avuto, gli amici e i nemici che ha incontrato, i giorni e le notti che ha vissuto, il bene e il male che ha attraversato, riconoscendo che nel grande palcoscenico del Tutto nulla è più importante o meno importante ma ogni cosa esiste perché è necessaria e indispensabile all’esistenza della realtà. Baba

1  Il teatro delle ombre, pag. 233 e segg.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte seconda, Edizione privata

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Gratificazione e bisogno

d-30x30Gratificazione. Dizionario del

Non c’è nessuna legge universale che dica che l’individuo non deve gratificarsi: quando si è incarnati si avverte il bisogno di una gratificazione, ed è giusto: la gratificazione può servire, può aiutare, può essere un incentivo ad andare avanti, può dare quel momento di serenità da cui poi si riparte con maggiore vigore per migliorare se stessi. Il problema nasce quando il bisogno di gratificazione non è più semplicemente un bisogno di gratificazione ma nasconde quello che si vorrebbe dall’altro e che non si ha il coraggio di chiedere, o quello che si vorrebbe che l’altro desse e che non dà.
Quello che lo rende ingiusto, invece, è il fatto che noi non osserviamo questa gratificazione, non ci chiediamo perché abbiamo bisogno di «quel» tipo di gratificazione.
Le Guide ci esortano, inoltre, a non fare gli errori che sono stati propagati nella società attuale da 2000 anni di chiesa cattolica; essere contenti, essere felici, gioire, godere della vita non è «un peccato», non c’è bisogno di mortificarsi, nessuno deve mettersi il cilicio a tutti i costi o frustarsi la schiena perché ha un Io che ha bisogno di essere gratificato; no, la gratificazione fa parte della realtà dell’esistenza all’interno della realtà illusoria che si vive e bisogna cercare di viverla con felicità, con tranquillità; senza dubbio, però, osservandola un attimo con attenzione cercando di capire questa gratificazione cosa nasconde e perché c’è questo bisogno. Viviamo, quindi, quando si è incarnati, il momento di felicità e di gioia, di gratificazione, ma chiediamoci, con una visione più allargata, perché questa gioia, questa felicità, questa gratificazione non si vive anche negli altri momenti; questo è il minimo che si possa fare.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte seconda, Edizione privata

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Figli e genitori nella visione del Cerchio Ifior

d-30x30Figli e genitori. Dizionario del

Negli anni le Guide sono ritornate spesso a parlare del rapporto tra genitori e figli, ritenendolo estremamente importante sia per l’esperienza evolutiva di entrambe le parti sia per lo sviluppo della società umana nel tempo.
Nelle loro parole l’accento è messo principalmente sui figli e sulle loro esigenze, anche per il fatto che questi, non avendo ancora strutturati adeguatamente i corpi astrale e mentale (la cui struttura definitiva sarà ultimata – è bene ricordarlo – intorno ai ventun anni) risultano essere più vulnerabili, più condizionabili e in una certa misura più modellabili dalle influenze a cui sono sottoposti.

Messaggio esemplificativo (1)

A proposito dei bambini più o meno piccoli e del loro rapporto con gli adulti, o meglio ancora sarebbe dire il rapporto che gli adulti hanno con i bambini più o meno piccoli, avevo analizzato quali erano i rapporti piuttosto strani che gli adulti hanno nei confronti dei bambini piccoli, prendendo come adulti tutte le persone di una certa età, le persone cosiddette mature che in qualche modo avvicinano e abbordano i bambini. Vorrei, ora, analizzare il problema sotto un altro punto di vista, prendendo degli adulti molto ma molto particolari, quelli che per il bambino sono i genitori: la madre e il padre.
Madre e padre che non è necessario che siano i genitori biologici del bambino, ma madre e padre quali figure di educatori del bambino.
Avevo affermato, in quel vecchio messaggio, che il rapporto tra genitori e figli è un rapporto molto particolare e che il discorso che avevo fatto allora non lo comprendeva.
Infatti, se il bambino si spaventa nel sentirsi urlare negli orecchi dagli estranei, se il bambino si agita nel vedere le facce «strane» che fanno gli adulti, se il bambino può restare turbato, impaurito o, in casi limite, terrorizzato, dalle «boccacce» che gli fanno gli adulti a pochi metri di distanza dal suo volto, non resta vinto da queste emozioni e da questi sentimenti quando questi adulti sono i genitori.
Quindi si può dire che un genitore, un padre o una madre, purché sin dall’inizio sia riuscito a stabilire un buon rapporto con la propria creatura, può fare qualsiasi cosa che il bambino non soffre, non ne risente in modo particolare.
Questo perché, se l’adulto è stato in grado di stabilire fin dall’inizio (e questo è importante e basilare direi) un buon rapporto con la propria creatura, questo figlio comincerà ad avere nei propri genitori un’estrema fiducia, fiducia che gli permetterà di lasciarsi fare dai genitori qualsiasi cosa. Ma vediamo questi genitori come se la cavano nei rapporti con il loro figliolo; generalmente il genitore proietta sulla propria creatura tutti i sentimenti migliori, proietta sul proprio figlio quello che pensa sia l’amore, proietta quello che pensa sia la purezza, l’ingenuità, la nobiltà d’animo, l’onestà e cose del genere. Ma purtroppo, se questa sua creatura ad un certo punto riesce (e molto spesso ci riesce anche bene) a stancare il genitore e farlo adirare, a fare i «capricci» al punto da fargli perdere la pazienza, ahimè, il genitore comincia col proiettare sul proprio figlio tutta la sua aggressività.
Ah, l’aggressività che si scaglia contro la propria creatura, o con il classico «sculaccione», o con le parole dette con tono di voce «alterato», o addirittura con «urla», o con rabbia, o con sentimenti che fanno pensare quanto sia fragile, in realtà, l’amore che il genitore crede di provare per la propria creatura.
Oh, sei stato colto in fallo, Francesco; questo non l’avresti dovuto dire perché le Guide stesse hanno sempre affermato, e continueranno ad affermarlo, che chi ama veramente sa essere anche duro.
Questo è vero, mi sta bene, lo accetto, lo sottoscrivo e lo confermo: soltanto chi ama veramente, soltanto chi conosce l’Amore sa essere severo, duro con la persona che ama. Ma da lì, cioè dal saper essere duri con le persone che si amano, all’essere aggressivi la differenza è enorme.
Certo che anche il Cristo, almeno dalle cose che sono state raccontate su di lui, sembra che ad un certo punto, esasperato, esacerbato da certi comportamenti, abbia veramente perso la pazienza e sia andato – come si suol dire – un po’ «fuori di testa», facendo qualcosa di non certamente attribuibile ad un «illuminato», o ad un «figlio di Dio», o ad una persona che sembrerebbe avere raggiunto veramente una evoluzione così elevata da costituire una meta per tanti altri individui. Ed è qua che sorge il grande problema!
Perché, vedete, è molto importante fare delle distinzioni; è molto importante scegliere, distinguere tra quella che è pura e semplice aggressività, e quindi un bisogno dell’individuo di scaricare le proprie tensioni accumulate magari per chissà quali motivi, e durezza usata quale arma per favorire la comprensione della persona che si sta amando.
Quindi, cerchiamo di distinguere per questi genitori i vari momenti per cercare di fare un po’ di luce in questo discorso.
Mettiamo che io sia un padre; ho la mia creatura qua davanti, la mia creatura sta compiendo un’azione che potrebbe alla lunga arrecare a lei un danno. Prendendo come punto di partenza la favola di Ananda (2), il mio comportamento dovrebbe essere quello di dirgli:
«Bada bene, figlio mio; sta’ attento» e poi ridirglielo, e poi ridirglielo ancora, poi ancora, ancora, e, alla fine, passare alle cosiddette maniere forti, affinché il bambino arrivi alla comprensione. E fin qua penso che siate tutti d’accordo, e la cosa mi sta benissimo, così come sta benissimo ad ognuno di voi.
Questo rientrerebbe nel giusto comportamento e sarebbe molto simile al comportamento tenuto dal Cristo in quel famoso tempio.
Ma io purtroppo sono una creatura umana, ho i miei momenti di rabbia, ho i miei momenti di tensione, tensione accumulata perché, chissà, magari in ufficio, dove lavoro, mi sono andate male le cose, perché il mio capoufficio ha trovato da ridire sul lavoro da me fatto, oppure perché non riesco a comunicare e a capirmi con la mia compagna, oppure perché, sempre in ufficio, è passata qualche signorina che mi è parsa un po’ più bella della mia compagna e mi frulla quindi qualcosa per la testa che non riesco a capire, o qualsiasi altro motivo si voglia.
Ecco così che il mio bambino, la mia creatura, la creatura che io ho ardito di mettere al mondo, fa qualcosa che mi infastidisce soltanto, qualcosa che – anche alla lunga – non arrecherebbe alcun danno, e questo stimola la mia reazione aggressiva.
Per essere ancora più chiaro: io arrivo a casa alla sera con una miriade di pensieri per la testa, di preoccupazioni, e quindi di tensioni, e trovo la mia creatura che si diletta nel suonare la trombetta.
La mia creatura suona la trombetta e si diverte e ride; quel suono di trombetta disturba il corso dei miei pensieri, mi innervosisce, mi fa saltare su i nervi, ed allora ad un certo punto accade che io uso la durezza nei confronti della mia creatura, durezza che non è motivata dal desiderio di far comprendere qualcosa a mio figlio, ma è durezza che nasce soltanto da un bisogno mio, egoistico, personalissimo, di avere un momento, due momenti, tre momenti, magari anche l’intera serata, di tranquillità per continuare il corso dei miei pensieri. “Sì certo – direte voi – ma d’altra parte non è giusto che il bambino continui a suonare la trombetta per ore ed ore.» Ma sono d’accordo, ci mancherebbe altro; non solo infastidirebbe voi ma anche tutto il vicinato; ma da lì ad usare i metodi duri, utili soltanto per scaricare la propria aggressività su quella creatura, il passo, cari miei, è effettivamente enorme, perché lo stesso risultato – cioè far smettere il proprio figliolo di suonare la trombetta facendogli comprendere quanto quel suono possa stancare non soltanto me ma anche tutte le altre persone che restano vittime di questo suono fastidioso – si sarebbe potuto ottenere usando altri metodi senza trovare l’innesco, la famosa goccia, per far uscire tutta la propria aggressività, per scaricare tutte le tensioni nate da problemi personali e non coinvolgenti quindi il proprio figliolo.
E questi errori, e queste cose, purtroppo, sono molto comuni ai genitori, sia le madri che i padri (e direi che, osservando gli uomini, questi comportamenti sono distribuiti in egual misura tra le madri e i padri, anche se correnti di pensiero tendono ad attribuire una maggiore aggressività agli uni piuttosto che agli altri), agiscono frequentemente in questo modo, anche se purtroppo (mi tocca dirlo ancora una volta) sono mascherati alla mente stessa dei genitori come comportamenti strettamente necessari affinché la loro creatura possa arrivare alla comprensione.
Eh no, cari miei; distinguete: io non voglio dirvi, intendiamoci bene, che dovete essere così evoluti nei confronti dei vostri figli da non avere mai il momento in cui perdete la pazienza; voglio dire che dovete stare ben attenti a come vi comportate nei momenti di durezza nei confronti dei vostri figli, per osservare quanto questa vostra durezza nasca veramente dalla necessità di far comprendere qualcosa alla vostra creatura, o nasca invece dal bisogno vostro di scaricare una tensione su quella creatura che in quel momento è lì davanti a voi e che così facilmente vi offre l’opportunità di farlo.
Questo è il punto molto importante, anche perché osservando gli uomini (ho lasciato il mondo fisico da parecchio tempo e quindi sto osservando gli uomini da tanto tempo sotto una prospettiva molto diversa, così ho potuto comprendere molte cose che prima non capivo) ho potuto vedere quanto queste forme di severità, di durezza nell’educazione, siano molto spesso associate a forme di lassismo senza limite quasi.
E questo è uno dei danni peggiori.
Ho notato, per esempio, che la trombetta suonata per ore in un momento di tensione stimola la reazione aggressiva, la reazione di durezza compiuta all’unico scopo di scaricare la propria tensione interiore; in un momento, invece, di rilassatezza, in un momento di tranquillità, in un momento in cui il genitore si trova in condizioni ideali perché tutto gli sta andando a gonfie vele, magari anche con quella signorina che suscitava pensieri un po’ strani, lascia che il proprio figliolo suoni la trombetta per alcune ore. Anche perché, tutto sommato, quel suono potrebbe apparire al genitore un inno di gioia proprio perché le cose gli stanno andando bene, dimenticandosi quindi di quanto fastidioso possa essere quel rumore, anche se suono, alle orecchie del vicinato.
Quante volte adottate una linea di durezza per certe azioni e, magari il giorno dopo, per quelle stesse azioni adottate una linea di accondiscendenza! Accondiscendenza e durezza devono andare di pari passo, essere equilibrate, date, usate al momento giusto e nelle condizioni giuste.
Se voi siete infastiditi per quella famosa trombetta e se ritenete che quella famosa trombetta possa danneggiare altre persone, se non proprio vostro figlio, allora ogni volta che lui suona la trombetta dovreste sempre cercare di fargli comprendere che non è giusto che lo faccia perché potrebbe disturbare qualcuno; e questo non sempre accade.
Così questo povero genitore che si trova di fronte a quella piccola creatura che è suo figlio, che ha avuto l’ardire di fare nascere, che l’ha desiderato, che l’ha aspettato per tanto tempo, che l’ha visto venire al mondo così piccolo ed indifeso, bisognoso di cure, e che l’ha visto crescere ogni giorno, sviluppare le sue capacità fisiche, mentali, emotive; così, questo povero genitore, a volte, e con una certa frequenza in particolari ambienti, trova nella propria creatura un alleato per dare sfogo alla propria immaturità, alla propria insoddisfazione, alla propria incostanza, alla propria infelicità, infelicità che si sta costruendo da solo, quasi come se imputasse al figlio stesso di essere la causa di queste sue emozioni interiori; emozioni che egli prova e continuerà a provare finché non riuscirà ad amare veramente anche soltanto quella sua piccola creatura. Francesco

Se si pensa, infatti, ai propri figli, dei quali ogni genitore ha il dovere di assumersi ogni responsabilità, soprattutto quella di impartire loro una sana educazione, risulta evidente che è impossibile non compiere sforzi per superare certi dettami dell’Io che altrimenti farebbero agire l’individuo a danno dei propri figli.
Per quanto risulti pressoché automatico per dei genitori maturi e consapevoli andare contro il proprio Io per il bene dei figli, si creano spesso tra genitori e figli delle situazioni in cui il genitore si trova in difficoltà per far tacere i propri bisogni, con conseguenti sensi di colpa o momenti di aggressività verso se stessi per non essere riusciti a «controllarsi» e a dare quell’immagine di serenità e tranquillità tanto necessaria in una sana educazione.
A parte il fatto che impartire una buona educazione ai propri figli non è per niente un compito facile, e a parte anche il fatto che reazioni di questo tipo sono molto più comuni di quanto si possa pensare (certo questo non deve servire da consolazione), è anche vero che l’avere verso i propri figli delle reazioni «stizzite», o «di rabbia» e anche «aggressive» (senza cadere ovviamente nell’eccesso) può essere loro molto utile, poiché si permette loro di conoscere il genitore nella sua totalità e non si corre il rischio che il genitore venga idealizzato troppo; senza contare poi che in questo modo si infonde in loro il dubbio che anche i genitori, forse, hanno dei  bisogni.
Certo se si guarda agli elevati insegnamenti d’amore delle Guide, quanto ho appena detto può apparire una contraddizione, ma non è così; perché l’insegnamento etico-morale che vi viene proposto vi indica come dovrete diventare e non vi giudica per quello che attualmente siete.
A consolazione posso ancora dirvi che i famosi «sacrifici» (soprattutto quelli fatti a danno del proprio Io) compiuti nei confronti dei propri figli per il loro benessere e la loro felicità, sono tra i primi passi più importanti per raggiungere l’annullamento dell’Io, e vedrete che dopo aver esperito questi momenti con i vostri figli, sentirete spontaneamente l’esigenza di fare i primi vostri tentativi anche nei confronti degli altri vostri fratelli, e chissà se, in questo caso, i risultati non saranno più immediati… Federico

Volevo aggiungere qualcosa a proposito dei figli per mettervi sull’avviso e ricordarvi di stare bene attenti a come vi comportate con essi, perché anche in questo caso l’Io molto spesso gioca dei brutti scherzi.
È molto facile infatti, come vi era già stato detto, vedere nei figli una continuazione del proprio Io, e quindi molto spesso e volentieri si tende a pretendere da essi che facciano tutto ciò che non si è stati in grado di fare, e può accadere che tutti quei «sacrifici» di cui parlava poco fa Federico non siano fatti così spassionatamente, ma che alla base di essi esista un forte bisogno egoistico.
Accade molto spesso, ad esempio, che un individuo sia molto orgoglioso del fatto che il proprio figlio studi – e magari frequenti un corso di laurea all’università – e riponga in questo fatto molte speranze e aspettative dagli esiti di questo sacrificio (anche perché mantenere un figlio all’università in molti casi è un compito gravoso). Poi di punto in bianco, per una scelta personale, questo ragazzo non si sente di continuare e di andare avanti negli studi.
Questa situazione è molto frequente (non stiamo certamente ad analizzare in questa sede le motivazioni che spingono molti giovani ad abbandonare le aule dell’università) ed essa arreca, in genere, un grande dolore nei genitori, che vedono in questa azione sfumare tutte le loro speranze.
Al di là del fatto che questo dolore possa essere motivato da vari tipi di preoccupazione circa il futuro del giovane in questione, è purtroppo molto frequente che questa reazione sia motivata da una reazione dell’Io, proprio perché l’Io del genitore si sente ferito dalla «ingratitudine» dimostrata dal figlio nei confronti degli sforzi e dei sacrifici compiuti per mantenerlo agli studi, poi perché in questo modo il motivo di orgoglio si è sciolto improvvisamente come neve al sole, poi perché non potrà più «far mostra» delle capacità del proprio figlio (capacità che sente sue come suo sente quel figlio) e così via sotto altre sfaccettature, che tutte – inevitabilmente – conducono ad un’unica conclusione, quella cioè di un Io forte che cerca una gratificazione indiretta a spese di altri.
Lo stesso discorso lo si potrebbe adattare ai figli dei propri figli, che rappresentano una doppia fonte di orgoglio, ma non mi sto a dilungare su questo perché ritengo che da soli, dopo quanto detto precedentemente, immaginiate dove voglio andare a parare.
Il genitore consapevole e maturo dunque non dovrebbe pretendere mai nulla dal proprio figlio e, ancor prima di considerarlo il «proprio» figlio, dovrebbe ricordarsi che egli è un individuo e, come tale, con delle esigenze, dei bisogni da rispettare e soddisfare. È vero che è stato detto che un individuo, quando si assume la responsabilità di essere genitore, dove assumersela fino in fondo, anche quando i figli non sono più bambini, ed è quindi giusto che segua, consigli, indirizzi la propria creatura, ma ciò che assolutamente non dovrebbe mai fare è star male, sentirsi «distrutto» quando il proprio figlio compie una scelta consapevole che cozza contro le aspettative del genitore. State attenti al vostro Io nel corso dei rapporti con i vostri figli, poiché non vi è nulla di peggio (come sofferenza) che restare delusi da ciò che con tanto amore si è cullato, curato, seguito, fatto crescere; abbandonate la possessività nei loro confronti, perché essi non sono «vostri» ma appartengono soltanto a se stessi anche se, quando erano piccoli, bisognosi di cure, indifesi, incapaci di agire, vi hanno dato l’illusione di essere a voi legati per sempre. Massimo

Il bambino, soprattutto quello piccolissimo, data la sua struttura fisica nuova e non avendo, possiamo dire, allacciato ancora del tutto i suoi nuovi corpi (il corpo astrale, il corpo mentale) è più in diretto contatto con il mondo spirituale che ha lasciato da poco; inoltre, da un punto di vista psicologico il suo Io è in via di formazione e quindi non è del tutto strutturato.
Si sa che il bambino piccolo tende alla spontaneità, è aperto alle esperienze, è desideroso e talvolta anche impaziente di imparare, ma via via che cresce potrete notare che questa freschezza, questa spontaneità, questa apertura si attenua fino a scomparire quasi del tutto; e via via che la sua personalità si costituisce e si solidifica, vedrete che i suoi primi attributi ne risentono e in questo modo si allontana dalla Realtà e dalla Verità.
Questo accade sia perché i corpi cominciano ad allacciarsi e quindi entrano in campo fattori nuovi che servono soltanto a complicare la struttura della personalità del piccolo, sia perché entrano in gioco gli adulti che, sentendosi forse degli dei, tendono a modellare quella creatura a propria immagine e somiglianza, per non parlare poi degli educatori, che, per il solo fatto di aver studiato, tendono a stigmatizzarli, a generalizzarli, a generalizzare ciò che, a mio avviso, per nessuna ragione può essere chiuso in rigidi e, scusatemi il termine un po’ forte, stupidi schemi.
Porto un esempio: se si dà un elaborato grafico di un bambino di pochi anni ad uno studioso – o magari per rendere più interessante l’esperimento a più studiosi, noterete che ognuno di essi dà un’interpretazione diversa dall’altro – vi sentirete dire le più esilaranti corbellerie, esilaranti almeno per me, che dalla mia parte posso vedere alcune cose che dall’altra non si possono vedere.
A volte si vede, si nota che chi afferma, chi si mette dalla parte dello studioso, quindi colui che afferma, non si rende conto, nel momento stesso in cui interpreta, ad esempio, un test proiettivo, di interpretare quello che l’eventuale «paziente» voleva significare, e non si rende conto – dicevo – (proprio non può) che la proiezione la sta facendo lui stesso e proprio nel momento in cui interpreta. Vi sentirete dire le più grandi assurdità – dicevo – e, con una certa tristezza, mi tocca anche dire le più preoccupanti affermazioni di modificare a tutti i costi, quella personalità che si sta costituendo.
Quello che vivifica i bambini, ricordo quindi ancestrale di amore ed energia, contatto più vicino, più diretto con tali forze, viene così manomesso, manipolato, a volte persino a scopi egoistici, sfruttato in taluni casi e miseramente soffocato. Se volete che almeno una minima parte di quel ricordo d’Amore, di energia, rimanga intatto, tenete in considerazione il fatto che quelle strane creature che sono i bambini hanno una personalità che è una e diversa da quella degli altri bambini, ed in quanto tale, proprio per il fatto di essere unica, è inconoscibile anche se complementare alle altre.
Rispettate quindi questa loro individualità, e non gettate su di loro i vostri problemi, le vostre paure, i vostri sensi di colpa, le vostre ansie, lasciateli crescere naturalmente: l’esistenza, la vita, l’amore, pensano già (e vi assicuro molto meglio di quanto possiate fare voi) a creare per questi piccoli, le esperienze necessarie alla loro maturazione.
Non allontanatevi con le più strane fantasticherie dalla realtà solo perché essa fa paura a voi, non imbottiteli di concetti assurdi la cui esistenza ha come unica giustificazione la tranquillità o il tacitarsi della vostra coscienza.
Essi diventeranno adulti, certo, senz’altro cresceranno e non saranno più com’erano da piccolissimi in diretto contatto con l’Amore e l’Energia, ma se voi cercherete di non modellarli secondo la vostra volontà e i vostri desideri, secondo i vostri personali bisogni, secondo i vostri scopi per compensare le vostre frustrazioni, essi avranno senz’altro, ve lo posso assicurare, qualche spiraglio di luce in più rispetto a quelli che i vostri genitori vi hanno concesso di avere.
È quindi molto importante cercare di mantenere un senso di sincerità, di spontaneità, di freschezza nei rapporti con i bambini.
Nella mia esperienza di «guardone» (infatti dal mio piano di esistenza ho avuto occasione di osservare a lungo il mondo degli uomini e i loro comportamenti) ho notato che molte madri colte, istruite, magari pure laureate, hanno commesso più errori nell’educazione dei propri figli della casalinga ignorante che aveva soltanto la prima elementare. Perché questo?
Perché la madre colta, istruita, piena di teorie di qua e teorie di là (e qua i nomi sono tanti, perfino troppi sinceramente), ha finito con il confondere quella che era la sua parte naturale, istintiva di madre con le cose che dicevano i luminari della pedagogia (che poi, non avevano avuto nella loro vita neanche un figlio!), mentre la madre ignorante, quella che – al limite – si è ritrovata madre per caso senza sapere come ha fatto a diventarlo, ha provato subito per la sua creatura qualcosa di diverso ed ha continuato a mantenere con questa sua creatura quel cordone ombelicale invisibile che suggerisce tutte le risposte giuste ad ogni problema, cordone ombelicale che dovrebbe in ogni caso continuare a legare una madre con il proprio figlio.
E sì, per quanto possa sembrare esagerato, vi assicuro che la madre colta, istruita, laureata magari, preoccupata perché il proprio figlio non mette il dentino tra il sesto e l’ottavo mese (come tutti i manuali di puericultura che si rispettino indicano) è capacissima di portare la propria creatura dal «chirurgo» per fargli incidere le gengive, mentre la madre ignorante, quella che, magari, ha fatto soltanto la prima elementare dice tra sé e sé: «Prima o poi lo metterà!». E come ha ragione la seconda se soltanto fosse possibile intuirlo da parte vostra.
Se solo pensate che ogni cosa che vi accade è predeterminata e governata dalla Legge Universale, potreste capire che anche la crescita ritardata di un dentino ha una sua motivazione che va oltre le ragioni fisiologiche dell’individuo.
Voglio con questo ricordare che tutto quello che accade nel mondo fisico, nella materia fisica, tutto quello che accade ad un corpo fisico, fin dal suo nascere, è necessariamente legato a dei bisogni evolutivi: sì, questo è chiaro, ma a quale bisogno evolutivo può corrispondere ad esempio la crescita ritardata di un dentino?
Vi posso rispondere soltanto che se voi riusciste a capire e sapere quante implicazioni ci sono e quanti individui quindi restano coinvolti per l’azione di una sola persona, avreste capito la Realtà.
Solo in questo caso – peraltro molto sciocco – quello della ritardata crescita del dentino nel momento giusto, restano implicati: la creatura stessa, i genitori del bambino, il medico del bambino, tutte le persone che danno consigli più o meno gratuiti, per non parlare poi di tutte le altre persone che trovano un’occasione in più per «malignare».
Succede così che molte persone, spinte dal desiderio di conoscere, di sapere, corrono il rischio di allontanarsi da quella che è la «parte di cuore» del rapporto con gli altri – e in particolare coi bambini – parte più naturale, più spontanea e quindi più vera.
Avevo affermato che i bambini, soprattutto poi quelli piccolissimi, sono le persone più spontanee, più aperte, le più semplici e le più naturali e non possono essere trattate che allo stesso modo di come esse si presentano agli altri. Quale deve essere quindi questo rapporto con quelle creature, se non quello di essere altrettanto spontanei, sinceri, altrettanto naturali?
È certa una cosa: quando ci si trova di fronte ad un bambino di tre, di quattro, di cinque anni e lui, con la sua spontaneità fa una domanda particolare, che può essere quale esempio quella di «come nascono i bambini» (che mette sempre in crisi gli adulti!) se si comincia a pensare: «Ah, il Tal Dei Tali direbbe così, ma quell’altro ha detto che bisogna far così, ma quell’altro ancora ha detto che è meglio agire così!» (e se poi si va a ben guardare sono sempre modi l’uno diverso dall’altro se non addirittura in contrasto tra di loro) allora non riuscite mai a dare niente a quella creatura che si sta aspettando qualcosa da voi, ma se voi riusciste a risponderle così istintivamente, naturalmente, così come vi viene in quel momento, senza badare se quello che viene detto rientra nei canoni della pedagogia e della psicologia ufficiale, allora veramente, riuscireste a dare una mano a quella creatura, non deludendo le sue aspettative.
E non c’è nulla di peggio del deludere le aspettative di un bambino. Francesco

1  La ricerca nell’ombra, pag. 68 e segg.
2  AI lunedì il padre disse alla figlia: “Figlia mia, sarebbe bene che tu non lasciassi sempre in mezzo alla stanza la tua bambola preferita di porcellana, dopo aver finito di baloccarti con essa”.
AI martedì raccolse lui stesso la bambola e, attirando l’attenzione della figlia, la rimise a posto.
AI mercoledì chiamò la bimba e con dolcezza la sgridò.
AI giovedì si fermò davanti alla bambola finché la figlia non la ripose.
AI venerdì le ripeté la raccomandazione, aggiungendo che – oltre tutto – la bambola avrebbe anche potuto rompersi.
AI sabato le disse che prima o poi qualcuno avrebbe potuto, inavvertitamente, calpestarla.
Alla domenica aspettò che la figlia lo guardasse e, intenzionalmente, attraversò la stanza spezzando la bambola con il piede.
La bimba pianse e si disperò ma, finalmente, comprese.  (Ananda)

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte seconda, Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

 

Etichettare, rientrare negli schemi

d-30x30Etichettare. Dizionario del

L’amore per le etichette – ci hanno detto le Guide – è uno degli elementi di maggior rilievo nella vostra società attuale: tutto deve rientrare negli schemi, deve poter essere classificato nero o bianco, giusto o ingiusto, vero o falso.
Ne scaturisce una società in cui, per forza di cose, nascono le contrapposizioni e i contrasti e nella quale anche persone che ormai, col passare del tempo, la pensano in fondo allo stesso modo, diventano o restano antagonisti perché la parte avversa, in quanto tale, è ormai etichettata come rivale o come nemica, dimenticando che la rivalità dovrebbe essere unificata dal comune desiderio di fare il bene maggiore per la società.
Questo avviene, d’altra parte, in tutti i campi dell’attività umana, da quello politico a quello religioso, da quello pragmatico a quello ideologico.
È un po’ come se fosse andato perduto il senso delle sfumature che ombreggiano il Grande Disegno, quelle sfumature che gli conferiscono vigore, vitalità, varietà e una bellezza senza confronti.

Messaggio esemplificativo (1)

Il nostro insegnamento è teso a recuperare il senso delle sfumature: pur contenendo elementi di base ben precisi e delineati nel tempo, detti elementi si fondono, si confondono, sfumano, interagiscono l’uno con l’altro a tal punto che un parlare in maniera generica risulta talvolta difficile (in special modo se il discorso verte su ciò che riguarda l’individuo) e ci costringe a dirvi che a determinate domande non è possibile dare una risposta che sia valida in generale, ma che la domanda dovrebbe essere osservata e discussa nell’ambito di un individuo specifico o di una particolare situazione.
Chi vede in questa nostra posizione un non voler dare una risposta precisa e il tentare di evitare l’argomento sbaglia di grosso e, evidentemente, non ha compreso appieno il senso di ciò che noi siamo andati dicendo e, cioè, che ogni individuo è uguale solo a se stesso, in quanto non esistono due esseri incarnati con la stessa identica evoluzione e, di conseguenza, con le stesse dinamiche, pulsioni e motivazioni interiori.
Applicare un’etichetta a qualche cosa, oltre tutto, significa poter catalogare questa cosa al fine di creare, attraverso quella classificazione, un insieme di norme che la regolino, altrimenti l’etichettatura stessa diventa una cosa completamente superflua. Questo conduce alla creazione di quel mostro auto alimentante che abbiamo chiamato «organizzazione» il quale, attraverso le sue classificazioni che portano alla costituzione di regole fisse e di gerarchie, finisce con l’esistere non più per portare avanti quelli che erano i suoi fini iniziali, bensì per mantenere le etichette là dove, per prime, erano state poste, chiudendosi al nuovo, ai cambiamenti per paura che la struttura possa crollare per l’influenza di fattori aggiuntivi.
Il risultato – come voi stessi potete constatare tutti i giorni nel vivere la vostra società in cui il governo è contro la magistratura, il Nord contro il Sud, il povero contro il ricco e, alla fin fine, tutti sono contro tutti – è quello di creare un campo di libero movimento per l’Io e per i suoi tentativi di espansione fornendogli, oltre tutto, ottime scuse razionali per giustificare ciò che egli compie, apparentemente nel nome di un ideale qualsiasi ma, a ben vedere, per continuare a mantenere su se stesso l’etichetta che si è conquistata e, con essa, i privilegi e gli attributi che essa può offrirgli.
È per questo motivo che non abbiamo mai puntato sul fatto di essere da voi considerati «spiriti» o «Maestri»; troppo facile sarebbe ottenere credito per le nostre parole sfruttando queste etichette, stimolando la vostra fede o approfittando della vostra abitudine ad accettare i dogmi. Infatti, il fatto di essere degli «spiriti» non ci investe di per se stesso degli attributi di «saggi» oppure di «portatori di Verità» e, quindi, comunque e sempre credibili. Se colui che abbandona il piano fisico, automaticamente, diventasse veramente saggio non avrebbe più alcun senso la reincarnazione né, tanto meno, la stessa prima immersione nella materia!
La Realtà è meno idealistica e, senza alcun dubbio, meno appagante per l’Io dell’individuo: dopo la morte è saggio lo «spirito» che ha compreso, ma resta con le sue comprensioni e con le sue manchevolezze colui che, nel corso delle vite fino ad allora compiute, non ha voluto o non è riuscito a comprendere. Si può presentare, questo è certamente vero, la possibilità di una visione più lucida della propria realtà e delle proprie motivazioni interiori ma – e questo è altrettanto vero – non vi è la certezza della propria giusta comprensione fino alla verifica della vita successiva.
Così chi era presuntuoso in vita sarà presuntuoso dopo morto, chi era aggressivo conserverà la propria carica aggressiva, chi era egoista si porterà con sé il proprio egoismo e così via, fino a che l’unica, insostituibile e ineguagliabile grande Maestra, l’Esistenza, l’avrà reso sentitamente umile, l’avrà reso capace di esprimere dolcezza, l’avrà messo in grado di condividere con gli altri superando il suo egoismo.
Non è nostro desiderio, quindi, essere etichettati come «spiriti», così come voi non dovreste accettare a cuor contento quella di «spiritisti» la quale, già di per sé, dà l’impressione dell’individuo che sfugge alla realtà della vita demandando le sue responsabilità ad un Aldilà estremamente improbabile, fatto di sola luce e di belle parole.
È anche per questo motivo che siamo venuti tra voi presentandoci con personalità il più umane e varie possibili: per ricordarvi che gli spiriti non sono come l’immagine popolare li raffigura, fini dicitori di parole sante, ripetitori interminabili di lodi a Dio, continui enunciatori di richiami al misticismo quale rifugio dalla materialità della «deprecabile» vita terrena, ma sono esseri che sanno (quelli, almeno, che hanno compiuto abbastanza strada per averlo compreso) che la vita terrena è bella e necessaria e, proprio per questo, va amata e considerata nel modo giusto, vissuta per quello che è, ovvero un mirabile strumento per dare, al di là delle facili parole, la possibilità di crescere all’individuo.
Noi vi diciamo ancora una volta, nel caso ce ne fosse bisogno, che un atteggiamento serio e spirituale (secondo l’etichetta che a questa parola è stata attribuita) non è indice necessariamente di evoluzione e che parlare di Dio non significa credere in Lui, ricordandovi che vale più l’ateo che agisce per gli altri senza credere nel Paradiso che il sacerdote che predica la povertà del Cristo ammantato da ricchi paramenti e che un momento di gioco o una spontanea risata non sono dissacranti ma possono manifestare una condizione di armonia con la Realtà.
In quanto, poi, all’etichetta di «maestri» essa è così inflazionata, nella vostra epoca, che non sappiamo quanto essa sia più da ritenersi rispettosa! Ogni essere umano – non ci stancheremo mai di ripeterlo – ha in sé qualche cosa che ha imparato nel corso della sua evoluzione e che, quindi, ne fa il portatore di una Verità che egli può comunicare ad altri esseri umani, aiutandoli sulla via della loro comprensione.
Questo avviene spesso, molto più spesso di quanto ve ne rendiate conto: attratti come siete principalmente dal fascino delle parole o di colui che parla, molto spesso accade che non vi accorgiate che il comportamento di chi vi sta a fianco, silenzioso, sarebbe Maestro per il vostro comportamento se voleste porre ad esso maggiore attenzione.
Noi, che abbiamo alle spalle il retaggio di qualche vita vissuta in più rispetto a voi, possiamo forse indicarvi strade che altrimenti sfuggirebbero alla vostra consapevolezza, ma non in quanto «spiriti» o «maestri», bensì come esseri le cui parole vanno, comunque, da voi vagliate e le cui azioni vanno, comunque, da voi riconosciute giuste o sbagliate in base a ciò che fanno vibrare nel vostro intimo.
Se voi arrivate a credere a ciò che noi diciamo perché siamo «spiriti», ce ne rammarichiamo con voi, ed è successo senza che noi lo volessimo: la fede in noi, la fiducia nei nostri confronti, non deve portarvi ad essere ciechi, né ad ottenebrare il vostro senso critico o a rendervi pappagalli inconsapevoli di ciò che diciamo o facciamo, ma deve rendervi liberi di vagliare consapevolmente e, consapevolmente, farvi accettare o rifiutare quello che, secondo il vostro sentire, può essere o no una verità.
Qualcuno tra voi, ultimamente, si è chiesto se noi siamo kardechiani o continuatori del movimento spiritico di Kardec. Questo interrogativo ci fa sorridere: noi non siamo kardechiani come non siamo buddhisti o marxisti! La nostra idea è che, per chi davvero ha interesse a cercarla, la Verità esiste dovunque, anche se spesso mescolata, intrecciata, resa confusa da proiezioni dell’Io .
Lo spiritismo di Kardec risale a quasi un secolo e mezzo fa e le parole che contiene erano rivolte ad un uomo diverso, interiormente, per tipo d’esperienza e per grado di evoluzione, da quello attuale e, pur contenendo argomentazioni di base valide ancora oggi, ha in sé anche molti concetti filtrati dagli Io dell’epoca che hanno influito sia sulla raccolta dei messaggi sia sui contenuti degli stessi.
Inoltre non è nostra intenzione sostituire una religione in cui uomini diventano vicari di Dio in Terra per scelta politica, economica o organizzativa, con un’altra religione in cui a questo ruolo sono eletti presunti spiriti, donando ad essi lo scettro del comando su ciò che l’uomo deve o non deve fare.
Come già dicevo prima organizzazioni, partiti, movimenti e via dicendo sono ben lontani dalla nostra concezione dell’andare verso l’abbandono della ruota del karma per raggiunta comprensione: la strada di ogni essere umano è diversa da quella di un altro, anche se, magari, percorsa in compagnia, e ciò che le accomuna e le parifica non è e non può essere lo «spiritismo» o qualunque altro concetto di massa, bensì il desiderio, strettamente individuale, di arrivare, finalmente, a comprendere la Realtà. Moti

 1  L’Uno e i molti, Vol. 5, pag. 19 e segg.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte seconda, Edizione privata

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