Tolleranza e fermezza

d-30x30Tolleranza. Dizionario del

Sino a che punto bisogna essere tolleranti? Questa è la tipica domanda è un po’ difficile dare una risposta generica, perché bisognerebbe osservare caso per caso l’applicazione della tolleranza; in quanto esistono dei casi in cui è necessario essere sempre tolleranti perché, altrimenti, un comportamento di un altro tipo potrebbe provocare, che so io, una reazione sbagliata, per esempio, mentre ci sono altri casi in cui, proprio per il bene dell’altro, è necessario essere inflessibili; è il caso, ad esempio del comportamento da tenere in certe occasioni nei confronti dei figli.
Certamente, senza dubbio, la tolleranza può essere osservata da due punti di vista differenti: la tolleranza che uno ha interiormente e come manifesta questa tolleranza.
Dal punto di vista spirituale l’individuo che ha una certa comprensione, che ha compreso certe cose, è portato ad essere tollerante verso gli altri, verso quelli che non hanno compreso, perché capisce che questi altri non hanno ancora raggiunto certe comprensioni e, quindi, sono soggetti a commettere errori proprio per mancanza di comprensione. Quindi, l’individuo che ha raggiunto la comprensione dovrebbe riuscire ad essere sempre tollerante con chi non ha raggiunto la stessa comprensione.
Il problema si complica, invece, nel passo successivo, ovvero se questa tolleranza va manifestata o no.
Le guide ci suggeriscono che l’individuo dovrebbe essere sempre tollerante dentro di sé, dovrebbe però anche essere in grado di comprendere quand’è il momento di mettere in atto questa tolleranza e quando è il momento, invece, di far vedere agli altri che non è possibile tollerare certi comportamenti; e di mostrare con l’esempio, con la reazione, con le azioni, e via dicendo, che l’altro individuo sta sbagliando e quindi è giusto che si soffermi un attimo ad osservare quanto sta facendo, per comprendere dov’è l’errore che sta facendo.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima. Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

 

Solitudine e non comprensione

d-30x30Solitudine. Dizionario del

Il senso di solitudine dell’uomo nasce dal fatto di non essere ancora consapevole del fatto che non è un corpo estraneo o distaccato dalla Realtà, ma ne è un elemento, una parte integrante.
A mano a mano – ci insegnano le Guide – che la coscienza si amplierà verrà ritrovata dall’individualità la consapevolezza di appartenere veramente e per sempre al Tutto e, di conseguenza, non ci sarà più la possibilità di sentirsi soli.
Si tratta, quindi, di un sentimento causato dall’impressione di essere separati da ciò che ci circonda, impressione che ha il risultato di causarci sofferenza.

Messaggio esemplificativo (1)

Sento dentro di te un piccolo moto di delusione, sorella, nato da un pensiero inconscio che ti faceva credere di essere stata dimenticata da noi. Rassicurati, non è così; noi non ci dimentichiamo di nessuno di voi, siete tutti lì, davanti a noi,con le mani protese.
Hai aspettato e stai aspettando. Eppure io ti avevo detto: «Non ti devi aspettare da noi soltanto quello che vai cercando; perché non sempre potremo dartelo, non sempre vorremo…» e questo neppure tanto tempo fa. Sorrido, dolce sorella, nel conoscere la tua reazione; sorrido perché ti amo come amo tutte le creature che – come te in questo momento – sono lontane, perché incarnate, dal mio sentire. Com’è difficile, vero, mettere in pratica le parole stampate su carta? Lo so, ti capisco, hai ragione: è molto difficile e, se non lo fosse, sorella, non avrebbe senso la tua esistenza. Eppure io ti avevo detto: «Sta attenta alle illusioni…» e non mi capivi, quando ti dicevo quelle cose. E ora puoi dire di averle comprese? Non è così facile cambiare, soprattutto quando si tratta di cambiare interiormente; esteriormente sì, si può anche cambiare da un momento all’altro, ma ben raramente questo cambiamento ha dei riscontri nell’intimo e corrisponde ad un sentire raggiunto. Ma non temere: ciò che più conta, quando sarà il momento di tirare le somme della propria esistenza, non è il cambiamento vero e proprio ma è l’intenzione che stava alla sua base, purché sia sincera.
Hai rifatto l’errore di sentirti sola. Ma, benedetta creatura, perché non hai provato – in quei momenti di delusione e di amarezza a guardarti intorno, ad osservare le cose che ti circondano, a guardare i volti sconosciuti di tanti uomini ed a cogliere da tutto questo quel conforto che desideravi e la certezza di non essere sola?
Perché ti sei lasciata sopraffare – ancora una volta – dalla solitudine, rilevando soltanto gli aspetti negativi di quanto ti ha frustrata, facendoti cadere in quello stato? O forse vuoi dirmi che in nulla di quanto ti è accaduto in questo ultimo periodo vi è qualcosa di positivo e di piacevole? Pensaci, sorella, e rimedita sugli ultimi accadimenti della tua vita, così vedrai che, a poco a poco, farai luce dentro di te e capirai quanto sia stato tutto positivo e bello – anche se doloroso – e quanto costruttivo per il tuo intimo, la tua maturità e la tua evoluzione. Ci risiamo, dolce sorella, ancora parole che hanno solo il sapore della teoria, e io ti dico: accetta questa teoria e – se non sarà oggi sarà domani, o forse ancora post domani – vedrai applicarla in pratica.
Hai trovato degli amici in questa nuova città, ti sei sentita viva tra di loro, realizzata – almeno in parte – il distacco, anche se momentaneo, è stato doloroso per te, avresti anche rinunciato alla partenza. Tutte cose molto belle e ti siamo grati per questo, ma giuste fino ad un certo punto, oltre il quale vuol dire che qualcosa non va, vuol dire che ancora qualche angolo deve arrotondarsi, vuol dire che la comprensione non è totale.
L’amore, sorella, nel senso generico, non è legato alle distanze, non conosce i chilometri come una netta separazione da quell’amore che avevi trovato e sperimentato direttamente. Perché? Perché vuol dire che ancora non hai compreso del tutto quel concetto di amore che avevo cercato di spiegarti. A suo tempo, avevo detto che l’amore vive dentro ad ognuno di voi e una volta che si è riusciti a tirarlo fuori – non può più morire.
L’amore non nasce, non vive, non muore: l’amore è.
E se tu l’avessi veramente trovato – trovato del tutto – non potrebbe, mi capisci sorella, procurarti del dolore. Anzi, dovrebbe darti la forza necessaria, proprio per la sua presenza reale e tangibile, di superare le situazioni che definisci sfavorevoli.
Imparare ad amare significa molto semplicemente scavalcare il proprio Io per comprendere e aiutare tutte le altre creature, anche le più «antipatiche», senza chiedere o, meglio ancora, senza aspettarsi qualcosa in cambio.
“Ma amare è anche sapersi fermare.»
Ricordi, sorella, queste parole? Sapersi fermare non significa non fare più nulla per i propri fratelli, ma saper fermare le spinte del proprio Io che indurrebbero a dare anche il superfluo; mentre amare e aiutare è anche un semplice sorriso, una stretta di mano, uno sguardo dolce, come già avevo cercato di dirti. Comprendendo questo riuscirai a capire il vero significato della tua stessa esistenza che non è fine a se stessa, ma va oltre quello che tu, momentaneamente, puoi comprendere. Ti ringrazio, sorella, di starmi ad ascoltare e so che mi capirai; non importa quando.
Butta via il sorriso corrucciato o contrariato; apri un sorriso sincero sul tuo volto e rivolgilo a chiunque ti sta intorno, anche a chi è «causa» delle tue tensioni; ringrazialo per ciò che fa perché, a modo suo, ti aiuta, dandoti la possibilità di apprendere verità nuove che ti faranno più ricca interiormente e sempre più sorridente..
È questo e solo questo il vero significato dell’esistenza: sottovalutare, dare la minima importanza al proprio Io ed a se stessi, proprio per migliorare se stessi.
E se all’inizio sarà necessario un po’ di sforzo, ti renderai conto – in seguito – di quanto piacevole e bello sia stato.
Tutto il discorso sull’amore vale anche per noi e se anche non possiamo rivolgerti un sorriso con la bocca, stringerti le mani con le mani, accarezzarti con uno sguardo, ricorda che ti siamo vicini e che, a modo nostro, ti sorridiamo, ti stringiamo le mani e ti accarezziamo.
Per tutto questo, per tutte le emozioni e le percezioni che ci accomunano, noi ti diciamo – e ti esortiamo a farlo- di liberarti da tutto ciò che fa di te una creatura ancora limitata. E se te lo diciamo è perché sappiamo che tu puoi farlo. E non importa come, non importa dove, non importa neppure quando. Fabius

Sussurri nel vento, pag. 205 e segg.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima. Edizione privata

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Simbolismo e interpretazione

d-30x30Simbolismo. Dizionario del

Non soltanto il linguaggio dell’uomo ma anche il suo pensiero – ci insegnano le Guide – è colmo di simbolismi: se ci pensiamo bene le lettere con cui scriviamo le parole non sono altro che simboli e sempre simboli sono l’espressione dei nostri pensieri.
Infatti, se ci raffiguriamo mentalmente una rosa usiamo, per farlo, un’immagine che simboleggia tutta la categoria delle rose, pur trattandosi dell’immagine di una sola rosa.
Quando siamo incarnati non facciamo altro che, in continuazione, decodificare i simboli presenti nelle esperienze che viviamo e non soltanto, ma facciamo altrettanto nei confronti delle altre persone, perché soltanto in questo modo è davvero possibile avere una comunicazione.
Questo, ovviamente, per poter essere fatto necessita di una base comune di interpretazione, quanto meno per tutti quei simboli che accomunano generalmente tutti gli individui, specialmente se facenti parte di uno stesso ambito sociale e temporale.
Ma, come sempre accade, vi può anche essere un aspetto negativo nell’interpretazione dei simboli, ed esso consiste nella possibilità che ha l’individuo di interpretare i simboli che incontra in maniera totalmente soggettiva e questo accade quando si lascia l’interpretazione dei simboli in completa balia dell’Io. Ecco, così, che l’interpretazione dei simboli finisce col diventare qualcosa che, pur nella sua apparente logicità, finisce col poter stravolgere la realtà che si interpreta assoggettandola ai bisogni dell’‘Io di tirare l’acqua al suo mulino. Penso che il messaggio che viene riportato sia uno splendido esempio di questa interpretazione logicamente illogica del simbolismo.

Messaggio esemplificativo (1)

“Ambarabàciccìcoccò tre civette sul comò che facevano l’amore con la figlia del dottore, il dottore le ammazzò, ambarabàciccìcoccò.»

Vi è un’altra versione di questa filastrocca che termina con: «il dottore si ammalò»; naturalmente per il mio discorso ho dovuto fare una scelta tra le due filastrocche, quindi ho scelto la prima. Certamente sarete stupiti da questo inizio, ma non è fatto per meravigliare, né per far domandare da qualcuno se il vostro Scifo finalmente è andato, come dite voi nel vostro linguaggio moderno, «in tilt»; infatti, sono davvero qua per parlare di questa filastrocca, filastrocca che deriva da tempi abbastanza lontani dai vostri tempi attuali e che può essere interpretata a livello simbolico. Certo, ognuno di voi avrà udito questa filastrocca, specialmente nei suoi giorni dell’infanzia, e poiché è legata a quel periodo della sua esistenza l’avrà sempre ritenuta una filastrocca per bambini. Ora io ho intenzione di interpretare questa filastrocca simbolicamente.
Prendiamo quindi i termini della filastrocca uno per uno, vediamo qual è il significato simbolico di ognuno di essi e traiamo, quindi, una conclusione generale dai simboli incontrati nella filastrocca.
“Ambarabàciccìcoccò»: l’originale era «Abracadabra – onci – tonco» e, per quei pochi di voi che non conoscono la parola abra- cadabra, questa indica semplicemente una famosissima formula magica, ritrovata in una varietà di testi esoterici di alta magia, risalenti a tempi molto remoti, e quindi un simbolo  magico.
“Tre». Non mi sembra il caso di spendere molte parole per quello che riguarda il numero tre: la Trinità, la Trimurti e via e via.., il tre si ritrova in tutte le religioni, in tutte le scienze esoteriche, in tutte le varie diramazioni occultistiche che assegnano al tre un indubbio significato magico e una certa potenza a seconda delle varie direzioni in cui questo tre può essere orientato.
La «civetta» stessa ha un suo significato simbolico, allegorico, abbastanza facilmente comprensibile; infatti voi tutti sapete che la civetta non è altro che un rapace, un rapace notturno, il quale quindi simbolicamente può interpretare, può raffigurare ciò che si aggira furtivamente con intenzioni ostili nella notte; vuoi un individuo malintenzionato, vuoi un’entità malintenzionata, e via dicendo.
Beh, per quello che riguarda il «comò», forse non è poi così facile trovare un significato simbolico; tuttavia, se proprio volessimo trovarvene uno a tutti i costi, si può fare il raffronto tra comò e civetta; infatti voi sapete che la civetta vive appollaiata sui rami e quindi era necessario, per costituire questo legame simbolico, che essa – anzi esse, perché erano tre – fossero quantomeno al di sopra di un materiale ligneo.
La parte forse più scabrosa è quella che viene nel seguito della filastrocca, ovvero «che facevano all’amore»; forse qua, più che di significato simbolico, qualcuno potrà pensare che vi è qualcosa di un po’ spinto. In realtà, anche in questa frase può venire ravvisato un significato simbolico, in quanto l’atto del far l’amore è sempre stato considerato dall’umanità come un qualche cosa di peccaminoso, da fare di notte, e quindi legato simbolicamente ancora alla civetta, qualcosa che porta al peccato e che viene stigmatizzato come negativo, in linea di massima – specie se non santificato dal sacro vincolo del matrimonio – dalla religione della vostra società attuale.
“La figlia del dottore». Prima di poter esaminare la figlia simbolicamente, sarà utile il cercare di interpretare simbolicamente il dottore. Il dottore, nell’antichità, era considerato qualcuno al di sopra delle persone comuni – non il dottore che conoscete voi attualmente, quello normale, tipico delle vostre mutue, che in realtà sa più o meno quanto può ritrovarsi su un’enciclopedia pratica per tutti – ma il dottore dell’antichità era colui che sapeva, colui che, a differenza della maggior parte di coloro che lo attorniavano, era riuscito a penetrare i veli del mistero e andare oltre quella che era l’illusione compresa dagli altri dei suoi tempi.
Naturalmente, in questo significato simbolico la figlia rappresenta la parte della luce nella filastrocca, ciò che si contrappone alla notte, ciò che si contrappone alle civette che tramano nel buio e, simbolicamente, si può quindi osservare che la figlia è del dottore in quanto il dottore è colui che sa e quindi è portato verso la parte luminosa, verso il bene, che è insidiato dalle civette, dalla notte e dal male.
Conclusione della filastrocca è che il dottore «uccide le civette»; questo non è da considerarsi letteralmente come un atto di crudeltà verso poveri animali ma, all’interno del simbolismo testé accennato, possiamo vedere in questo atto dell’uccidere le civette il fatto che il dottore con la sua conoscenza, con la sua sapienza, con la forza data da ciò che sa, riesce a sconfiggere il male, proteggendo la luce e il bene grazie alle sue conoscenze e alla sua consapevolezza.
Prima di andare avanti nella mia disquisizione, vorrei chiedere a tutti voi se la mia analisi della filastrocca vi sembra adeguata, se vi sembra che spieghi simbolicamente nel modo giusto la filastrocca o se qualcuno ha qualcosa da obiettare in merito; quindi facciamo un piccolissimo dibattito su quanto ho appena detto. Coraggio, qualcuno ha qualcosa da dire in merito?
Sembra proprio di no! Quindi si può arguire che quanto io ho detto è appagante per la razionalità, e fornisce effettivamente un senso, un’interpretazione simbolica a quella filastrocca.
Io ho preso questa occasione per parlare, appunto, del simbolismo; voglio chiarire prima di tutto che, effettivamente, la filastrocca non è altro che una filastrocca per bambini, in essa non è nascosto nessun segreto esoterico, non vi è nascosta nessuna formula magica, non vi è chissà quale conoscenza, non è altro che un insieme di parole proposte ad una mentalità infantile, vuoi per farla ridere, vuoi, magari, per farla addormentare e calmare.
Quindi scusate, perdonate la mia piccola bugia iniziale, ma era necessaria per poter continuare il mio discorso; è chiaro a questo punto che io tendessi a dimostrare qualche cosa, poiché non mi sembra che io sia solito indulgere in vaniloqui senza un senso finale; ma il senso finale creature, è semplicemente questo: state attenti alle interpretazioni simboliche, state attenti al simbolismo, state attenti a interpretare simbolicamente ciò che leggete, interpretate, udite, perché qualsiasi cosa può essere presa – dal Vangelo all’elenco telefonico – ed essere, attraverso rigiri mentali, interpretata secondo un senso ben preciso, si può quindi far assumere ad un qualsiasi testo un significato usando il simbolismo.
Certamente nell’antichità – allorché l’esoterismo, l’occultismo, lo spiritismo e via e via, venivano perseguitati, venivano nascosti, celati agli occhi dei più – vi era a volte la necessità di camuffare l’insegnamento con simbolismi che potessero essere riconosciuti da chi era addentro nella conoscenza, ma che risultassero ignoti  a chi questa conoscenza non poteva raggiungere. Ma al giorno d’oggi, creature, come è stato detto recentemente, l’iniziazione è cominciata ad essere ben più generale di quella che era nel passato e certi simbolismi, certe cose che nel passato potevano anche essere giustificate attualmente non lo sono più. Perché dunque – dico io – ricorrere per forza a simbolismi inutili quando è tanto semplice parlare il più chiaramente possibile, quando è tutto facile (allorché si vuol dare un messaggio agli altri) far capire direttamente il messaggio senza costringere gli altri a interpretare parola per parola ciò che viene detto?
Il linguaggio è un bellissimo strumento nelle mani dell’uomo, tuttavia offre alla mente dell’uomo stesso la possibilità di manipolare la sua percezione della realtà attraverso i propri bisogni, i propri desideri, le proprie pulsioni.
Con questo non intendo significare che deve essere abolito ogni modo di parlare difficile e che qualsiasi cosa deve essere presentata in modo molto semplice: è inevitabile che un certo tipo di argomenti – specialmente allorché si tratta di argomenti filosofici o tecnici – deve essere presentato con un linguaggio piuttosto ampio che chiarisca nel modo migliore possibile i concetti presentati; linguaggio che quindi, inevitabilmente, può non essere alla portata della cultura di tutti. Tuttavia se voi osservate i grandi maestri del passato, coloro che si sono aperti agli altri ed hanno offerto agli altri la propria conoscenza e il proprio sapere, la propria voglia di fare comprendere alle altri menti, sono sempre (o quasi sempre) stati molto chiari, semplici, diretti e lineari nel loro parlare.
Io vi dico quindi, creature: quando affrontate letture moderne di testi di maestri, o di entità o di qualsiasi altra persona che abbia qualcosa da insegnare, cercate prima di tutto di comprendere quanto è lasciato all’interpretazione del lettore, perché se pure una parte deve sempre e naturalmente essere lasciata all’opinione degli altri nell’interpretazione, i concetti principali, i concetti basilari devono essere sempre esposti in modo chiaro, comprensibile a tutti quanti. E se così non è, incominciate a sospettare che le parole presentate come messaggi provenienti da chissà quale alta dimensione in realtà sono presentati volutamente fumosi, volutamente oscuri e pieni di supposto simbolismo, affinché chiunque voglia credere possa trovare la risposta che desidera trovare nel messaggio presentato. Scifo

La ricerca nell’ombra, pag. 162 e segg.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima. Edizione privata

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La responsabilità personale

d-30x30Responsabilità. Dizionario del

La responsabilità di quello che facciamo – ci ammoniscono le Guide – è sempre nostra in tutti i casi; e dobbiamo sempre tener presente che quanto facciamo ha sempre delle ricadute sugli altri, cosicché queste ricadute diventano, sì, anche un problema dell’altro che reagisce alle nostre azioni e quindi ha a sua volta delle responsabilità sulle scelte che metterà in atto per reagire, però la responsabilità dell’innesco della situazione resta comunque la nostra.
L’unico modo per gestire nel modo migliore le proprie responsabilità non può che essere lo stesso che le Guide ci propongono da sempre: conoscere noi stessi ed eliminare dalle nostre azioni, per quanto ci è possibile, gli influssi dovuti al nostro Io, ai nostri desideri egoistici.
Certamente, vi sono dei modelli che vengono presentati all’individuo fin dal suo nascere, modelli dovuti alle regole della società, modelli dovuti a dettami religiosi, addirittura – come chi segue l’insegnamento sa o forse comincia ad aver capito – anche modelli provenienti dai piani superiori, dai famosi archetipi. Però, tutti questi modelli che noi mettiamo dentro noi stessi, non è che sono diventati nostri, in realtà: sono andati a combinarsi con quelle che sono le nostre esigenze di comprensione, le nostre esigenze evolutive; tant’è vero che, se ci osserviamo bene, scopriremo con facilità che andiamo continuamente contro questi modelli che abbiamo apparentemente introiettato.
Se, per esempio, la religione cattolica, la religione cristiana ci avesse messo all’interno veramente i modelli predicati dal Cristo… noi saremmo tutti santi! Invece nessuno di noi è un santo, nessuno di noi – se soltanto può – perde l’occasione per accrescere un po’ il suo patrimonio materiale in maniera, magari, non del tutto lecita, secondo il modello cristiano; se qualcuno di noi, magari, vede una bella ragazza o un bel ragazzo e «ci prova» anche sapendo che non era il caso di farlo, e via dicendo… tutte queste cose le facciamo comunque, al di là degli ipotetici modelli morali che abbiamo all’interno.
Questo significa, allora, che questi modelli che introiettiamo è vero magari che esistono dentro di noi ma, poi, vanno a scontrarsi con quelle che sono le nostre realtà, le nostre esigenze di esperienza e, quindi, hanno una validità molto relativa se non, appunto, come esempio a cui fare riferimento per avere un confronto tra ciò che, alla fin fine, per noi risulta giusto o risulta ingiusto.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima. Edizione privata

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Il possedere e la semplicità

d-30x30Possedere. Dizionario del

È tipico dell’essere umano – sottolineano le Guide nei loro interventi – non rendersi conto di ciò che possiede, di non apprezzare ciò che ha, di non sentirsi fortunato, felice per le cose belle che lo circondano e che rendono vive e vivibili le sue giornate.
Ed è altrettanto tipico dell’essere umano il rendersi conto di tutto ciò che di buono possedeva e di cui usufruiva soltanto nel momento in cui queste cose, per un motivo o per l’altro, gli vengono tolte.

Messaggio esemplificativo (1)

 Fratelli, sorelle, la vita che state vivendo quotidianamente, è già irta di difficoltà, di ostacoli ma, malgrado questo, che cosa fate voi, in verità, per impedire che essa si inasprisca ancora di più, per aiutarla a fluire in modo più pacato e per questo, più facile da affrontare? Creature mie, se voi davvero riusciste ad apprezzare quello che possedete, non solo a parole, ma proprio per intima convinzione, riuscireste ad essere molto più felici e ad affrontare con serenità molto maggiore ciò che, inevitabilmente le esigenze della vostra vita evolutiva vi conducono a sperimentare.
Voi sapete, figli miei, che io non sono solita fare discorsi molto complicati, tanto che spesso essi vengono giudicati anche troppo semplici, tuttavia questa volta, vorrei parlarvi attraverso la mia analisi non dotta, ma sentita, di una frase del Maestro Gesù la quale, così spesso citata, non è quasi mai altrettanto spesso compresa e messa in atto: «Beati i poveri, perché loro è il Regno dei cieli!» Quante volte, fratelli, quante volte, sorelle, avete sentito questa frase, e quante volte, avete veramente cercato di capirla fino in fondo? Vi prego, miei cari, non rispondete che la frase è semplice da comprendere e che, infatti, voi la comprendete perfettamente! Vi prego col cuore di non dirlo, perché sarebbe troppo facile per chiunque – e quindi, anche per me – dimostrarvi che non state dicendo la verità, né a me, né a voi stessi! Se, infatti, voi aveste compreso davvero quelle parole, come mai vi ascolto così spesso, nel corso delle vostre giornate, fare conti su conti, tormentarvi per cose che dovete pagare e comperare, criticare, più o meno violentemente, chi già possiede queste cose senza, magari, avere fatto nulla di evidente per meritarsele?
Fratelli, sorelle, beato è il povero che riesce a non desiderare più del poco che possiede, perché davvero, allora il regno dei cieli sta per essere suo! E voi, che pure poveri non siete, quante cose desiderate ottenere, cose che, quasi sempre, una volta ottenute non diventano altro che trampolini di lancio per altri desideri, più o meno irraggiungibili? Fratelli, sorelle, beato è il povero che riesce a non provare invidia per ciò che gli altri posseggono, perché, davvero, allora, le porte del regno  dei cieli sono spalancate davanti a lui! Ma come non desiderare, come riuscire a non restare condizionati da ciò che, in continuazione, la cultura in cui vivete vi pone come mete desiderabili, da conquistare a qualunque prezzo? Sarebbe così semplice, miei cari, riuscire in ciò, se voi solo voleste farlo: basterebbe che ogni giorno guardaste ciò che già possedete e cercaste di gustarlo fino all’ultima goccia. Purtroppo, invece, vi lasciate sovrastare dai vostri affanni e non ponete soverchia attenzione a ciò che avete e che, dentro di voi, deprezzate sotto la spinta del vostro egoismo, che vi vuole vedere in competizione con i vostri fratelli, in continua, silenziosa lotta per cercare di avere quello che loro hanno e, possibilmente, anche qualcosa in più, in modo da valorizzare voi stessi.
«Beati i poveri, perché loro è il Regno dei cieli!» disse Gesù, ed è stato facile a chi ne aveva l’interesse, usare questa frase a scopi politici e propagandistici, ben lontani da ciò che il Cristo intendeva dire, perché Egli, in realtà, non intendeva esaltare la miseria, non intendeva dire ai suoi fratelli di diventare come San Francesco che tutto si levò per seguire il suo ideale di povertà. Egli intendeva dire, miei cari, che il regno dei cieli, il culmine dell’evoluzione spirituale dell’uomo, sta nella comprensione che la felicità non risiede nel possedere beni materiali, nel guadagnare, nell’essere avidi. Egli intendeva dire che proprio chi meno possiede, se semplice e umile nel suo poco possedere, più ha la possibilità di accorgersi di quanto, in realtà, possiede; più ha la possibilità di accorgersi che non solo lui, ma tutti gli uomini possiedono immensi patrimoni ed immense ricchezze che non usano e non sanno sfruttare nel modo più utile, perché neppure si accorgono di possederle.
Alcuni di voi potranno affermare di avere molto poco, di non togliersi nessuna soddisfazione, di dover lottare in continuazione con i conti per far quadrare il bilancio della famiglia e condurre un’esistenza decente, arrivando al punto di giustificarsi con la responsabilità che dà loro l’avere dei figli.
Certo, miei cari, proprio noi abbiamo sempre affermato che i figli hanno il diritto di avere dai genitori tutto ciò che questi possono loro dare, ma noi parlavamo dell’affetto, della comprensione, dell’educazione, dell’insegnamento, del rispetto degli altri, oltre che di se stessi. Quante volte, invece, sento qualcuno affermare: «I miei figli devono avere tutto quello che io non ho mai avuto!» e, quasi sempre, questa frase riguarda un vestito in più, un divertimento in più, quel sovrappiù del sovrappiù, che la maggior parte di voi considera essere sinonimo di felicità. Fratelli miei, sorelle mie, considerate le vostre giornate spassionatamente! Ognuno di voi provi a guardarsi attorno e ad elencare su di un pezzo di carta le cose che lo circondano e di cui, in realtà, potrebbe tranquillamente e senza alcun danno, fare a meno! Fatelo, e poi vedremo se avrete ancora l’animo di lamentarvi per qualcosa che non avete o per i «quattrini» che, temporaneamente, vi difettano. Considerate che, per quante cose voi abbiate segnate in sovrappiù sul vostro foglio di carta, con tutta certezza ve ne sono altrettante che non avete segnate, e che pure sono parimenti in sovrabbondanza.
Quanti di voi, fratelli o sorelle, hanno, non dico uno, ma due televisori, o registratori in casa! Quanti di voi non hanno da parte parecchie paia di scarpe che il più delle volte, restano negli scaffali perché soppiantate – per le esigenze del vostro Io, per il quale essere alla moda significa valorizzarsi – da altre scarpe? Quanti di voi hanno in casa libri che non leggeranno mai, acquistati sotto l’impulso del momento e poi trascurati? Quanti di voi non mangiano il cibo essenziale al buon mantenimento del corpo, oppure si nutrono con foga e ingordigia di cibi notoriamente dannosi alla salute e, forse proprio per questo, più costosi degli altri?
Compilate la lista che vi ho suggerito, miei cari, e resterete voi stessi meravigliati di quante cose inutili e superflue possedete, e capirete da voi stessi quanto la vostra mancanza di soldi, così spesso lamentata e causa di affanni, sia dovuta in gran parte anche a queste cose; e capirete che i vostri pensieri, le vostre preoccupazioni, i vostri dolori, così come le vostre effimere gioie sono dovute in massima parte proprio a queste cose in più che avete desiderato possedere e che quindi, non dovete maledire il destino o la vita o Dio stesso per tutto questo, ma capire che, voi stessi, con quanto volete e desiderate, siete gli artefici della vostra vita.
Essere semplici e umili, essere poveri nel senso cristiano, equivale – figli nostri – a saper godere ciò che si possiede. E voi, fratelli e sorelle, riuscite a farlo? Riuscite a godere della vostra buona salute o vi accorgete di averla avuta solo allorché una malattia vi fa constatare la differenza? Riuscite ad assaporare un bicchiere d’acqua, apparentemente insapore, o avete bisogno che manchino altre bevande e che la vostra gola sia riarsa dalla sete per riuscire a farlo? Riuscite a soffermare i vostri occhi su una scheggia di pietra e ad osservarne con meraviglia la forma ed ogni sua caratteristica, o i vostri occhi si fermano soltanto se colpiti dalle pietre colorate che altre persone ostentano sul loro corpo e che voi non possedete?
Beati i poveri che riescono a scoprire le ricchezze contenute nella loro povertà, senza lasciarsi distrarre ed attrarre dalle false ricchezze che altri esseri possiedono, perché loro è il regno dei cieli! Fratelli, sorelle, essere poveri, semplici, e umili non significa non possedere niente, ma significa scorgere la ricchezza di quanto già si possiede, molto o poco che esso appaia agli occhi degli altri uomini! Viola

1  Morire e vivere, pag. 168 e segg.

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Perfezionismo e controllo

d-30x30Perfezionismo. Dizionario del

Il perfezionista è colui che cerca, a tutti i costi, anche contro ogni logica, ogni ragione, ogni sensibilità talvolta, di arrivare a mettere a posto anche il più piccolo pelo nell’uovo.
Ciò può essere originato dal tentativo di apparire ed essere perfetto, ma può essere anche indicatore dello sforzo fatto per cercare di avere tutta la realtà incasellata al posto giusto.
Ovviamente, non è riferibile semplicemente a com’è la persona ma anche a come la persona vive la vita e vive i fatti che la circondano. Il perfezionista può anche essere semplicemente – ripeto – quello che osserva la sua vita, quello che sta vivendo, e che cerca di «schedare» tutto quello che gli succede e metterlo in un ordine, in una successione logica, in modo tale da avere tutto sotto controllo e tutto legato da un filo unico che lui può riconoscere e ripercorrere nel modo migliore possibile. Un tentativo, in definitiva, di possedere il controllo della sua vita.
Certamente, potrebbe indicare la paura dell’Io di perdere il controllo, ma cerchiamo di non essere sempre e solo negativi nell’osservare le cose e consideriamo che potrebbe essere, invece, un metodo per cercare di arrivare a comprendere il Tutto, ad esempio; di arrivare a vedere la logica che unisce il Tutto attraverso questo passaggio di piccole perfezioni da una cosa all’altra.
Senza dubbio è un metodo eccessivo e troppo poco flessibile per poter essere adattato a ogni circostanza che si presenta ma, in fondo, è una via come un’altra e alla sua fine – ci ricordano le Guide– c’è sempre e comunque la meta comune, ovvero la comprensione e il ricongiungimento consapevole col divino.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima. Edizione privata

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Ottimismo e pessimismo

d-30x30Ottimismo e pessimismo. Dizionario del

Tutti noi alterniamo con facilità momenti di ottimismo e momenti di pessimismo. Direi che è quasi una condizione naturale dell’uomo incarnato sull’onda delle speranze o delle disillusioni del suo Io e, ancora una volta, non si può che sottolineare che l’osservazione di queste due fasi può essere utile per arrivare ad essere consapevoli di ciò che ci muove all’interno della vita che conduciamo.
Il problema principale consiste, secondo le Guide, nella difficoltà in cui ci mette l’Io dal momento che difficilmente riesce a essere realista e obiettivo: dal momento che la rappresentazione della sua realtà è sempre in funzione di se stesso, della sua gratificazione e del suo tentativo di controllare la vita che conduce, la sua obiettività è sempre poco attendibile o, quanto meno, parziale. Sarebbe compito nostro non lasciare che il suo giudizio sulla realtà ci faccia perdere di vista come stanno veramente le cose, cercando di operare un controllo su di esso. Detto a parole sembra una cosa facile ma non è veramente così: in fondo si tratta – come dicono le Guide – di imparare a strumentalizzare l’Io mentre l’Io cerca di strumentalizzare la nostra vita. Non è cosa facile, ci dicono, ma neanche cosa impossibile da farsi, quindi credo che varrebbe sempre la pena provare. Se poi il tentativo fallisce… beh, certamente ci penserà l’esistenza, con le sue proposte d’esperienza, ad aiutarci a capire!

Messaggio esemplificativo (1)

«Io, per conto mio, preferisco essere pessimista! Certo perché così son pronto a tutto quello che succede, se le cose vanno male ero preparato, se vanno bene, tanto di guadagnato, sono contento ed il mio pessimismo mi ha in qualche modo parato dai colpi dell’esistenza». Scifo

 «Io, invece, preferisco essere ottimista, trovo sciocco, in fondo, tagliarmi la testa prima che sia il momento in cui io me la debba tagliare. Molto meglio, quindi, essere ottimisti e confidare che le cose andranno sempre e comunque nel verso giusto». Moti

Questi sono due modi, creature, per affrontare l’esistenza di tutti i giorni: chi tra voi si sarà riconosciuto in un atteggiamento, chi nell’altro, ma qual è il migliore dei due atteggiamenti? Noi diciamo che, comunque sia, è sempre meglio essere ottimisti che pessimisti. Certamente l’ottimista poi si troverà (o potrebbe trovarsi) di fronte alla sofferenza perché le cose non vanno nel verso giusto, però, intanto, avrà trascorso un periodo della sua vita in apparente felicità e tranquillità; il pessimista, invece, dal canto suo, non fa altro che anticipare dentro di sé, nella sua mente, nei suoi pensieri, le possibili avversità che gli potranno capitare, non ottenendo altro, alla fin fine, che di prolungare nel tempo queste avversità fino a quando esse si presenteranno per davvero. Il che significa che soffrirà allo stesso modo dell’ottimista allorché si troverà davanti alle avversità, però in precedenza aveva già sofferto di più per avere anticipato queste avversità dentro di sé.
Siete d’accordo su questo? Ed allora, se siete d’accordo cercate di essere ottimisti nel corso delle vostre giornate.
Ottimisti però non significa voler essere ottimisti a tutti i costi e negare l’evidenza, significa pensare che le cose, comunque, si aggiusteranno in qualche modo e quindi adoperarsi affinché si aggiustino, qualunque sia la situazione in cui uno si può venire a trovare. Scifo

Quello che dovete, figli e fratelli, comunque tenere sempre presente, è il fatto che l’essere ottimisti e l’essere pessimisti sono due condizioni che appartengono entrambe all’Io. Chi è ottimista o chi è pessimista è insomma il vostro Io, e questo accade sempre e comunque a qualsiasi punto dell’evoluzione ognuno di voi incarnato si trovi ad essere, poiché nel momento in cui è presente sul piano fisico, voi sapete che possiede comunque un Io. Rodolfo

Se, dunque, l’ottimismo ed il pessimismo appartengono all’Io, anche il realismo appartiene all’Io? Anche il realismo è una condizione proprio dell’Io per cui esso osserva la situazione che vive e riesce ad osservare la realtà con occhi realistici? Billy

Se pensate questo, creature, state sbagliando grandemente! Anche chi tra di voi afferma che cerca di essere realista nel considerare le cose, qualunque cosa, in realtà non riesce mai ad essere veramente realista, e tutta la sua osservazione è condizionata dai bisogni del proprio Io e, quindi, dai propri bisogni evolutivi. Essere realistico veramente, significa andare al di là dei desideri, porsi al di sopra dei desideri, porsi al di sopra delle sensazioni, porsi al di sopra delle emozioni, porsi persino al di sopra dei pensieri.
Questo significa che l’unica parte di voi che può essere realistica non può essere che la vostra coscienza ed il vostro corpo della coscienza, il quale, tessendo le fila del vostro muoversi lungo la scala evolutiva, si situa al di sopra dei corpi inferiori e quindi non si fa governare dai sentimenti, dai desideri, dalle emozioni né, tanto meno, dai pensieri, ma semplicemente tiene conto dei fattori che ha inscritto come comprensioni al proprio interno. È quindi realista per quanto gli è possibile esserlo. Scifo

Certamente, figli, se poi volete esaminare il realismo dal punto di vista filosofico, secondo la filosofia che noi cerchiamo di portarvi, l’unica conclusione che si può arrivare a proporre su chi è veramente realista non è che giungere ad affermare che vi è una sola entità in grado di essere realista, ovvero Colui che tutto E’, e quindi tutto conosce, nella sua più intima essenza e nella sua più vera natura. Tutto ciò che non è ancora o non è più strettamente collegato con esso non può, alla fin fine, essere veramente realista con la «R» maiuscola, quanto meno perché come il corpo akasico, il corpo della coscienza non ha ancora tutti i dati per poter veramente avere una visione completa della realtà. Moti

«Padre, padre mio, perché mi hai abbandonato?», disse l’uomo; «Sia fatta la Tua volontà e non la mia», disse il Cristo; eppure erano la stessa persona. In lui erano presenti entrambe le qualità: il pessimismo e l’ottimismo della creatura incarnata ed il realismo di Colui che è a più stretto contatto con la Divinità. Poteste, potessimo, ognuno di noi, nel corso della nostra vita, riuscire a cogliere quella sottile differenza tra la nostra natura umana e la nostra natura divina! Se riuscissimo a far questo, tutta la nostra vita ne sarebbe cambiata, trasformata, e noi abbandoneremmo questo continuo immergersi nella materia, per arrivare a comprendere e a tramutare noi stessi. Viola

1 Le chiavi del Paradiso, pag. 60 e segg.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima. Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

Osservazione di se stessi

d-30x30Osservazione di se stessi. Dizionario del

La base dell’insegnamento etico-morale delle Guide è, senza ombra di dubbio, il «conosci te stesso». E non può essere altrimenti dal momento che soltanto arrivando a conoscere veramente se stessi si può giungere alla comprensione e, di conseguenza, alla fine della necessità di incarnarsi ancora sul piano fisico.
Per attuare la conoscenza di se stessi da parte dell’uomo incarnato si rende necessario porre attenzione su se stessi, sulle proprie spinte e sulle proprie reazioni, cioè «osservare se stessi».
Senza una vera osservazione di se stessi, il più possibile sincera e obiettiva, la strada verso la comprensione, pur non interrompendosi mai comunque, diventa più faticosa e irta di ostacoli.

Messaggio esemplificativo (1)

Quando, figli e fratelli, voi osservate ciò che vi succede nel corso delle vostre vite, i fatti e gli avvenimenti che vivete, lo fate sempre con una prospettiva errata: infatti, vi chiedete quali sono le cause di ciò che vi accade; magari, per chi segue l’insegnamento, vi chiedete da quale vita proviene ciò che vi sta accadendo nel momento attuale; o perché proprio quella cosa e non un’altra: insomma, vi fermate ad analizzare il fatto in se stesso e non i riflessi che il fatto ha su di voi. Rodolfo

È questo dunque, figli, il modo in cui dovete analizzare ciò che l’esistenza porta alla vostra attenzione. Non ha importanza se ciò che vi capita è dovuto ad una vita precedente (e questo ve lo abbiamo sempre detto, nel corso degli anni), non ha importanza se quella cosa od un’altra capita, ma ha importanza estrema, invece, osservare il riflesso che essa ha su di voi.
Pensate un attimo, figli nostri, che so io: ad un vostro moto di ribellione. Quello che è importante non è la cosa che vi suscita ribellione, ve ne potrebbero essere altre cento che suscitano la stessa reazione in voi, tutte diverse l’una dall’altra e tutte talmente diverse che sembrerebbero non avere alcun punto di contatto tra di loro. Eppure, invece, un punto di contatto c’è, ed è l’insegnamento che l’esistenza sta cercando di proporvi, ovvero l’indurvi ad osservare la vostra reazione che è comune a tutte queste possibilità di avvenimenti esterni che vi fanno reagire. Ecco, quindi, che ciò che accade al fuori di voi, del mondo fisico, ha la sua principale importanza non nell’accadimento in se stesso, ma in ciò che suscita nel vostro interno. Moti

È questo, quindi, che dovete ricordarvi di fare nel cercare di arrivare a conoscere voi stessi. Certamente, l’esistenza di un mondo esterno è strettamente necessaria, indispensabile affinché voi vi confrontiate con esso e attraverso esso vi confrontiate con ciò che siete e ciò che pensate di essere.
Magari, osservando le vostre reazioni, subito vi troverete davanti quelle che sono le vostre reazioni dell’Io, quindi i vostri desideri più materiali e più semplici, alla fin fine.
Ma, se continuate ad osservare con maggiore attenzione, vedrete che riuscirete ad andare oltre a questi desideri dell’Io e, magari, ad arrivare a comprendere quali sono gli impulsi della vostra mente che reagiscono all’esperienza, e dopo essere arrivati agli impulsi della vostra mente, ecco che forse, potreste fare il passo successivo ed arrivare a comprendere quali sono i perché delle vostre reazioni, quindi a portare nuova acqua al mulino della vostra coscienza, per far sì che essa metta a posto ancora un tassello e voi possiate riprendere il cammino verso il vostro paradiso. Si tratta, insomma, di riuscire, un po’ alla volta, ad aprire tutte, una per una, le porte che sembrano sbarrarvi il cammino verso la comprensione di voi stessi. Certo, ogni porta ha una chiave diversa, ma voi possedete già tutte le chiavi: si tratta di riuscire a trovare la chiave giusta per aprire la porta al momento giusto e, allorché l’avrete fatto, creature, sarete già a buon punto dell’opera, perché sarete arrivati ad un passo dal vostro paradiso. Scifo

Un giorno il Maestro disse: «Figli miei, voi vi meravigliate se talvolta, nel vedervi che scherzate tra di voi, io sorrido. Questo perché non avete ancora compreso la realtà triste dell’uomo che non riesca trovare un sorriso dentro di sé. Eppure voi quando mi vedete sorridere restate quasi offesi all’idea che un Maestro possa trovare dentro di sé la voglia di sorridere e di ridere. Ma, figli miei, pensate con me, con attenzione, che anche per gli argomenti più seri, anche il parlare del Padre mio che sta nei cieli, significa arrivare ad un passo dal trovare la comunione con Colui che E’. E la comunione con Colui che È non può che portare felicità in chi la sperimenta e, la felicità, come può essere meglio espressa da un sorriso, da una risata? Sorridete anche voi, figli miei, e ricordate che molte volte, per una persona semplice (ed è dei semplici il Regno dei Cieli) è più facile comprendere un sorriso che un insegnamento filosofico». Viola

L’Uno e i molti, vol. X, pag. 35 e segg.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima. Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

Ambivalenza dell’orgoglio

d-30x30Orgoglio. Dizionario del

Neppure il concetto di orgoglio può sfuggire alla legge di ambivalenza che è applicabile certamente a qualsiasi moto interiore dell’essere incarnato.
Come le Guide hanno spiegato, infatti, all’orgoglio può venire attribuita una connotazione positiva o negativa a seconda delle motivazioni che lo mettono in essere, cosa, peraltro, valida per qualsiasi caratteristica interiore dell’individuo incarnato.
Quello che è certo, comunque, è che l’orgoglio è messo in atto dall’Io e, in quanto tale, ne subisce l’influenza tendendo a diventare una catena che, spesso, induce l’individuo a non voler ammettere i propri errori, a non chiedere scusa per le proprie azioni, a non volersi piegare davanti alla verità che gli viene presentata preferendo talvolta arrivare alla rottura di un rapporto piuttosto che ammettere i propri errori.

Messaggio esemplificativo (1)

Viste le mie qualità e la mia avvenenza io non posso fare altro che cimentarmi nell’orgoglio della propria bellezza. Allora… sbagliavo ad essere orgogliosa della mia pelle morbida, dei miei occhi neri come il giaietto, dei capelli vaporosi e fluenti, del mio corpicino sinuoso, scattante, armonioso… e via dicendo? Può anche darsi di sì ma, sinceramente, come non andare orgogliosa degli sguardi ammirati che suscitavo, dei desideri che scatenavo, dei… Zifed

Fermati un momento, cara, ricorda quanto ha detto una volta Scifo e riesamina questo tuo orgoglio. Di che cosa sei orgogliosa, in realtà? Di una aggregazione di unità elementari che sono le stesse in tutto il piano fisico, cosicché non c’è differenza di qualità tra le unità elementari che componevano i tuoi begli occhioni e le unità elementari che compongono il letame! Boris

Eh no, caro, ora mi offendo: questo accostamento irriverente non mi sembra proprio dei più indicati, perbacco! Zifed

Ma se non basta a farti comprendere che tale tipo di orgoglio è assurdo, io ti chiedo: quanto è durata la tua bellezza e quindi quanta ragione di esistere nel tempo aveva il tuo orgoglio e che cosa hai fatto tu per averla, quale merito hai avuto di essa? Boris

Be’, veramente… a parte il fatto che sono morta giovane e quindi non ho avuto il tempo di vedere sfiorire il mio corpo, in verità quel corpo mi è venuto su da solo. Zifed

Oh, bene: anche un gobbo non ha merito per la sua gobba, e anche la gobba cresce da sola, non è vero, cara? Quindi un gobbo dovrebbe possedere il tuo stesso tipo di orgoglio, non ti pare? Boris

Certo, capisco dove vuoi arrivare, capisco: orgoglio… «orgogl-Io» direbbe Scifo giocando con le parole. Ma è valido davvero per ogni tipo di orgoglio citato dal bel principe Shirab – fra l’altro mi sarebbe piaciuto conoscerlo di persona: saremmo stati una bellissima coppia, invidiata da tutti e… oh!… ci sono ricaduta.. Zifed

Io vi parlo, fratelli cari, non dall’alto di una grande evoluzione, ma dalle conclusioni che ho tratto – credo giustamente – dalla mia propria esistenza di individuo che più e più volte ha dovuto piegarsi alla legge del karma immergendosi nella materia fino a comprendere – spesso anche con la sofferenza – gli errori commessi nel corso di molte vite. Come voi potete immaginare, incarnarsi più volte significa avere la possibilità di sperimentare una grande gamma di Io diversi, di ambienti diversi e – quindi – anche di esperienze diverse.
C’è stata – per esempio – tra le mie molte vite un esistenza in cui il mio impulso maggiore era quello di conoscere, di sapere. Dedicai quella mia vita allo studio e la mia conoscenza – ai tempi, almeno, in cui l’apprendevo – era veramente fuori dall’ordinario, sì che ne andavo molto orgoglioso e forse, fino a un certo punto, anche a ragione. Io vivevo in un’abbazia al di fuori dei passaggi commerciali usuali e dalle vie provinciali, cosicché – come accadeva di frequente all’epoca – essa divenne una specie di isola di cultura galleggiante in un marasma generale che la sfiorava senza lasciare però su di essa grosse tracce.
Era costume di coloro che arrivavano all’abbazia per chiedere asilo temporaneo di fare dei doni e questi doni erano costituiti spesso, più che da oggetti preziosi, da notizie, da conoscenze apprese, da testi raccolti dai viandanti nel loro vagare e, in fondo, completamente inutili per loro dato che l’analfabetismo tra il popolo toccava percentuali incredibilmente alte.
Si era andata così formando all’abbazia una biblioteca considerevole ed eterogenea, biblioteca che era mio compito curare e alla quale dedicai per lungo tempo tutto me stesso. I ritmi di vita tranquilli di quel luogo e il molto tempo libero che trovavo tra i miei compiti materiali e le regole spirituali che seguivamo, era da me riempito dalla lettura e dalla meditazione sui testi che catalogavo o che mandavo ai fratelli restauratori o a quelli che copiavano le parti più fragili e rovinate.
La mia cultura fu davvero – almeno per l’epoca – enciclopedica e alla luce dell’ora mi rendo conto di quanto avrebbe potuto essere maggiore se molte cose non mi fossero sfuggite, vuoi per ignoranza, vuoi perché ripudiate nel nome della religione che praticavo. Tuttavia ne andavo orgoglioso e non passava giorno che il rispetto degli altri fratelli mi si dimostrasse in più occasioni: a me si ricorreva per sciogliere un dubbio teologico, per dirimere un controversia legale tra proprietari terrieri, per spartire in modo appropriato un’eredità contestata o contesa e così via.
Morii molto vecchio, rispettato ed ammirato; alla mia morte però, nel periodo in cui voi sapete che si riesamina criticamente la propria vita, essa mi fu causa di molti tormenti, malgrado a molti di voi possa sembrare una esistenza tranquilla e di facile prova.
Cosa è stato, fratelli miei, che mi ha tormentato? Il capire che il mio orgoglio per la mia cultura era privo di significato cristiano: cosa avevo fatto, invero, per meritarmi e guadagnarmi tale cultura se non leggere e studiare, cioè fare una cosa che faceva parte del mio interesse di allora e quindi privo, in realtà, di un vero sforzo? E quante volte avevo riso con sufficienza e apertamente di chi asseriva delle sciocchezze, invece di offrirgli l’occasione di conoscere ciò che io avevo avuto la fortuna di conoscere e lui no?
La mia conoscenza era vasta e sterile, non dava frutti che a me stesso, e questi frutti erano sì belli all’esterno, ma marci all’interno perché si chiamavano orgoglio, presunzione, sufficienza, vanagloria. Ah, quanto più è da ammirare l’ignorante che agisce istintivamente in aiuto a un suo fratello, in confronto a chi, come il mio Io di allora, risponde a una richiesta d’aiuto con una dotta citazione!
E quante volte mi sono scoperto a usare parole difficili, frasi complesse, cognizioni inusuali, non tanto per far comprendere agli altri – ché altrimenti avrei chiaramente potuto farlo meglio adattando la mia conoscenza alla loro capacità di comprensione – ma per dimostrarmi superiore, per essere reputato intelligente più di quanto in realtà non fossi, per compensare dietro a quel paravento le mie mancanze interiori.
Fratelli miei, la cultura non può essere motivo di orgoglio se non viene usata nel modo giusto: la conoscenza delle cose che più arrivano ad essere trattenute dalla mente umana è cosa talmente piccola che più giusto sarebbe che, più un uomo fosse colto, più grande diventasse non il suo orgoglio ma la sua umiltà. Io dico a chi ritiene con orgoglio di possedere una vasta conoscenza e un’ampia cultura: «Sei tu certo, fratello, che ciò che tu sai e di cui ti inorgoglisci sia la verità e che tra cent’anni tu potresti affermare le stesse cose che ora conosci, senza timore di essere deriso?» Quanti uomini erano orgogliosi della loro conoscenza dell’astronomia e deridevano coloro che affermavano che era la Terra a girare intorno al Sole e non viceversa! Con queste mie parole non intendo affermare che la cultura sia inutile o che essa debba venire osteggiata, ma invito ogni uomo a non cristallizzarsi nel proprio sapere, a non ritenerlo verità accertata, ad essere sempre pronto a metterlo in discussione, ad essere sempre pronto a non usarlo per pavoneggiarsi, ma a metterlo a disposizione di tutti coloro che ne possono avere bisogno, senza, peraltro, farlo pesare. Andrea

Facciamo ancora alcune altre considerazioni sui moventi umani dell’orgoglio, moventi tutti inscrivibili nella sfera essenzialmente materiale, anche se indubbiamente la loro origine individuale è invece di ordine psico-socio-ambientale.
La prospettiva in cui intendo esaminare questi aspetti dell’orgoglio è legata all’insegnamento della realtà che noi vi andiamo facendo.
È chiaro, infatti, che se noi vi parliamo di illusione, di uniformità della materia fisica, di vari piani di esistenza oltre a quello fisico, di reincarnazione, di karma, non lo facciamo solamente perché ci diletta raccontarvi favole nuove, astratte e, forse, anche indimostrabili, ma proprio perché la comprensione e l’accettazione di questi argomenti possano da voi venire applicati alla vostra vita di tutti i giorni facendovene scorgere nuovi aspetti e mutando, gradatamente, la vostra visione della vita e di voi che questa vita state vivendo. Lo scopo è quello, insomma, di fornirvi degli stimoli per ampliare la vostra concezione della vita e per rendervi in grado di guardare sotto un’angolatura più ampia le esperienze che state vivendo. Noi vi parliamo della composizione della materia affermando che nel piano fisico la materia è uniforme per qualità al di là di quelle che possono essere le vostre percezioni. Bene, come conseguenza di questo, che cos’è che dà un valore spropositato a una perla rispetto al valore dato un grano di miglio? Chiaramente delle convenzioni: sociali, economiche o politiche che siano.Ma la realtà è che società, economia e politica sono solo delle soggettivazioni – per quanto, fino ad un certo punto, utili e perfino necessarie all’evoluzione… ma questo è un altro tipo di favola – sono cioè delle relatività e quindi non fisse, immutabili, tanto che – supponendo un’improvvisa sovrapproduzione delle perle – il valore della perla non sarà più, economicamente, lo stesso.
E allora c’è da chiedersi, creature care: che senso ha dannarsi l’anima, vivere nell’ansia e nelle preoccupazioni, lasciarsi prendere dall’ingordigia e dall’avidità, ostentare la propria ricchezza e andarne orgogliosi, quando questa ricchezza – in realtà – non ha nessun valore se non per la mente?
Certo, non vi dico di regalare tutto ciò che avete e di vivere in povertà – eppure c’è chi l’ha fatto, sentitamente, e ha ottenuto molto di più di quanto regalava – anche perché lo stato generale dell’uomo attuale è tale per cui solo pochissimi riescono a comprendere veramente a fondo l’illusione che stanno vivendo, ma vi suggerisco solo di non affannarvi oltre misura per ciò che, tanto, all’abbandono delle unità elementari che costituiscono il vostro vestito materiale,  dovrete  perdere ad ogni modo.
Noi vi parliamo di reincarnazione, affermiamo che siete stati non soltanto il vostro lo attuale ma tanti altri lo, diversi per sfaccettature e per caratteristiche. Anzi, vi diciamo addirittura che, prima ancora di avere un’Io che si adirava perché non riusciva a graffiare su di una roccia le sue idee primitive, siete stati animali, e prima ancora materia apparentemente priva delle qualità che, abitualmente, siete soliti attribuire alla vita. Nelle idee di coloro che pensano romanticamente alla reincarnazione, quando cercano di pensare alle proprie vite precedenti tendono a immaginarsi belli, colti, ricchi, famosi, virtuosi e via e via e via.
Com’è diversa la Realtà, creature care! Certo, qualcuno tra voi potrebbe anche essere stato un tempo Leonardo da Vinci – è solo un’ipotesi, badate bene: non vorrei che qualcuno tra voi prendesse per vero quest’esempio – ma, anche se così fosse, non riuscireste a concepire quante persone insulse, avare, meschine, straccione, senza lustro, siete state oltre a quell’ipotetico Leonardo.
Che senso ha, allora, l’orgoglio per uno stato sociale attuale, quando anch’esso non è che un momento, un episodio insignificante di una pletora di vite tra le quali domina, con buona probabilità, la povertà, l’anonimato, e l’appartenenza alle classi meno abbienti?
Se vi fossero stati tanti sacerdoti e tante sacerdotesse, tanti re e tante regine, tanti pittori e tanti musicisti quanti se ne odono descrivere da chi dice di ricordarsi qualche sua o altrui vita passata, vi garantisco che l’umanità attuale sarebbe ormai tutta composta da nobili artisti ben addentro alla conoscenza delle leggi universali… e basta guardarsi intorno, in un raggio anche di pochi metri, per vedere quanto ciò sia falso!
Noi vi parliamo anche di karma, di necessità per ognuno di voi di vivere in un certo ambiente, con certe persone e, addirittura, con ben precise caratteristiche fisiche. Ma allora, creature care, anche la vostra bellezza di una vita non vi appartiene più di quanto vi appartengano la luce del sole e delle stelle. E – ricordatelo – vi sono appartenuti anche corpi senza grazia, ventri prominenti, gambe storte, nasi camusi e – perché no? – arti deformi, gobbe e natiche  sbucciate  e arrossate  dal sole.
C’è di che essere orgogliosi, dunque? Di che vantarsi o far mostra? Giudicate un po’ voi… Scifo

Orgoglio, abbiamo detto un giorno, significa essere consapevoli dei propri meriti e in questo, avevamo aggiunto, non vi è nulla di negativo.
Quand’è allora, figli nostri, che l’orgoglio travalica quel confine incerto che trasforma in vizio la virtù?
Allorché l’orgoglio non è più consapevolezza quieta delle proprie qualità – per transitorie o durature che esse possano essere – ma diventa far mostra di sé, usare i propri pregi per imporsi agli altri, far sì che essi servano per celare le proprie manchevolezze. Quando, in parole povere, questa consapevolezza delle proprie qualità viene asservita all’Io per i suoi fini.
Può sembrare un controsenso quanto ho appena affermato: noi vi suggeriamo spesso di ricercare la vostra consapevolezza e poi affermiamo, come io ho appena fatto, che essa può diventare uno strumento egoistico. State attenti però: la consapevolezza di cui noi parliamo è una consapevolezza totale, mentre quella che voi potete raggiungere attualmente è solo una consapevolezza parziale di alcune delle vostre qualità interiori.
E la parzialità e il frazionamento di qualsiasi cosa, miei cari, è sempre un’arma a doppio taglio; se infatti può costituire la piattaforma sulla quale costruire qualcosa di più completo, d’altro canto, proprio per questi suoi caratteri di incompletezza, può portare a compiere errori di varia natura. Quante volte è successo – ad esempio – che uomini i quali avevano raggiunto una certa consapevolezza di Dio, ma non avevano raggiunto altri fattori di consapevolezza ugualmente importanti e necessari, hanno commesso grandi errori nel cercare di costringere altri fratelli a credere con la forza o nel perseguitare e punire coloro che non avevano raggiunto lo stesso tipo di consapevolezza?
Siate dunque consapevoli dei vostri meriti, orgogliosi delle vostre qualità, ma non dimenticate di ricercare altre fonti di consapevolezza che renderanno il vostro orgoglio giusto e valido non solo per voi stessi ma anche per coloro che vi circondano.
Ricordate che non inseguite il vero Sé solo per voi stessi, ma che lo fate anche affinché ciò che voi riuscite a scoprire possa essere messo al servizio di altri fratelli; fratelli non ancora arrivati allo stesso punto del cammino cui voi già siete pervenuti.
Solo allora il vostro orgoglio avrà un senso e solo allora coloro che guardano a voi come fonte di esempio – i vostri figli, i vostri fratelli, i vostri amici – ne trarranno veramente qualcosa di utile perché non inquinato, se non in minima parte, dagli impulsi del vostro Io. Ancora una volta debbo dirvi: sembra una meta lontana, figli, sembra un orizzonte sfocato e apparentemente irraggiungibile quanto noi, a volte, vi proponiamo; eppure quel seme che noi depositiamo in voi, se lo saprete annaffiare con il vostro Amore e con la vostra Costanza, germoglierà molto più in fretta di quanto voi possiate immaginare. Moti

Noi vi diciamo che siete ben lontani dal conoscere la realtà e Dio stesso, che è la Realtà per eccellenza – e di questo ognuno di voi può, senza sforzo alcuno, riconoscere la verità – ma se è così, che senso ha essere orgogliosi di una conoscenza che, senza ombra di dubbio, è relativa, parziale, infinitesima e, come tale, errata perché largamente incompleta?
Se vi diciamo che non conoscete pressoché per niente neppure voi stessi – e ciò malgrado viviate con voi da anni e, quindi, siate chi più frequentate e avete la possibilità di conoscere – non vi viene da sorridere del vostro essere orgogliosi per la conoscenza di ciò che è all’esterno di voi?
Non vi viene da dubitare che quasi sempre vi buttate a capofitto in quelle conoscenze esteriori, ammantandovi di esse agli occhi degli altri, proprio perché non avete il coraggio di guardare voi stessi e la vostra ignoranza? Coraggio, creature care, non vi abbattete! Non sto criticando, né giudicando, né condannando alcuno: io stesso – se è vero ciò che affermo a proposito della reincarnazione – sono stato un pover’uomo pieno di difetti, di parzialità e di cocciuta ostinazione nel volermi pavoneggiare a tutti i costi con ciò che, in realtà, non mi apparteneva per nulla.
Le mie parole sono soltanto delle constatazioni su uno stato attuale – e peraltro necessario, torno a ripeterlo – del sentire generale dell’umanità. Scifo

Padre, perdonami l’orgoglio che mi impedisce di chiedere scusa per un mio errore, quello stesso orgoglio che non mi fa piegare di fronte all’altrui ragione, quello stesso orgoglio che mi fa incrinare un matrimonio, rovinare un rapporto, sciupare un’amicizia, piuttosto che chinare il capo ed ammettere di avere errato.
Ti prego, Padre mio, perdonami anche per quell’orgoglio che non mi fa accettare le idee degli altri, che mi impedisce di sentirli miei fratelli anche nei momenti in cui mi rivolgono delle critiche – giuste o sbagliate che esse siano – che non mi fa comprendere che un rimprovero, una opposizione, possono anche essere segno di aggressività repressa ma sempre sono segno di non indifferenza, cioè d’amore nei miei confronti.
Concedimi il Tuo perdono, Padre mio, per tutte le lacrime che, per orgoglio, non ho lasciato sgorgare dai miei occhi. Tu lo sai che c’erano, ed erano copiose dentro di me, ma sai anche quanta fatica mi costa mantenere integra la mia immagine di essere orgoglioso, forte, invulnerabile alle avversità, intoccabile dal dolore. Aiutami, Ti prego, Padre mio, a trovare l’unico orgoglio che veramente valga la pena di possedere: quello di sentirmi una Tua creatura e di poterTi chiamare Padre. Viola

1   Sussurri nel vento, pag. 34 e segg.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima. Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior