Illusione e osservazione di sé

d-30x30Illusione. Dizionario del

È facile, per l’uomo incarnato, cadere in balia delle proprie illusioni… a chi non succede?
Ma le illusioni finiscono, inevitabilmente, per portare alla sofferenza, talvolta anche molto grande, nel momento in cui si rimane disillusi.
Per questo motivo le Guide hanno esortato da sempre i partecipanti alle riunioni a cercare di mantenere il più intatta possibile la loro obiettività nell’osservare se stessi, gli altri e la vita, in modo da non perdere il senso della propria esistenza correndo dietro a pericolose illusioni.
Certo – affermano – anche il cadere in balia delle illusioni alla fine non sarà inutile ma sarà servito a fare imparare qualcosa, ma perché andarsi a cercare il dolore a tutti i costi?

Messaggio esemplificativo

Dolce sorella, in altro tempo ti parlai in modo che a te parve confuso; parlai delle illusioni e lasciai il discorso in sospeso, proprio perché sapevo che non mi avresti saputo comprendere subito, e allora non mi parve il caso di finire il discorso per non confonderti del tutto. Ma adesso che è passato parecchio tempo da quel messaggio, credo di poterlo continuare e quindi finirlo.
Io so benissimo, sorella, che dietro a quello che appare in tutta la sua fragilità c’è una bellissima sorella, forte e sicura, fiduciosa e serena, che sta aspettando.
Che cosa? Sta aspettando di liberarsi da quelle catene che tu le imponi per estrinsecarsi, per essere finalmente libera e congiungersi in un’unione indissolubile che appare ma che non è. Questa sorella – come ti ho detto – è forte e sicura, tanto che non cade sotto i colpi delle illusioni cadute. Illusioni che sei tu stessa a creare e – credimi – nessun altro lo fa, non esiste una seconda persona ché possa creare per te ciò che tu non vuoi venga creato. Illusione vuol dire credere in qualche cosa che non esiste e auto convincersi della sua esistenza; quindi vivere per ciò che si crede, comportarsi in modo tale da distaccarsi da una realtà razionale nella sua freddezza, ma irrazionale nella sua logicità. Quindi l’illusione è una creazione soggettiva e non oggettiva, e infatti non può mai venire dall’esterno.
Ma se è una reazione soggettiva vuol dire che esistono interiormente dei motivi precisi per cui quello stesso essere tende a nutrirsi di illusioni, piuttosto che di realtà, ed è soprattutto questa causa interiore, infida e sfuggente alla sua stessa comprensione, che deve essere eliminata.
Carissima sorella, questi miei discorsi sono solo teorici, nel senso che io ti sto esponendo della teoria; ti sto indicando uno dei modi migliori di essere, che tu puoi accettare o rifiutare, comprendere o meno, mettere in pratica o lasciar cadere. Vorrei chiarire una volta per tutte che questa non è una «lezione», quindi non c’è rimprovero, non c’è ironia, non c’è compassione: è solo l’esposizione teorica di qualcosa che fa parte di te ma che non riesce ad uscire.
È facile, sorella, porgere la mano a chi è capace di aggrapparvisi, è facile anche perché la spinta egoistica che muove – a volte – il braccio viene in questo modo alimentata e soddisfatta. Credimi: in genere si compie una scelta nell’offrire il proprio aiuto, si seleziona consciamente e inconsciamente – tra le persone che maggiormente riescono a muoversi in modo tale che il loro agire funge da ricompensa all’azione d’aiuto. E questo è sbagliato; è un grosso errore che il tempo, solo il tempo, sarà in grado di evidenziare; bisogna invece imparare ad aiutare chi sembra che rifiuti l’aiuto, chi non lo chiede espressamente né con le parole né con il comportamento, chi anche sembra avercela – per chissà quale ragione – con te; chi, creatura silenziosa, reagisce al proprio bisogno d’aiuto con atteggiamenti aggressivi e talvolta scostanti. Sono proprio quelle persone appena citate a dover smuovere in te qualcosa, a toccare le tue corde interiori affinché tu possa donarti a loro.
Mi sono reso conto che, molto spesso, queste nostre parole vengono fraintese e che, quando parliamo d’aiuto, voi – per motivi logici ed evidenti che derivano dalla vostra condizione di esseri umani – lo identificate con l’aiuto materiale. L’aiuto materiale invece, di per se stesso, può anche non avere importanza: per chi ha fame, infatti, a volte serve di più una parola di incoraggiamento che un pezzo di pane. Anche questo deve essere una meta del vostro miglioramento; e anche tu, dolce sorella, devi imparare a fare tue queste teorie; quando avrai imparato a rivolgere il tuo sorriso, la tua dolcezza, la parte migliore di te, insomma, a quelle persone che sembrano non accettarti, starai meglio, evitando così di cadere nelle illusioni e quindi, poi, nella solitudine.
Ho detto «sembrano», perché un conto è ciò che appare e un conto è ciò che è, e vi è un’enorme differenza tra le due cose. La realtà che tu vivi è apparente e non vera, perché tutto ciò che osservi, sperimenti o impari è vittima della tua interpretazione soggettiva, cosicché quanto tu vedi potrebbe essere verità ma non è detto che lo sia. Per questo meccanismo, certe persone ti possono «apparire» in modo negativo, perché urtano nel tuo intimo qualcosa di non ancora libero dall’egoismo dettato dall’Io, facendoti reagire in modo tale da impedirti di vedere con oggettività la realtà che, quindi, ti «appare». Tutto questo va superato e non bisogna mai trovare delle attenuanti adducendo motivi del tipo: «però anche lui/lei potrebbe comportarsi in modo diverso».
È sbagliato fare questo ragionamento, in quanto il solo pensiero indica quanto siano ancora alte le dosi di egoismo e ti dirò, per darti una spiegazione a questo discorso, che bisogna essere tanto severi con se stessi quanto indulgenti con gli altri. Dare vero aiuto agli altri è offrire spassionatamente se stessi; non aspettare una ricompensa né tanto meno il ringraziamento; non rammaricarsi se l’aiuto non viene accettato; non soffrire se anche si corre il rischio di perdere un rapporto (perdita sempre relativa e momentanea); non rendersi neppure conto di aiutare e non soffermarsi a pensare che per farlo si è dovuto scavalcare se stessi.
Parliamo adesso della sofferenza fisica ed anche morale che ti è stata, così spesso, compagna di vita. Capisco benissimo le difficoltà che ha comportato per la tua esistenza umana, sorella, ma la sofferenza e il dolore – come sai – servono all’individuo affinché migliori. Potrei avvilirti, a questo punto – ma spero che così non sia – dicendoti che la sofferenza, sia essa fisica o morale, è l’ultima carta che viene giocata quando un individuo non vuole o non ha voluto comprendere certe verità. Per consolarti, comunque, ti dirò che potrebbe anche essere la conseguenza di una tua vita precedente.
Da queste premesse, tra l’altro assai generali, ora ti dico: spogliati, sorella, dall’esteriorità nemica numero uno di te stessa, ma non dell’esteriorità come tu la puoi intendere, bensì di quell’esteriorità sottile e perfida che si insinua per impedire di comprendere. Fa il piccolo sforzo di allontanarla da te e medita, veramente e con serenità, sul perché di tanta, tanta sofferenza. Cerca di non cadere nel vittimismo, nemico numero due per la tua comprensione, e non lasciar cadere la speranza. Trova la vera origine di tutti i tuoi mali e del tuo quasi disperato bisogno di affetto; solo così riuscirai a lenire la tua sofferenza morale, e anche quella fisica. Cerca di capire che la sofferenza e il tuo bisogno d’affetto sono interdipendenti, e questo è un dato di fatto innegabile; cerca di scorgere i motivi e da sola ti renderai conto della verità, che non è poi così lontana dai discorsi che ti ho appena fatto.
Sorella, tu hai la verità a portata di mano purché tu voglia scorgerla, e hai i mezzi per comprendere perché la tua sofferenza morale e fisica ti appare – e ancora una volta ho detto «appare» – più grande di quanto sia in realtà, nella realtà oggettiva. Cerca di arrivare a comprendere che non è giusto fare della propria sofferenza un modo per sentire gli altri vicini; questo lo dico per te, poiché la prima a soffrire sarai proprio e soltanto tu. Gli altri, seguendo il corso della propria esistenza, saranno in grado di dimenticare tutto questo, mentre tu non vi riuscirai e potrebbe restare per te un peso invece di un’esperienza positiva.
Cerca anche di vedere quanto il «rifugiarsi nel dolore» possa essere un modo per sfuggire la realtà e quindi, in un certo senso, chiudersi in una nuova e dolorosa illusione. Una realtà – o, meglio, una verità – che dovrebbe essere accettata nella sua totalità a mano a mano che il tempo passa, che i giorni fuggono via, che gli anni pesano sul proprio corpo fisico.
Sorella, questa volta ti ho parlato nel modo più aperto possibile per aiutarti, per infonderti fiducia, per darti speranza, per vederti serena in ogni momento, anche quando le tue pene cercheranno di impedirti di volgerti intorno e di abbracciare il creato anche solo con lo sguardo e sentirlo finalmente tuo. Fabius

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima, pagg.133-137. Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

 

Felicità e infelicità

d-30x30Felicità e infelicità. Dizionario del

Riuscire a definire la felicità (o l’infelicità) non è una cosa facile… questo accade perché sono condizioni strettamente collegate a stati dell’Io e, essendo i bisogni dell’Io estremamente variabili da persona a persona ecco che anche il sentirsi felici o infelici è difficilmente uguale per persone diverse.
Ci è stato insegnato che la condizione ideale per tutto ciò che esiste è la condizione di equilibrio, condizione a cui tende tutto il Creato, dal microcosmo al macrocosmo, dall’essere umano all’universo intero: per avere un’idea di questo concetto di equilibrio basti pensare al sistema solare nel quale diversi corpi di diverse grandezze che si muovono a diverse velocità intorno al sole devono la loro stabilità all’equilibrio che si è formato fra le varie forze che tengono uniti il sole, i pianeti e i satelliti che partecipano all’esistenza stabile dell’intero sistema solare.
Ciò che l’uomo incarnato definisce «felicità» o «infelicità» non è, invece una situazione di equilibrio, bensì di squilibrio, come si può notare osservando con quanta facilità la felicità o l’infelicità tendono a sparire col mutare delle condizioni interiori alle quali sono legate.
L’uomo veramente felice, ci ricordano le Guide, è quello che si sente in equilibrio con l’intera realtà a cui appartiene e, di conseguenza, può essere soltanto quello che ha ormai quasi finito l’evoluzione della propria coscienza e il raggiungimento del pieno sentire.

Messaggio esemplificativo

Fratello, fratello mio, questa volta mi rivolgo a te non per portare una mia solita lamentosa preghiera ma per dirti che sono felice. Già, io, Federico, oggi sono felice ma non riesco a comprendere la ragione di questa felicità. Infatti non vi è nulla di diverso, non è accaduto nulla che possa avere alimentato questo stato che mi fa sentire così felice. Immagino che la felicità possa essere definita come una condizione interiore che ti accompagna nel quotidiano, nelle azioni più comuni le quali magari, in altri momenti, venivano fatte in malo modo mentre, quando uno si sente felice, vengono fatte con gioia. Ecco, questo mi dà un po’ da pensare e ti chiedo, sicuro della tua infinita pazienza, di cercare di spiegarmi che cos’è questa felicità che oggi mi fa sentire così radioso, mi fa vedere tutto così bello, tutto così allegro. Grazie, fratello, grazie per le parole che saprai dirmi. Federico
Un momento, un momento, non rispondete, perché, a questo punto, siamo tutti in coda all’amico Federico per fare anche noi delle domande, che poi portano tutte alla stessa domanda, alla fin fine: cos’è la felicità?
Eh sì, perché tutti noi abbiamo cercato la felicità: in fondo, cercare la felicità sembra un po’ l’obiettivo di tutta l’esistenza, della vita di ognuno di noi. Io, per esempio, ho cercato la felicità nel tentativo di essere libera e per questo non mi legavo con nessuno, non mi lasciavo comandare da nessuno, ero sempre ribelle, prepotente, qualche volta maliziosetta, un po’ ladruncola; tutto per mantenere questa libertà che vedevo come un miraggio davanti a me. Però poi, alla fin fine, continuavo a cercare la felicità, quindi vuol dire che quello che io pensavo potesse darmela non me la dava; e allora anch’io, come Federico, non posso far altro che chiedere: cos’è poi, in fondo, la felicità? Zifed

Io ho pensato che la felicità potesse derivare dall’appagamento della mente, e così, nel corso della mia vita ho fatto in modo da dare continuamente cibo alla mia mente, che desiderava trovare questa condizione che anelava ma che, tuttavia, non le apparteneva. Ma, malgrado avessi la possibilità di poter in continuazione fornire nuovi elementi alla mia analisi, alla mia ricerca di comprensione, allorché sono morto sono morto infelice. Allora, fratelli miei, cos’è… cos’è la felicità? Andrea

Dal canto mio ho cercato la felicità in molte direzioni e, per un lungo periodo di tempo, ho pensato che la felicità fosse legata principalmente ai rapporti d’amore con le altre persone… anche se all’epoca, forse, la mia concezione di «rapporto d’amore» era alquanto esageratamente frammista alla sessualità. Ecco così che molte persone io ho amato, sperando sempre che l’ultimo amore fosse l’amore finale, quell’amore che finalmente mi avrebbe reso felice; ma non felice per l’accettazione da parte del mondo intorno a me, non felice perché i miei comportamenti magari mi mettevano sulla bocca di tutti (chi mi ammirava, chi mi odiava) ma felice perché amavo ed ero amato. Ma forse, ahimè, non era veramente amore il mio, o forse quello che io pensavo fosse amore non dà la felicità. E allora vi chiedo, fratelli, come cercare, come alimentare, come trovare, come afferrare tra le dita la felicità senza che essa sfugga? Billy

Io ho cercato la felicità… sempre, praticamente sempre! Ma la cercavo così come una stupida come in realtà ero, alla fin fine, perché dicevo «Voglio essere felice» ma non sapevo cosa intendevo dire con «essere felice»! Io sapevo che dovevo vivere, dovevo fare, dovevo agire, sì, cercare di essere allegra, divertirmi, contattare altre persone, gioire magari per un bel quadro, per un bel disegno, quel qualcosa di culturale, di artistico… ma non c’era niente di particolare per cui io potessi dire: «Ecco, quello mi potrebbe dare la felicità», e così io sono morta senza essere felice.
Io mi chiedo: come è possibile morire felici e cercare la felicità se non si sa che cos’è la felicità? Sembra un grande tormentone che continua a girare per tutte le vite che stiamo facendo, una dopo l’altra, una dopo l’altra senza trovare una soluzione e poi, magari, immagino che la soluzione sarà lì, semplicissima, facilissima; però, miei cari amici, ditemela… perché io proprio continuo a non vederla! Ah, ho certamente ancora tante vite davanti! Margeri

Maremma! … Io la felicità la trovavo nel bicchiere di vino bono, magari la mi’ moglie voleva mica che bevessi tanto.. eh, però quel bicchier di vino ‘bono, fresco di cantina, mi faceva capire che anche la maremma non era mica tanto male, eh! Anonimo

E voi, voi figli, tutti voi figli che ricercate la felicità, e vi disperate, e soffrite, e molte volte sciupate le cose belle che vi capitano e delle quali non sapete far tesoro dentro di voi perché non vi accontentate di ciò che avete…
Facile, figli, sarebbe dirvi che per essere felici basta essere contenti di ciò che si ha, ma non può essere così; non può essere così semplice la risposta, in quanto fa proprio parte della necessità evolutiva dell’individuo il non essere quasi mai contento di ciò che possiede o, quanto meno, il limitare la sua contentezza a un breve periodo per volgersi, poi, ad altre nuove mete, altri nuovi traguardi che gli fanno sembrare l’appagamento avuto fino a poco tempo prima soltanto un punto di passaggio, ormai superato e non più appagante. Moti

Questo, creature, finisce col diventare una sorta di ricerca, senza fine apparente, verso qualcosa che appare chimerico, difficile da trattenere, qualche cosa che però fornisce, indubbiamente, una spinta all’individuo in quanto anche la semplice ricerca della felicità induce l’individuo a porsi domande, a muoversi, ad agire, a interagire con gli altri e, quindi, a fare esperienza, accumulare comprensione e via e via e via muovendosi sulla scena dell’evoluzione fino ad arrivare all’abbandono della reincarnazione.
La risposta, apparentemente lontana, è invece talmente semplice che, come tutte le cose semplici e immediate, sfugge all’attenzione di chi osserva. Il fatto è che – ironia della sorte, ironia del Grande Disegno! – colui che è veramente felice non se ne accorge! L’individuo veramente felice è colui che riesce a esprimere se stesso nel suo ambiente, è colui che riesce a manifestare la sua interiorità in modo fluido, senza intoppi, senza blocchi interiori emotivi e di energia, è colui, insomma, che riesce veramente a essere se stesso; anche se, magari, per poter convivere con gli altri individui, fa sì da mettersi consapevolmente (è questa la differenza dal mascherarsi dell’Io) delle maschere per poter appartenere al mondo fisico in cui egli vive.
La felicità quindi, creature, non sta nel possedere ricchezze, non sta nell’aver un bel corpo fisico, non sta nell’avere tanti amori, non sta nell’avere tanti tesori, non sta in nulla di ciò che voi osservate intorno a voi e sul quale, malgrado questo, voi proiettate la vostra ricerca di felicità. In realtà, la felicità la potete trovare soltanto dentro di voi e, allorché la troverete, allorché vi apparterrà in quanto voi finalmente avrete un punto evolutivo tale per cui riuscirete a far fluire spontaneamente e con continuità voi stessi, non vi accorgerete di questa felicità perché essa sarà una condizione permanente, spontanea e semplice. Scifo

Dal volume del Cerchio Ifior, Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima, pagg.129-133. Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

Fare da specchio

d-30x30Fare da specchio. Dizionario del

Sappiamo che, quando siamo immersi nella materia fisica, abbiamo una vita di relazione con le altre persone che ci sono attorno; questo porta a constatare che quello che viviamo serve a noi ma serve anche alle altre persone, non siamo mai chiusi soltanto in noi stessi.
Questa constatazione, però, potrebbe trarre in inganno l’osservatore che osserva la propria vita perché certamente noi diamo qualcosa all’altro e certamente l’altro dà anche qualcosa a noi, però noi dell’altro non riusciamo che raramente a vedere la sua realtà, la sua verità, ma vediamo normalmente nell’altro «quello che vogliamo vedere».
Per esempio: quante volte incontrate una coppia di innamorati e, osservate: «Ma come fa quella persona ad essersi innamorata di quell’altro così brutto?!». Ora, come può accadere davvero una cosa del genere? Spesso, vi è anche attrazione fisica tra queste due persone! E, se vi è questa attrazione fisica, come è possibile che delle persone fisicamente accettabili possano innamorarsi di una persona non attraente fisicamente? A volte ciò accade perché si riesce a vedere la bellezza interiore dell’altro, ma la maggior parte delle volte, invece, accade che in realtà una delle persone proietta sull’altro quello che vuol vedere e vede solo quello che vuol vedere; proietta, cioè, sull’altra persona i propri bisogni e i propri desideri; ed ecco che l’altra persona, quindi, diventa uno specchio di quello che egli è.
Questa è una bellissima possibilità che ci viene offerta perché se non si riesce ad osservare se stessi e a comprendersi e ci si rivolge all’esterno, si avrà comunque il modo per arrivare al «conosci te stesso»dal momento che, anche se non si guarda se stessi direttamente, osservando gli altri e cercando di capire gli altri – quelli che ci stanno accanto – si finisce per acquisire elementi su se stessi, dato che ciò che si vede nell’altro, e che magari si critica, è qualche cosa che ci colpisce perché risuona in noi, è qualcosa che si può riconoscere anche in noi e quindi è una proiezione nostra, ci appartiene. Molte volte, in persone che ci stanno accanto riconosciamo soltanto certi difetti e non altri; sembriamo ciechi ai difetti anche grossolani che magari quella persona possiede, eppure proprio non li vediamo; non è che facciamo in modo da non vederli: proprio non li vediamo perché vi sono altri aspetti che ci colpiscono di più – in quanto ci ricordano qualcosa di noi stessi – che attirano la nostra attenzione, per cui quegli altri aspetti non li osserviamo neppure.
Questo significa che ogni individuo incarnato può risalire a delle cose di se stesso vedendo quali sono le sue proiezioni sulle altre persone.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima, pag. 128-129, Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

Fare ciò che si sente

d-30x30Fare ciò che si sente. Dizionario del

«Fare ciò che si sente» è uno degli interrogativi più grossi che l’individuo si trova a dover affrontare, perché se è vero che è giusto agire seguendo il proprio sentire, è altrettanto vero che ben difficilmente, a questo livello evolutivo, si può aver la certezza che ciò che si sente provenga veramente dal proprio «sentire».
Generalmente si usa la frase «fa’ ciò che senti» quando un individuo si trova di fronte alla difficoltà di compiere delle scelte particolarmente importanti; mentre, per quanto riguarda il quotidiano e le piccole esperienze di tutti i giorni, viene quasi dato per scontato che un individuo si comporti in maniera conforme al proprio «sentire», ma in realtà non sempre è così anzi, questo non accade quasi mai a causa delle varie influenze che subiamo e ai condizionamenti cui siamo sottoposti, sia interni (l’Io) che esterni (ambiente e società).
Soltanto verso la fine delle incarnazioni, quando il quadro del sentire è quasi completamente strutturato, sarà più facile fare veramente ciò che si sente più che quello che «si pensa» di sentire o si ritiene di «dover» sentire.
Nell’attesa di arrivare a quel punto non ci resta che operare su noi stessi per permettere che le condizioni perché ciò avvenga si avverino, osservando noi stessi e il nostro comportamento e cercando, per quanto è possibile, di essere sinceri con noi stessi.

Messaggio esemplificativo

Se osserviamo un individuo qualsiasi nel corso di una giornata qualunque della sua esistenza, riusciremo a vedere come in molte occasioni, nell’arco delle l6-18 ore di veglia di una sua giornata, egli vada contro quello che invece sentirebbe di fare.
Mettiamo che sia una cupa e umida giornata autunnale, una di quelle che sicuramente non contribuiscono a farti alzare di buonumore, ecco che al momento del risveglio egli comincia a dover andare contro se stesso soffocando il desiderio di restarsene a letto al caldo invece di alzarsi per raggiungere il proprio posto di lavoro.
Primo sforzo: se avesse fatto quello che sentiva di fare non si sarebbe alzato, avrebbe continuato a dormire e forse anche a poltrire sotto le coperte del suo caldo e morbido letto, ma il senso del dovere lo ha spinto ha trovare il coraggio di alzarsi ed iniziare così la sua giornata.
Mettiamo che la nostra creatura abbia un’attività lavorativa che lo ponga in continua relazione con gli altri.
Già alzatosi di cattivo umore «perché a letto si sarebbe sicuramente stati meglio» ecco che egli, poverino, deve affrontare le persone che a lui si rivolgono, ed ancora una volta lo vediamo «costretto» a fare buon viso a cattivo gioco non attribuendo agli altri, che hanno in qualche modo bisogno di lui, la causa del suo malumore… Ancora una volta, il senso del dovere lo spinge ad essere il più cordiale e disponibile possibile nei suoi rapporti interpersonali.
Secondo sforzo: se avesse fatto quello che sentiva di fare non si sarebbe posto più di tanto il problema di essere cordiale e disponibile con gli altri e non avrebbe esitato più di tanto a mandare al diavolo coloro che gli apparivano particolarmente noiosi.
Lo troviamo, adesso, dopo aver accumulato già un po’ di tensioni a causa della «levataccia» e degli sforzi di essere (e non apparire) cordiale con gli altri, di fronte ad un caso particolarmente difficile: gli si para infatti davanti una persona (di quelle con cui ti rendi subito conto che è impossibile comunicare o instaurare un rapporto di qualsiasi tipo) che riesce in un fiato a «mandarlo in bestia» ad un punto tale che ci vuole tutta la sua forza di volontà per controllarsi nelle reazioni.
Terzo sforzo: se avesse fatto quello che si sentiva di fare non avrebbe dato sfogo alle sue reazioni in quanto non avrebbe neanche permesso a quell’individuo di esasperarlo al punto da fargli perdere la pazienza; ecco che, ancora una volta, il suo senso del dovere lo ha spinto ad accettare anche questa situazione cercando di compensarla con ciò che di positivo e gratificante gli capiterà nel corso della giornata.
E così, tra alti e bassi, trascorre la sua giornata lavorativa, accumulando al suo attivo una decina di sforzi dello stesso tipo dei precedenti, fino ad arrivare a sera, al rientro a casa, non totalmente soddisfatto, ma comunque neanche particolarmente deluso o affaticato, tuttavia con il desiderio di trascorrere una tranquilla serata facendo ciò che più gli aggrada fare. Immaginiamo ancora che il nostro individuo abbia famiglia, abbia dei figli. Ecco che lo vediamo in uno dei momenti più importanti per una famiglia: l’ora di cena, con tutti riuniti attorno al tavolo, pronti a scambiarsi le esperienze che ognuno ha avuto nel corso della giornata appena trascorsa. Immagine forse un po’ troppo patriarcale, forse anche un po’ démodé, ma perdonatemi… ognuno è figlio del proprio tempo!
Finalmente rilassato ed a proprio agio, confortato dall’idea che da lì a poco potrà finalmente dedicarsi al suo hobby preferito, in modo da finire nel modo migliore una giornata così e così, ecco che ad uno ad uno i componenti della sua famiglia, dal partner ai figli, cominciano a sciorinargli le loro problematiche, le loro quotidiane frustrazioni, ed ognuno di essi, a modo proprio, gli fa una tacita richiesta di aiuto, o quanto meno di una parola di conforto.
Penultimo sforzo: se il nostro amico avesse fatto quello che sentiva di fare, ecco che avrebbe fatto orecchi da mercante o avrebbe raccontato le sue frustrazioni quotidiane insaporendole anche un po’ in modo da deviare l’attenzione degli altri su quelli che erano stati i suoi problemi, invece ancora una volta il suo senso del dovere lo spinge a pensare che, tutto sommato, quanto da lui vissuto nelle ore precedenti era ben piccola cosa di fronte agli occhi lucidi di uno dei suoi figli che ha preso un inaspettato brutto voto a scuola, o alla frustrazione del partner che è stato aspramente rimproverato sul posto di lavoro, o all’altro figlio che, adolescente, soffre di difficoltà di comunicazione con i suoi coetanei, cosicché si sente solo e inadeguato.
E così, lo troviamo a ricercare al proprio interno una parola di conforto e di incoraggiamento per tutti… Intanto il tempo passa e l’idea di poter dedicare quel poco di tempo che gli e rimasto al proprio hobby si affievolisce sempre più… tuttavia un’altra idea fa capolino: c’è sempre la possibilità di scaricare le tensioni accumulate nel corso della giornata in un altro modo. Lo ritroviamo quindi nuovamente a letto, come lo avevamo trovato al mattino, a fianco del suo partner che, terribilmente stanco e amareggiato, gli augura una frettolosa buonanotte.
Ultimo sforzo: il nostro amico spegne la luce e si addormenta! Se avesse fatto quello che si sentiva di fare…
Ecco, mi rendo conto che gli esempi portati possono sembrare anche banali, invece non lo sono, o per lo meno non lo sono relativamente al punto in cui vi voglio portare. Non concluderò questo messaggio sciorinandovi chissà quale teoria, ma vi farò delle domande alle quali sarà vostro compito fornire una risposta. È chiaro che il non volersi alzare dal letto, il non aver voglia di essere cordiale e disponibile con tutti, etc. etc. sono movimenti dell’Io, ma lo sforzo, il costringersi a fare qualcosa che in quel momento il vostro Io non vorrebbe fare, chi lo fa? Che significato ha? Da dove proviene? Ho parlato, in ogni esempio, di «senso del dovere», ma ciò che comunemente viene chiamato in questo modo che cos’è in realtà? Potrebbe essere un «sentire» che traspare, che supera i limiti e le barriere poste dall’Io dell’individuo e che spinge ad un determinato tipo di comportamento, e che l’Io deve giustificare in qualche modo, chiamandolo appunto «senso del dovere»?
Il fatto di mettere in ogni occasione, anche se a fatica, da parte se stessi e i propri bisogni, non potrebbe significare che il «sentire» si sta facendo strada, o invece pensate che quando una certa azione viene compiuta in perfetta armonia col proprio «sentire» essa debba essere necessariamente fluida e spontanea? Francesco

Il «fare ciò che si sente» viene facilmente confuso col «fare ciò che ti va di fare» e c’è anche chi può dire: «È giusto fare ciò che a uno va di fare perché in questo modo può comprendere quello che deve comprendere».
Questo è il passo a cui potrebbe arrivare la persona che segue l’insegnamento applicando – senza tener conto di tutto l’insegnamento – le cose che sono state dette nell’insegnamento filosofico e morale; però voi vi rendete conto, creature, che non sempre è veramente possibile e giusto fare ciò che si sente di fare, a prescindere dal fatto che ciò che si sente sia dovuto al sentire o, come accade di solito, all’Io. Vi deve essere, allora, una discriminante di qualche tipo a cui fare riferimento, in modo da poter adattare il proprio comportamento a quella che è la manifestazione del comportamento personale all’interno della famiglia, della società in cui uno vive.
Ovviamente, questa discriminante non può essere che l’intenzione; ma l’intenzione non è così facile da conoscere, quindi non può essere un motivo abbastanza sicuro per poter fare da discriminante nel modo di comportarsi dell’individuo; se io fossi sicuro sempre delle mie intenzioni, certamente farei sempre per il meglio quello che devo fare, giusto?
D’altra parte, se io conoscessi tutte le mie intenzioni, probabilmente non mi incarnerei neanche più, perché vorrebbe dire che ho compreso tutto quello che dovevo comprendere di me stesso e quindi della Realtà. La cosa è molto semplice: è giusto seguire gli impulsi e i comportamenti di ciò che «ci sembra» di sentire (lasciamo questa parentesi aperta) sempre che non ci si renda conto che il nostro agire «sentitamente» non sia scopertamente, evidentemente, senza ombra di dubbio, un danno per qualcun altro; ovvero il mio «fare ciò che sento» deve avere il suo limite nel «non fare dei danni agli altri». Scifo

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima, pag. 123-127, Edizione privata


Il tema del Fare ciò che si sente viene riportato anche nella parte seconda del secondo volume a pagina 26, analizzato, in particolare, in relazione all’evoluzione personale.

«Fare ciò che si sente» è un concetto che investe l’individuo nella sua totalità e quindi è giusto esaminarlo dai vari punti di vista in cui può essere esaminato, ad esempio dal punto di vista dell’evoluzione, in quanto, senza dubbio, il concetto di «fare ciò che si sente» è in stretta, strettissima relazione con quella che è l’evoluzione dell’individuo.

Messaggio  esemplificativo

Molte volte il «fare ciò che si sente» – come è stato detto e ripetuto – viene confuso col «fare ciò che ti va di fare» e c’è anche chi può dire: «È giusto fare ciò che a uno va di fare perché in questo modo può comprendere quello che deve comprendere». Questo è il passo a cui potrebbe arrivare la persona che segue l’Insegnamento applicando – senza tener conto di tutto l’Insegnamento – le cose che sono state dette nell’Insegnamento filosofico e morale; però voi vi rendete conto, creature, che non sempre è veramente possibile e giusto fare ciò che si sente di fare, a prescindere dal fatto che ciò che si sente sia dovuto al sentire o, come accade di solito, all’Io.
Vi deve essere, allora, una discriminante di qualche tipo a cui fare riferimento, in modo da poter adattare il proprio comportamento a quella che è la manifestazione del comportamento personale all’interno della famiglia, della società in cui uno vive.
Immagino che potreste dire che bisognerebbe conoscere l’intenzione.
Ma l’intenzione non è così facile da conoscere, quindi non può essere un motivo abbastanza sicuro per poter fare da discriminante nel modo di comportarsi dell’individuo; se io fossi sicuro sempre delle mie intenzioni, certamente farei sempre per il meglio quello che devo fare. D’altra parte, se io conoscessi tutte le mie intenzioni, probabilmente non mi incarnerei neanche più, perché  vorrebbe  dire che ho compreso tutto quello che dovevo comprendere di me stesso e quindi della Realtà.
La cosa è molto semplice ed era già stata accennata in precedenza: è giusto seguire gli impulsi e i comportamenti di ciò che «ci sembra» di sentire (lasciamo questa parentesi aperta) sempre che non ci si renda conto che il nostro agire «sentitamente» non sia scopertamente, evidentemente, senza ombra di dubbio, un danno per qualcun altro; ovvero il mio «fare ciò che sento» deve avere il suo limite nel «non fare dei danni agli altri».
È un po’ lo stesso concetto della libertà: dov’è che finisce la libertà dell’individuo? Esattamente dove comincia quella di un altro. Lì c’è quella parete sottile che l’individuo che vive in una società deve tener presente – condizionamenti o no, convenzioni o no – perché la propria libertà non vada a nuocere alla libertà di un altro; perché tutti quanti abbiamo diritto ad avere la stessa possibilità di libertà. Allo stesso modo, si può dire che tutti gli individui incarnati hanno teoricamente bisogno di poter esprimere ciò che sentono. Ma vi immaginate voi che mondo sarebbe se tutti veramente facessero ciò che sentono di fare? Pensate a una società agli inizi dell’evoluzione della razza, quindi di bassa evoluzione: se tutti facessero ciò che sentono di fare, ben pochi sopravvivrebbero. Questo significa che vi devono essere, comunque sia, dei freni, degli apparati di qualche tipo che possano permettere all’individuo di esprimere se stesso e ciò che sente entro, però, certi limiti, per non nuocere agli altri.
Ora, questi freni, nei casi di bassa evoluzione, sono evidentemente, principalmente, costituiti da cosa? Dalle norme sociali e dalle norme giuridiche e – perché no? – persino dalle norme religiose che, proprio in questa condizione di evoluzione dell’individuo trovano la giustificazione della loro  esistenza.
Voi, attualmente, specialmente i più giovani fra quelli incarnati, siete tentati a fare di ogni erba un fascio e mettere da parte come obsoleti, inutili, o persino fastidiosi o dannosi i condizionamenti sociali, le norme sociali, le religioni; però tenete presente che tutti questi fattori che attualmente, per qualche motivo, hanno perso parte della loro valenza e della loro positività, sono nati, necessariamente, sotto la spinta di determinati impulsi provenienti  direttamente  da Chi tutto il Disegno ha creato, per far sì che l’evoluzione potesse svolgersi, per far sì che esistessero determinate condizioni in cui l’individuo, malgrado la sua bassa evoluzione, non finisse in massa per costituire un blocco dell’evoluzione dell’intera razza; tant’è vero che, specialmente nei primi tempi dell’incarnazione della razza, vi è un grande affluire di incarnazioni di individui di evoluzione superiore che possano dare corpo a quelle leggi etiche, morali e sociali, a quei comandamenti necessari e indispensabili affinché quello che ho detto prima si avveri, affinché l’evoluzione cioè della nuova razza che si sta incarnando possa comunque andare avanti senza subire interruzioni. Siete d’accordo su questo?
Quando si passa a un’evoluzione superiore – non ancora la più alta evoluzione, ma un’evoluzione media, quella che si suppone abbiate tutti voi – le cose indubbiamente si fanno molto più complicate: l’Io è più sottile, è più rarefatto, non ragiona più per grandi movimenti, ma ragiona per sfumature; il suo egoismo non è più così (nella maggioranza dei casi) evidente, sfacciato, arrogante, ma molte volte diventa furbo, insinuante, cerca di ottenere quello che gli interessa magari con l’inganno o facendo finta di volere qualcos’altro; quindi la discriminante di cui parlavamo non può più essere applicata molto facilmente, ma deve essere applicata consapevolmente dall’individuo allorché si rende conto – e, con l’evoluzione che possiede a questo punto, può rendersene conto – che il suo comportamento può nuocere agli altri e ciò non va bene.
È in questo punto, in questa linea mediana dell’evoluzione della razza, che l’individuo deve fare il passo che lo porta ad avvicinarsi agli altri, che lo porta a considerare che il pianeta non è tutto suo ma appartiene a tutti quelli che lo popolano, e che con tutte queste persone lo deve condividere, e che, quindi, a quel punto, deve trovare un elemento di equilibrio tale che permetta non soltanto a sé ma anche agli altri di poter esplicare ciò che sente e i propri desideri di libertà personale.
Vi è poi l’individuo evoluto, quello che è a un passo dall’abbandono della famosa «ruota delle nascite e delle morti», colui che tutto   ha ormai compreso, o quasi tutto; gli mancano soltanto quelle due o tre sfumature per arrivare  finalmente  ad  abbandonare  l’incarnazione: non avrà bisogno di applicare discriminanti perché, automaticamente, grazie alla sua comprensione,  al sentire  che fluisce,  farà  ciò che sente; ma non più ciò che sente l’Io, bensì ciò che sente la sua coscienza.
Si troverà in un mondo di persone dall’evoluzione molto inferiore, dalla comprensione magari molto inferiore, e quindi nella condizione di dover essere d’esempio e, indirettamente, col proprio esempio, da maestro agli altri, e quindi cercherà di farlo nella migliore maniera possibile.
L’individuo dall’alta evoluzione, direte voi, «non si pone neppure il problema»… ma siete davvero sicuri di quanto state dicendo? Se il suo sentire è aver imparato il «non rubare», siete davvero sicuri che il suo sentire, comunque sia, fluirà in maniera tale che egli non penserà nemmeno di tenersi quei soldi?
Dovete ricordare che l’individuo incarnato, per quanto evoluto sia, è incarnato perché qualcosina deve ancora comprendere, sta facendo una sua vita che, magari , per … che so io … esigenze karmiche contempla, per fare un esempio, un figlio cieco che, con un’operazione adatta, potrebbe riacquistare la vista. La valigetta contiene 20 milioni, e – guarda caso – è proprio la cifra che potrebbe far recuperare la vista al figlio dell’uomo evoluto, il quale, d’altra parte, poiché non ha un grosso Io, non è riuscito a diventare un Berlusconi, ma è magari semplicemente un impiegato postale, che con difficoltà riesce a sbarcare il lunario e quindi difficilmente può trovare 20 milioni in più per pagare l’operazione agli occhi a suo figlio. Potrebbe essere una situazione normale, questa, no? Ma l’individuo è evoluto e allora, secondo voi, come reagisce di fronte a questa possibilità che l’esistenza gli mette davanti di avere i 20 milioni a disposizione? Qual è il suo senso del sentire: quello che gli dice che deve aiutare il figlio a riprendere la vista o quello che gli dice: «Non posso aiutare mio figlio a riprendere la vista usando i soldi di un altro»?
Non c’è dubbio che la scelta finale non possa che essere di non appropriarsi di quel denaro, però pensate che non abbia dubbi? Pensate che per un attimo non lo possa cogliere il pensiero «Questi soldi mi fanno comodo e li tengo»? Quindi vedete, creature, che anche con un’alta evoluzione, allorché si possiede un Io, anche la persona evoluta per un attimo può avere il dubbio di commettere qualche cosa che va contro la sua comprensione. Certamente poi, alla fine, com’è nella logica della Realtà, la comprensione raggiunta ha la meglio sulle pulsioni dell’Io perché, la spinta della vibrazione emanata dall’akasico è tale che l’Io soccombe, per forza di cose, a questa spinta che arriva piuttosto pura, piuttosto pulita alla coscienza dell’individuo incarnato.
Ricordate che, comunque sia, l’individuo incarnato un Io, lo possiede, deve possederlo per forza perché, se non possedesse un Io, non potrebbe neanche riuscire a barcamenarsi, a vivere all’interno della società e a contatto con gli altri. Non possedere l’Io significa non mostrare un carattere, una personalità, non essere capaci di interagire con gli altri; l’Io è necessario, comunque sia, finché si è incarnati, perché costituisce un mezzo di interazione con la realtà fisica in cui ci si trova a vivere l’esperienza.
Quindi, come vedete, anche applicare la discriminante in molti casi non è facile; tant’è vero che, come ho detto, questa discriminante può essere usata soltanto quando si ha già un certo livello evolutivo. L’importante è cercare di capire quand’è giusto fare ciò che si sente e quando non è giusto e cercare di esaminare con attenzione le conseguenze sugli altri del proprio comportamento; mettere da parte per un attimo le conseguenze su se stessi e poi cercare di comportarsi nel modo migliore per far soffrire l’altro (o l’altra) il meno possibile.
Certo, questo vorrà dire prendersi la responsabilità di agire, ed è questo che spaventa l’individuo più di ogni altra cosa. Per l’Io, la cosa migliore sarebbe poter sempre andare avanti nella stessa vita, avendo un rapporto – vero o falso che sia, ma un rapporto da mostrare agli altri – far finta che questo rapporto sia bellissimo, che la propria vita sia meravigliosa, che tutti gli amici siano persone stupende, che i figli siano gratificanti, che la vita che stanno conducendo stia dando loro tutto il massimo che può dare; mentre, guardando con attenzione, magari non è così. Quello che è importante – ripeto – è essere attenti a queste cose e cercare di comprendere quando veramente è giusto seguire ciò che si sente, cercando di non farsi mascherare o travisare da quelli che sono i desideri dell’Io … che, pur non esistendo, però è un gran  rompiscatole!
Qua c’è un altro problema, che sottintende una cattiva comprensione del concetto di Io: voi pensate che l’Io sia il demonio; niente di più sbagliato. L’Io non è né buono né cattivo; l’Io semplicemente esiste come risultante delle varie forze che arrivano all’individuo. Questo non significa che qualsiasi cosa l’Io vi induca a fare sia sbagliata. Questo forse non riuscite a capire! Voi partite dal preconcetto che, comunque sia, quello che l’Io fa è demoniaco e va combattuto; non è così!
Ci sono due aspetti da considerare in questa situazione: intanto molte cose costruite dall’uomo nel corso della sua storia, molte delle cose più meravigliose e più belle, più piene d’amore e via dicendo, sono state costruite sotto la spinta dell’Io; secondariamente, dovete considerare che quello che è importante da riconoscersi è quella che è la vostra motivazione, è la motivazione dell’Io, non l’azione; perché l’azione in se stessa può avere degli effetti positivi, può essere giusta, può essere utile per altre persone, può anche aiutarle, ciò non toglie che, per quanto la vostra azione possa aiutare un’altra persona, se fatta per motivi egoistici, – che so io … per essere in qualche modo considerato «importante» – la vostra azione ha aiutato l’altro ma voi dovete vedere qualche cosa perché l’azione che avete compiuto in quella maniera comunque era sbagliata; ma non sbagliata per l’altro, che riceve l’effetto della vostra azione: è sbagliata per la vostra coscienza, per voi stessi, perché c’era qualcosa che dovevate comprendere.
Per quanto riguarda, poi, l’ipotesi che il fatto di bloccare l’Io vi possa portare a dei problemi all’interno dell’individuo, nel corpo fisico o negli altri vari corpi, ci tengo a sottolineare che i vostri corpi sono pieni di problemi, tutti i giorni, in continuazione, per quello che compite, sia che seguiate l’Io, sia che non lo seguiate, e i vostri problemi nascono dal fatto che le vostre comprensioni non sono ancora abbastanza ampie e che, quando arrivano alla coscienza di voi incarnati, il vostro Io li usa per ottenere magari ciò che più desidera ottenere, entrando in contrasto con queste vibrazioni; ed è questo contrasto quello che provoca i problemi, non il fatto di bloccare l’Io. Scifo

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Fantasmi della mente

d-30x30Fantasmi della mente. Dizionario del

Quelli che le Guide hanno denominato «fantasmi della mente» si creano quando l’individuo sta cercando di trovare una soluzione a qualche situazione ma non ha tutti gli elementi indispensabili per trovarla. Accade, così, che questa idea continui a percorrere un circolo all’interno del suo essere e a rimanervi senza riuscire a sciogliersi fino a quando non troverà sfogo in una soluzione di qualche tipo scaturita dall’acquisizione di nuove esperienze all’interno del piano fisico.

Messaggio esemplificativo

Chi tra voi non ha dei dei fantasmi che, ricorrentemente, lo perseguitano nel corso delle sue giornate? Chi tra voi non ha paure, timori o desideri che lo tormentano nel corso della sua esistenza? Nessuno, penso. Vi siete chiesti alcune cose su quello che così abbiamo denominato, ma quello che non vi siete chiesti, in realtà, è come nascono questi fantasmi della mente, Qual è la loro genesi, da dove provengono e per quale motivo si vanno a formare all’interno dell’individuo incarnato. Moti

Per comprendere questo aspetto bisogna, per prima cosa, non cadere nell’errore, come mi è parso di avvertire, di concepire il corpo mentale come il caput mundi dell’individuo incarnato, come il corpo inferiore più importante tra quelli che l’individuo possiede, perché non è così.
Certamente il corpo mentale ha una grande importanza, in quanto senza il corpo mentale tutti voi non riuscireste a ragionare – non con questo che sempre ragioniate! – tuttavia se non vi fosse il corpo mentale certamente nessuno di voi riuscirebbe mai a ragionare!
Però bisogna tener conto del fatto che il corpo mentale basa i suoi ragionamenti, i suoi processi deduttivi e cognitivi, sugli elementi che vengono a lui dall’esperienza vissuta dall’individuo all’interno del piano fisico. Quindi, se il corpo mentale non avesse le sensazioni del corpo fisico e le emozioni ed i desideri del corpo astrale, certamente non avrebbe gli elementi sui quali fondare i propri ragionamenti.
Voi direte: «Ma al corpo mentale arrivano, però, le spinte dal corpo della coscienza: potrebbero bastare queste per indurre il corpo mentale a produrre dei ragionamenti», giusto? Certamente, in teoria potrebbe essere così, ma soltanto in teoria perché anche il corpo della coscienza, a sua volta, riceve di ritorno dal corpo fisico, dal corpo astrale, dal corpo mentale gli elementi tratti dalla vita all’interno del piano fisico per acquisire il sentire, e ciò che poi rimanda al corpo mentale arriva al corpo mentale attraverso questi elementi conosciuti, quindi sempre in dipendenza di questo flusso di informazioni che passa attraverso i corpi inferiori.
Non vi è, in questo anello di vibrazioni che passano attraverso i corpi inferiori dell’uomo incarnato, nessuna parte che sia più importante o meno importante: tutte sono importanti allo stesso modo e tutte sono dotate tra di loro di una certa sincronicità, ovvero lavorano praticamente contemporaneamente sui dati che entrano in circolo all’interno dell’individuo.
Come nascono allora, figli, i fantasmi della mente? Scifo

I fantasmi della mente nascono dall’illusione, ma è possibile che il corpo mentale si illuda? Quale può essere l’illusione data dal corpo mentale? In fondo, per sua stessa natura, esso ragiona lucidamente, direi freddamente, esaminando consequenzialmente le catene logiche che compongono i pensieri e, quindi, partendo da un punto, esamina i dati correlati a questo punto per arrivare, alla fine, alla conclusione.
Come può nascere, allora, il fantasma?
Se ci pensate un attimo, la risposta, alla fin fine, è abbastanza semplice: infatti, come diceva prima il fratello Scifo, ricordate che la sinergia tra i vari corpi, è sempre in atto, non sono mai ognuno a se stante e in condizioni di lavorare da soli, quindi, bisogna ricordare che al corpo mentale arriva anche ciò che sta vivendo il corpo fisico e ciò che sta vivendo il corpo astrale, attraverso i dati che essi sperimentano.
Ora, allorché al corpo mentale arrivano questi dati, può accadere che essi forniscano degli elementi illusori. Prendiamo l’esempio di un terremoto: il corpo fisico avverte questo tremito della crosta terreste e avvertire questo tremito fa inviare dal corpo fisico la percezione fisica di questo tremito al corpo mentale. Se non vi fossero altre interferenze da parte delle altre componenti destinate a completare l’esperienza, il corpo mentale farebbe due più due uguale quattro, ovvero: il corpo fisico ha avvertito un movimento del terreno. Significa, perciò, che il terreno si sta muovendo, punto e basta.
Ma mentre il corpo fisico avverte il movimento si mettono in moto gli altri meccanismi tipici dell’insieme dei corpi inferiori dell’individuo, ed ecco che il corpo fisico prova una sensazione di disagio perché non riesce più a mantenere il perfetto controllo dei suoi movimenti e si sente squilibrato rispetto alla terra su cui poggia i piedi, cosicché prova una sensazione spiacevole; questa sensazione spiacevole provoca il desiderio, naturalmente, che la sensazione possa finire, in modo che il disagio sparisca; questo a sua volta porta con sé la paura, anch’essa un’altra emozione, che il disagio possa continuare per sempre, quindi, il corpo astrale invia questi dati verso il corpo mentale, affinché vengano elaborati. A quel punto il corpo mentale mette assieme tutto ciò che ha ricevuto e quello che è il risultato viene – come si può dire – «trasformato» in un fantasma fatto di paura e di disagio, perché il suo due più due che prima veniva quattro, adesso è un’incognita che non riesce a elaborare o a comprendere.
Questo è tipico, ad esempio, di tutte le volte in cui capitate in una situazione nel corso delle vostre vite in cui dovete affrontare qualcosa che non conoscete e, quindi, vi spaventa: il processo che in voi si mette in moto fa sì da creare all’interno del vostro corpo mentale una risposta con una incognita, alla quale il corpo mentale cerca, attraverso i dati, la razionalità e i suoi processi logici, di dare una soluzione per ottenere la tranquillità dei corpi inferiori, e siccome non riesce a ottenere, con i pochi dati che ha, ciò che desidera, non può fare altro che cercare di dedurre quale può essere la soluzione, quale può essere la motivazione per il suo stato interiore, e la deduzione, naturalmente, è qualche cosa di diverso dall’esame logico, razionale delle concatenazione dei fatti ma vuol dire aggiungere qualche cosa in più che non è certo; questa aggiunta di fattore non certo, è un’incognita che il corpo mentale aggiunge al suo processo elaborativo per cercare di stabilizzare il pensiero che sta formando in modo da creare una situazione di equilibrio.
Se la sua deduzione è giusta, il fantasma non si creerà, se la deduzione, invece, è sbagliata ecco che si creerà all’interno del corpo mentale una sorta di forma-pensiero in cui è impressa questa deduzione ancora in attesa di essere trasformata in forma definitiva e giusta: questo è il fantasma della mente, che resterà come schema all’interno del corpo mentale, come schema razionale, deduttivo, che però deve essere ancora provato e, quindi, deve passare ancora attraverso l’esperienza, cioè deve ancora avere i dati provenienti da nuove esperienze del corpo fisico e da nuove reazioni del corpo astrale.
Il corpo mentale può, quindi, contenere in sé degli elementi illusori che noi abbiamo chiamato fantasmi. Moti

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima, pag. 120-123, Edizione privata

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Esperienza ed evoluzione del sentire

d-30x30Esperienza. Dizionario del

L’esperienza è il metodo principe che ci è stato donato per poter portare avanti la nostra evoluzione e riscoprire la nostra vera realtà: è solo attraverso l’esperienza fatta «sul campo» cioè nel corso della vita da incarnati che possiamo portare alla nostra coscienza i dati che le occorrono per ampliarsi e strutturare il nostro sentire in maniera sempre più organica.
Molti si chiedono perché è necessario vivere per fare esperienza, ma la risposta è abbastanza semplice, secondo quanto ci insegnano le Guide: la coscienza, per comprendere a fondo, ha necessità del maggior numero di dati e l’esperienza acquisita nel corso dell’incarnazione attraverso gli strumenti a disposizione dell’incarnato (ovvero i corpi fisico, astrale e mentale) fornisce tutti i molteplici elementi che compongono l’esperienza stessa: le azioni e reazioni della persona, le sue emozioni, i suoi sentimenti e i suoi pensieri e ragionamenti, dandogli la possibilità di osservare quanto è stato affrontato con la più ampia gamma di elementi possibile. A volte, quando siamo incarnati, ci sembra di essere sommersi e immobilizzati dai troppi dati che l’esperienza ci mette davanti, ma si tratta solamente di una reazione dell’Io di fronte alla sua impossibilità di avere tutto sotto controllo. In realtà, anche nei casi in cui l’Io sembra essersi immobilizzato, i dati continuano, comunque, ad affluire alla coscienza.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima, pag. 115-116, Edizione privata

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Emozioni e consapevolezza

d-30x30Emozioni. Dizionario del

Per favorire la completezza delle esperienze dell’uomo incarnato gli sono stati forniti corpi diversi che gli permettono di interagire con la materia fisica, di provare emozioni e di strutturare il pensiero. Ognuno di questi strumenti è necessario e indispensabile per avere la maggiore completezza nel vivere l’esperienza e poterne trarre i frutti.
Le emozioni, solitamente, sono quelle che più spaventano in quanto assumono spesso forme improvvise e impetuose che mettono in difficoltà l’Io principalmente perché le avverte come incontrollabili, e questo rende difficoltoso il suo voler tenere tutto sotto controllo.
Tuttavia, chi vuole comprendere se stesso non può prescindere dall’espressione e dalla manifestazione delle sue emozioni, proprio per questa loro caratteristica di poca vestibilità da parte dell’Io. Il consiglio delle Guide è sempre stato quello di non reprimere le emozioni ma di cercare di esprimerle osservandole e limitandosi a mediare la loro forza quando si ritiene che possano essere dannose, nella loro espressione sul piano fisico, per sé o per gli altri. Osservandole, infatti, si può risalire alle spinte interiori che le hanno fatte nascere e, quindi, arrivare a comprendere i propri perché più profondi che, ovviamente, non saranno i perché definitivi, ma certamente indirizzeranno verso la scoperta di quelli che sono i propri nodi di sofferenza e di incomprensione interiore.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima, pag. 114-115, Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

Egoismo ed espressione dell’Io

d-30x30Egoismo. Dizionario del

Comportamento dell’individuo che agisce spinto dal suo Io più che dal suo sentire.
In qualche misura ognuno di noi, quando è incarnato, manifesta principalmente il proprio Io e, di conseguenza, il proprio egoismo, e continuerà a farlo fino a quando, con l’ultima incarnazione, l’Io non sarà più necessario per fornirci gli stimoli per comprendere e, quindi, verrà abbandonato definitivamente.
È importante renderci conto del nostro egoismo perché è solo attraverso la sua conoscenza e la consapevolezza che ci appartiene intimamente che possiamo arrivare, lentamente, a comprenderlo e, alla fine, a superarlo.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima, pag. 114, Edizione privata

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Il dolore e la necessità di comprendere

d-30x30Dolore. Dizionario del

Il dolore – ci dicono le Guide – è l’ultima arma che usa l’esistenza per farci comprendere. Non è mai fine a se stesso, ma riguarda sempre qualche cosa che non si è ancora riusciti a comprendere. Dolore e sofferenza hanno, così, l’importante funzione di stimolare l’Io ad agire nel tentativo di evitare o di annullare i loro effetti.
Anche il dolore più grande – ci è stato insegnato – può essere superato e, osservandolo con sincerità e obiettività dopo che l’esperienza dolorosa ha perso parte della sua influenza, si può facilmente diventare consapevoli che non è stato inutile e che è riuscito, malgrado tutto, ad insegnarci qualcosa.

Messaggio esemplificativo

Fratelli, sorelle, quante volte vi sento affermare, vi sento vivere la vostra disperazione di fronte ad un dolore: ma il dolore, fratelli, la sofferenza, sorelle, è un aiuto che Dio vi porge, è un aiuto che l’Altissimo, nella sua infinita bontà, vi mette nelle mani affinché voi possiate capire, affinché voi possiate comprendere la Sua realtà.
E non dovete versare lacrime per questo dolore, fratelli, non dovete lasciarvi coinvolgere del tutto da questa sofferenza, sorelle, perché a parte quello che può essere il primo momento, a parte quelle che sono le prime reazioni, figli nostri, di fronte a tanto dolore, dovete imparare a superarlo, ma vivendolo e non rassegnandovi, perché la rassegnazione, fratelli e sorelle nostre, è passività, e noi non vogliamo vedervi divenire passivi, ma vogliamo che voi attivamente viviate le vostre giornate.
Il dolore va vissuto intensamente, va capito, va amato allo stesso modo di come si amano le cose belle e meravigliose che l’Assoluto ci manda. Dal dolore si comprende, figli nostri, dal dolore si rinasce, dal dolore si crea, dal dolore… dal dolore si possono far rifiorire tante nuove cose; ma se voi non accettate tutto questo, se voi, figli nostri, rifiutate questa realtà, se voi vi mettete di fronte al dolore con passività e rassegnazione, a nulla tutto questo vi potrà servire, e non solo: altri dolori si aggiungeranno fino al momento in cui non capirete che è Lui, che nella Sua misericordia, in questo modo invita ogni Sua creatura a comprendere, a vivere, a procedere in avanti. Viola

Come si fa a comprendere quando vi è un disequilibrio fra razionalità e sentire? Quando nell’osservare, ad esempio, un’altra persona, la si osserva soltanto con la mente senza l’ausilio e la cooperazione del sentire.
L’unico modo per scoprirlo è quello di verificare in continuazione le cose che si crede di aver acquisito, di verificarle, non soltanto attraverso la mente, ma anche attraverso lo scontro diretto con l’esperienza.
Ecco perché noi diciamo così spesso che la migliore maestra all’interno della vita umana è la vita stessa: perché soltanto vivendo la propria vita da uomo, soltanto affrontando in continuazione l’esperienza, senza ritirarsi in preda ai dubbi ed alle paure, si può arrivare a conoscere non soltanto il mondo esteriore, ma principalmente se stessi, principalmente le proprie idee e il proprio sentire.
Certo, fare questo comporta molte volte scontrarsi e trovarsi faccia a faccia con la sofferenza, perché non è facile ammettere di sbagliare, non è facile ammettere di aver giudicato in modo sbagliato un fatto o, addirittura, una persona, cosicché la sofferenza diventa quasi inevitabile. Ma anche la sofferenza, figli, è una maestra, anche la sofferenza rientra nella logica della necessità dell’esistenza, perché (come diciamo spesso e lo ripeto ancora) è l’ultima arma che l’esistenza ha a sua disposizione per indurre a comprendere l’individuo che non vuole comprendere.
Vi è, quindi, una ragione logica della presenza della sofferenza all’interno dell’umanità, che non va ricercata solamente in una natura umana, in certi comportamenti umani, in un istinto umano, che sembrano tendere a prevaricare gli altri uomini, a comportarsi egoisticamente, a sopraffare gli altri, ad arraffare, ma va ricercata anche nell’intenzione di Colui che tutto muove e che, proprio grazie alla sofferenza, tende ancora una volta la mano all’individuo che non riesce a capire da solo.
Quindi, figli, anche se soffrire non è facile e anche se la sofferenza – quasi sempre – sembra un’ingiustizia, cercate di rendervi conto che qualunque cosa vi accade, in realtà, è sempre e solo per il vostro bene, perché non accade mai, nel corso di qualunque vita, che una sofferenza – per quanto forte e grave essa sia – alla fine non porti al raggiungimento di qualcosa di utile e di positivo.
Chiunque tra voi ha avuto una forte sofferenza e la ricorda a distanza di parecchi anni, quando il coinvolgimento emotivo è ormai superato, può rendersi conto che da quella sofferenza, che allora era sembrata insopportabile e insormontabile, gli son venute molte cose buone che l’hanno reso migliore, che gli hanno fatto comprendere i suoi comportamenti errati, le sue manchevolezze, che l’hanno fatto, insomma, avanzare di un passo sulla scala della comprensione di se stesso. Moti

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima, pag. 110-112, Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior