Desiderio e ricerca esistenziale

d-30x30Desiderio. Dizionario del

Il desiderio esiste nell’uomo per spingerlo a ricercare in continuazione ciò che ancora non possiede, in funzione dei continui bisogni di comprensione della sua coscienza per la quale ristagnare non è mai una condizione ideale.
Ovviamente, il desiderio è utile nel momento in cui assolve questa funzione, ma diventa, invece, dannoso, quando ciò che si desidera diventa preminente rispetto alle altre esigenze della vita, facendo perdere spesso l’obiettività, la razionalità, l’attenzione verso i bisogni di se stessi e degli altri.

Messaggio esemplificativo

La sorgente del desiderio sta non sul piano astrale bensì in parte sul piano akasico (nel corpo akasico dell’individuo) e in parte nell’Io dell’individuo; ovvero, dalle comprensioni o non-comprensioni che esistono nel corpo della coscienza dell’individuo e in ciò che queste comprensioni o non-comprensioni fanno nascere all’interno dell’individuo (nel suo corpo astrale, che è preposto proprio a questo) con l’incontro-scontro con la realtà; ovvero con il reagire dell’Io all’interno del piano fisico in cui si trova a vivere, e quindi il suo tentativo di espandere il possesso della realtà, e quindi di se stesso.
E le emozioni, creature? Qual è la loro sorgente?
Le emozioni si trovano ad agire, a interessare «tutta» la materia del piano astrale, a seconda della finezza delle loro vibrazioni. La sorgente delle emozioni non è altro che il desiderio: le emozioni sono una diretta conseguenza del desiderio e del fatto che questo desiderio venga o meno appagato, venga o meno frustrato, all’interno, dai tentativi che l’individuo compie per cercare di acquisire comprensione all’interno del suo corpo della coscienza. Come conseguenza di questo elemento che ho appena detto, si può dedurre che le emozioni non possono esistere dove non vi sia desiderio. Quindi, dal fatto che il desiderio nasce dalle comprensioni o non-comprensioni del corpo akasico si può dedurre che il desiderio esiste sempre e comunque allorché un individuo ha qualcosa ancora da comprendere, quindi è ancora inserito nella ruota delle nascite e delle morti, ovverosia è incarnato in un corpo fisico. Da questo se ne deduce che nessun individuo incarnato (per quanto evoluto possa essere), proprio per il fatto stesso di essere incarnato e di usufruire necessariamente di questo interscambio tra akasico e fisico, tra realtà «superiore» e realtà «inferiore»), potrà mai essere privo di desideri e di emozioni. Scifo

Si può comprendere, allora, come il concetto di «abbandono del desiderio» che è stato trasportato nel tempo dalle dottrine orientali, non abbia una connotazione molto positiva o, quanto meno, una connotazione molto accettabile allorché si conosce la Realtà nella sua costituzione più intima. Infatti, com’è che si può fuggire dai desideri quando vi è un corpo fisico che ha dei bisogni? Com’è possibile abbandonare il desiderio quando vi è un corpo astrale che vibra e che osserva nel mondo, tante altre creature che hanno bisogno e che soffrono e che, quindi, fanno nascere in consonanza con il corpo akasico dell’individuo il desiderio che esse non soffrano più? Com’è possibile abbandonare il desiderio quando la mente, che osserva ciò che si sta vivendo personalmente, continua a sussurrare che vi deve essere per forza di cose la maniera per vivere in un modo migliore, più giusto, più vero, più reale?
Non è possibile, figli nostri. L’abbandono del desiderio vi può essere soltanto allorché tutto ciò che poteva essere compreso, senza lasciare nulla indietro, è stato ormai compreso. Allora non si desidererà più; o, meglio ancora, vi sarà un altro tipo di desiderio: quello che spingerà l’individuo che ha compreso a mettere in atto la sua comprensione in maniera diversa, non attraverso l’incarnazione sul piano fisico, per aiutare le altre creature che ancora non hanno raggiunto la stessa comprensione. Certamente non è possibile con la forza di volontà non desiderare; soltanto il fatto di «non voler desiderare» in realtà è un desiderio! Non è possibile in nessun modo abbandonare il desiderio ripeto se non sono stati abbandonati quegli impulsi che ancora chiedono della comprensione. Se qualcuno di voi, ad esempio, non desiderasse alcunché, non sarebbe vivo, non parteciperebbe alla storia della Realtà, non interagirebbe con essa e sarebbe alla stregua di un dipinto fatto su un muro su cui viene data una mano di vernice che lo copre e lo rende bello ma inutile per tutti. Moti

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima, pag. 108-110, Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

 

Curiosità e intenzione

d-30x30Curiosità e intenzione. Dizionario del

Soltanto apparentemente ciò che viene detto in queste riunioni è semplice. In realtà, esse trattano di tutte le cose che a voi sono più vicine e, quindi, alla fin fine, più importanti per comprendere la vostra vita perché ognuno di voi ha comunque la curiosità almeno di arrivare a comprendere qual è il senso del proprio esistere sul piano fisico. Ed ecco che, allora, si aggira nei labirinti della propria mente alla ricerca delle risposte, perché ricordate che non è il corpo fisico il corpo che possiede una curiosità, non è il corpo astrale che può possedere una curiosità in quanto governato e spesso travolto dalle emozioni, dai desideri e dalle sensazioni che vengono dal corpo fisico, ma è quella parte di ognuno di voi che abbiamo definito «corpo mentale», cioè la parte che governa il vostro pensiero. In esso risiedono le curiosità, quelle che sorgono dai dati che provengono dal corpo astrale e dal corpo fisico e che contemporaneamente raccolgono le spinte, gli impulsi verso la comprensione che provengono dal corpo akasico, dal corpo della coscienza. L’incontro e lo scontro tra queste vibrazioni di diversa direzione fanno nascere nel corpo mentale dell’individuo la necessità ed i bisogni, la ricerca del perché di ciò che si presenta sotto la sua esperienza nel corso di quell’esistenza.

Messaggio esemplificativo

Voi vi siete chiesti, giustamente, qual è la curiosità giusta e qual è la curiosità sbagliata. Sotto il profilo dell’evoluzione dell’individuo non vi è curiosità «giusta» né curiosità «sbagliata» ma vi è soltanto un tentativo di comprensione attraverso la curiosità a gradi, ovviamente, diversi e che tuttavia è giusta per quell’individuo in quel momento per arrivare a comprendere anche la più piccola delle cose che non aveva ancora compreso fino a quell’attimo.
Al di là, però, di questi ragionamenti strettamente filosofici e quindi lontani alla fin fine da ciò che voi siete, vivete, patite, soffrite nel corso delle vostre esistenze, c’è un modo per cercare di arrivare a comprendere non la curiosità degli altri ma, quantomeno, la curiosità che nasce in se stessi, cercare cioè di arrivare a comprendere se e fino a che punto la curiosità che vi sentite urgere dentro è giusta o sbagliata relativamente a ciò che voi avete compreso fino a quel momento.
Questo non può essere altro che dato dall’intenzione che muove la vostra curiosità.
Ecco, quindi, che nel momento in cui ognuno di voi – bene intenzionato – cerca di arrivare alla profondità del proprio essere per mettere in moto quel «conosci te stesso» che governa in via generale l’evoluzione degli individui, ecco – dicevo – che il modo migliore è quello di cercare ogni volta che vi ponete la domanda non soltanto di andare verso la risoluzione, la risposta alla domanda che vi ponete ma, ancor prima, di comprendere qual è l’intenzione con cui quella domanda ve la state ponendo. In quel modo, anche se la vostra domanda in seguito non avrà la risposta che voi aspettavate o addirittura non avrà alcuna risposta, tuttavia, quel vostro perché avrà espletato la sua funzione perché vi avrà indirizzato a raggiungere qualche cosa di voi stessi che non eravate riusciti a mettere a fuoco; e se quel qualcosa, quella vostra intenzione che potreste riuscire a scoprire è un’intenzione altruistica, bene, siate felici per voi stessi; ma se per caso, come molto più spesso accade, arrivaste a scoprire che la vostra curiosità è mossa dal desiderio di comprendere qualcosa degli altri per avere potere su di loro, è mossa dal bisogno di sentirsi superiore agli altri smascherando magari l’altrui meschinità per coprire la propria, ebbene, non vi abbattete, figli, rendetevi conto che se scoprite che è così vuol dire che siete giunti al punto in cui potete modificare questa vostra non comprensione, e partite da quel punto non per accumulare le azioni negative ma per immergervi ancora un pochino di più in voi stessi e riuscire a cambiare l’impronta del vostro «perché».
Dalla favola che avete letto (1 ) e commentato vi era qualcos’altro da poter estrapolare. Non vi siete chiesti, forse, se Krsna, nella favola, può essere definito curioso; se era davvero curioso o se la sua (curiosità) era soltanto uno strumento per attirare l’attenzione del «deva preferito». Voi avete accorciato la strada dicendo che senza dubbio Krsna stava dando una lezione al deva per riportare la sua attenzione su ciò che è importante e ciò che non è importante. Potrebbe essere così, senza dubbio, ma siccome siamo – nella discussione delle favole – nell’ambito del «potrebbe» e non dell’«è», vi è forse un’altra piccola cosa da considerare. Vedete, noi vi abbiamo spiegato che Krsna è un aspetto dell’Assoluto e voi, come bravi discepoli, avete sempre ripetuto questa piccola frase – fatta senza ben chiarirvi che cosa significhi essere «un aspetto» dell’Assoluto.
Voi sapete che, per la creazione della Realtà, l’Assoluto nel muovere la Sua volontà, la Sua vibrazione verso i piani inferiori e creare così l’esistente, un po’ alla volta si scinde, prima in due, poi si moltiplica, si moltiplica e si moltiplica fino a dare l’enorme varietà di forme che voi conoscete come «realtà fisica». Ora, Krsna appartiene – come aspetto della divinità – a una delle prime scissioni (virtuali, naturalmente), ad uno dei primi frazionamenti virtuali dell’Assoluto nel protendersi verso la creazione della Realtà; e nel momento stesso in cui quest’aspetto di Dio diventa una Sua parte che, in qualche modo, si scinde assieme alle altre parti, senza dubbio non è più completamente consapevole, al 100%, di essere ancora l’Assoluto.
Ecco, quindi, che esiste in questa parte, anche nella manifestazione divina, la tendenza a ricongiungersi con l’Assoluto, la tendenza a ritornare alla completezza dell’Assoluto e, quindi, la curiosità di arrivare a scoprire quei punti di contatto che lo renderanno pienamente, totalmente, consapevole di essere tutt’uno con Esso, come magari sta sospettando di essere.
Ecco, quindi, che in quest’ottica, nell’ottica di qualsiasi frazionamento diverso e minore del Tutto, forse può essere accettabile l’idea di un Krsna veramente incuriosito dall’assoluta e meravigliosa perfezione di quella piccola pallina di capra; tant’è vero che ne loda la meraviglia e afferma di non riuscire a comprendere quale fantasia l’Assoluto abbia potuto mettere in moto per creare anche una cosa così piccola eppure, nel suo piccolo, così essenziale e perfetta all’interno della realtà che sta osservando. Moti

1- Si fa riferimento alla “Favola della pallina di capra”che riportiamo per facilitare la comprensione del messaggio:
Il deva preferito di Krsna stava guardando il suo Signore seduto in mezzo a un prato che faceva rotolare tra le dita qualche cosa. Il sole tramontò e, ancora, Krsna stava facendo rotolare quel qualcosa di così piccolo che il suo deva non riusciva a vedere, e continuò a osservarlo attentamente, mentre il sole ancora sorgeva, e sempre Krsna non si toglieva da quella posizione. Alla fine, senza riuscire più a trattenersi dalla curiosità, si avvicinò e gli disse: «Cosa stai facendo, mio Signore? Cos’è che tieni tra le dita?»
«Come, mio caro, non vedi cos’è che ho tra le dita? E’ una pallina di capra»
«Una pallina di capra! Per due giorni, vuoi dire, mio Signore, che Tu hai giocato e guardato questa pallina di capra?»
«Sì, mio caro, e per quanto io l’abbia guardata intensamente e in tutte le posizioni non sono riuscito a comprendere quale atto di fantasia ha messo in moto il Creatore per creare una cosa così bella!» (Ananda)

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima, pag. 100-104, Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

Cultura e intelligenza

d-30x30Cultura e intelligenza. Dizionario del

Il principio di ambivalenza è applicabile a qualsiasi cosa, pensiero, emozione, azione, in quanto connotati positivamente o negativamente da chi li osserva, li percepisce, li mette in atto.
È applicabile in maniera evidente anche al concetto di cultura: la cultura è un fattore positivo quando la persona che la possiede usa ciò che sa per comprendere in maniera più approfondita se stesso e ciò che vive, ma diventa negativo quando viene usata per porre barriere nei confronti di chi è meno colto, per ergersi al di sopra degli altri, per fare, insomma, della cultura un tratto distintivo di merito e di superiorità nei confronti delle persone con una cultura inferiore.
Molto spesso chi ha una grande cultura finisce con il farsi sovrastare da essa e col perdere di vista l’umiltà, quell’umiltà che, dicono spesso le Guide, deve sempre portare ad avere presente il fatto che per ogni cosa che si sa (o si crede di sapere) ce ne sono un’infinità che neppure sono state sfiorate dalla nostra conoscenza.

Messaggio esemplificativo

Il Buddha definì la prima via della sua dottrina la «giusta conoscenza». Ma cosa intendeva il Buddha con queste due parole, così semplici? Scifo

La giusta conoscenza non è solo comprendere cosa sia il bene e cosa sia il male, ma è arrivare a riconoscere cos’è che li crea all’interno dell’uomo. Colui che comprende il bene e il male comprende che essi scaturiscono dal tentativo di evitare la sofferenza o dal fatto di cercare di non esserne preda, ma la giusta conoscenza non può fermarsi agli effetti; così deve risalire alla radice della sofferenza, che va riconosciuta nel desiderio, in quanto la sofferenza nasce dal desiderio inappagato.
Ma il desiderio, figli, non appartiene all’uomo, appartiene al suo Io, il quale, con esso, si veste di panni sfarzosi per alimentare se stesso; la giusta conoscenza è, così, quella che porta a conoscere non solo il bene e il male, non solo la sofferenza, non solo il desiderio, ma ciò da cui essi nascono, cioè l’Io. Conosci e comprendi a fondo il tuo Io, e il desiderio non ti muoverà più, e la sofferenza non ti strazierà più, e il bene e il male non si combatteranno più dentro di te.
Non è forse ciò che noi in altri termini, adeguati al vostro sentire attuale vi proponiamo?
Com’è facile, per chi non comprende, recepire questo insegnamento in questa forma come una rinuncia alla vita, un’istigazione all’abulia, all’inoperosità, alla passività, all’annullamento interiore… mentre, per chi comprende, esso appare nella sua giusta luce di comprensione della realtà e di espansione della coscienza individuale ben oltre i ristretti confini del proprio Io.
Ascoltiamo ancora le parole del Buddha: Chi ha espugnato la fede e la saggezza viene portato avanti dal suo essere armonioso come se fosse in un carro.
La coscienza lo indirizza, la mente lo serve, la rettitudine lo tiene unito e l’estasi lo sorregge, l’energia lo fa muovere e la calma lo rende stabile, la mancanza di desiderio lo infiora, la benevolenza, la dolcezza e la serenità lo rendono invincibile, e la comprensione lo difende nel suo cammino verso la pace. Questo carro immenso e ineguagliabile ogni uomo lo può costruire da se stesso evolvendo il proprio Io. Moti


Cultura e intelligenza

Il pensiero delle Guide sul reale rapporto tra cultura e intelligenza è chiaro e semplice: i due termini non sono sinonimi e non necessariamente avere cultura significa essere intelligenti e viceversa.

Messaggio esemplificativo

Parliamo per un poco di tutta quella folla di persone che in questi anni hanno riempito le aule delle università alla ricerca e alla conquista di una «laurea».
Osservando scrupolosamente queste persone, mi sono ritrovato molto spesso a chiedermi quante di esse si siano trovate a varcare la soglia delle aule universitarie perché spinte veramente dal desiderio di imparare, conoscere, approfondire, esercitare una professione di importanza sociale che soltanto attraverso la laurea è possibile esercitare; e quante, invece, si sono trovate in quei lidi soltanto perché pensavano che il possedere una laurea fosse anche qualcosa che ispirasse fiducia e, soprattutto, reverenza da parte degli altri.
Mi sono divertito in questo periodo ad osservare nell’intimo di tutte queste persone ed ho visto che (nonostante tutte le mie speranze), purtroppo, il numero di coloro che intraprendevano questa via, mossi dal desiderio di adoperarsi nello studio per il bene degli altri, per il bene della società stessa, era esiguo.
Infatti, ho potuto notare, in questi anni di osservazione (e, credetemi, sono stati tanti!) come la corsa all’università sia stata dettata per un buon numero di persone dal desiderio di avere un certo prestigio, reverenza, rispetto e l’onore di essere chiamato «dottore».
Già… l’onore di essere chiamato «dottore», al di là delle proprie reali capacità intellettive, al di là delle proprie possibilità di attuazione pratica degli studi compiuti. Perché tutto questo?
I motivi che hanno spinto e, forse per molto tempo ancora, spingeranno questi poveri ragazzi, sono molti, ma io ne vorrei prendere in considerazione soltanto uno: quello per cui una buona parte della gente comune ritiene che avere una «laurea» significhi, necessariamente, essere persone intelligenti.
Eh no, cari miei! Se così fosse, considerando il numero dei laureati, le cose nel vostro mondo andrebbero senz’altro molto meglio. Eh no, cari miei! Perché in tutti questi anni di osservazione posso dire che ho notato più «stupidità» tra i laureati che non tra le persone poco colte.
Già un tempo avevo affermato che cultura non è uguale a intelligenza, e sottoscrivo ora quanto avevo detto allora, dicendo che «laurea» non è uguale a »intelligenza».
Non staremo certo ad analizzare che cosa significhi intelligenza, anche perché definire in breve tempo l’intelligenza è un compito molto difficile; cercheremo, piuttosto, di analizzare come mai ad un certo punto dell’evoluzione, l’uomo comune tende a confondere l’intelligenza con la cultura e con la laurea. Non entreremo senz’altro in polemica con l’attuale sistema di insegnamento universitario e con la struttura stessa dell’attuale università perché, in realtà, il problema non ci riguarda da vicino, almeno per quello che vogliamo adesso dimostrare; caso mai quello è un problema sociale che potremmo analizzare in un’altra occasione. La laurea non è sinonimo di intelligenza, a mio avviso, per diverse ragioni, non ultima quella per cui la laurea altro non è che un attestato di preparazione (per lo più) culturale di una persona in una determinata disciplina; che poi questa persona dimostri di aver compreso quanto ha studiato e riesca a metterlo in pratica (dimostrando così in questo modo di avere una certa intelligenza) è tutto da verificare, da sperimentare. Se la laurea, dunque, dà soltanto la conoscenza, la preparazione teorica, un bagaglio culturale non indifferente, non è detto che dia anche la certezza che quella persona sia in grado di mettere in pratica quanto conosce teoricamente (unico indice, a parer mio, di intelligenza).
Ve lo ripeto: se il numero dei laureati aumenta, aumenta di conseguenza il livello culturale (questo è un dato di fatto di una certa importanza), ma non aumenta senz’altro il livello intellettivo.
L’intelligenza non si misura con la preparazione culturale (altrimenti pensate a come dovrebbero essere considerati coloro che di lauree ne hanno due: dei geni!… eppure, molto spesso, la realtà dimostra esattamente il contrario), ma è qualcosa che si misura nelle azioni di tutti i giorni, anche in quelle in cui non è necessaria una preparazione culturale.
Gettate via, quindi, quella sudditanza psicologica che a volte vi fa avvicinare i laureati come se fossero «Colui che Tutto sa», è che vi fa dire: «Se l’ha detto anche lui che è dottore…».
Non me ne vogliano per queste parole i sostenitori della cultura in genere e della laurea: il mio non vuole essere un inno all’ignoranza, il mio vuole essere semplicemente un discorso che vi aiuti a cacciare certi preconcetti, certi fantasmi della mente, e che vi dia una mano a considerare ogni cosa che fa parte del vostro mondo fisico nella sua giusta luce.
Lo studio, la conoscenza, la cultura, sono senz’altro elementi positivi nel cammino dell’individuo (fosse anche solo per il fatto che aiutano l’individuo stesso, se li vive nella giusta misura, a mantenersi attivo, elastico, aperto mentalmente); anche la laurea, considerata sotto questo punto di vista quindi, è senz’altro uno stimolo in più per la mente. E perbacco, se questo non è un aspetto positivo!
Ma, e qui mi ripeto, l’intelligenza è qualcosa di pratico, di immediato, di intuitivo, qualcosa che si verifica nelle azioni di tutti i giorni, oserei dire in ogni momento della vita individuale, e che nessuna università può certificare, nessun test psicologico può valutare, ma ogni uomo può scoprire, relativamente a se stesso, in ogni istante della sua vita, grazie alle esperienze cui l’Esistente lo sottopone.
Ma, come mio solito, mi sono perso un po’ per strada; lo scopo di questo discorso era quello di dimostrare che identificare l’intelligenza con la laurea è tipico dell’uomo di media evoluzione. L’individuo di media evoluzione è quello che vive in un modo raffinatamente egoista, non è quello che è terribilmente egoista e non si cura degli altri né positivamente né negativamente; è quello che maschera il suo forte egoismo, il suo Io al culmine della maturità, in azioni apparentemente altruistiche. Ma quest’uomo comincia a sentire dentro di sé il desiderio di fare qualche cosa per vincere quell’egoismo di cui, almeno in parte – soprattutto nelle azioni che hanno del macroscopico – si rende conto; è quello, quindi, che si sforza di limitare la spinta egoistica che, purtroppo, è ancora dentro di lui.
L’uomo di media evoluzione dice: «Studio ingegneria per aiutare la mia società», oppure ancora: «Divento chirurgo per dare una mano ai miei fratelli», oppure ancora: «C’è tanta gente che soffre di solitudine ed ha bisogno di comunicare, parlare… mi laureo in sociologia», e così via.
E voi credete che tutti, tutti coloro che diventano medici, ingegneri, architetti, fisici, psicologi, sociologi, etc., etc., lo abbiano fatto perché veramente mossi da intenzioni altruistiche? Se rispondete di sì non continuate a leggere questo messaggio, perché io vi dirò che non è così (naturalmente non in tutti i casi: noi ci occupiamo di casi limite, anche se abbastanza frequenti).
Quell’uomo, ragazzo prima, che si è trovato nelle aule universitarie è stato mosso da bisogni egoistici che così riassumo: il bisogno di avere importanza (e la laurea ne dà), il desiderio di fagocitare conoscenza (“Per essere più preparato» dice lui «Ma per poter in futuro far mostra di sé» dico io), in taluni casi – i più disperati – il piacere di indurre sudditanza psicologica negli altri perché – anche se i tempi sono veramente un po’ cambiati, ma non abbastanza – la laurea continua ad esercitare un certo fascino.
Non entriamo in particolare analizzando poi coloro che fanno sforzi – a volte sovrumani – per raggiungere la laurea a pieni voti: è un problema secondario e una logica conseguenza di tutto questo. La laurea soddisfa quindi i propri bisogni egoistici e li soddisfa abbastanza pienamente, anche se non a livello pratico – infatti non tutti i laureati riescono, malgrado i loro sforzi, ad esercitare un’attività degna della loro preparazione – per lo meno a livello psicologico e, credetemi, è più gratificante la soddisfazione morale (questo per l’Io) di quella materiale.
Però la laurea riesce sempre a dare l’impressione, almeno all’esterno, di generosità, di altruismo, di apertura verso gli altri, insomma dà tutta l’impressione che colui che l’ha raggiunta, toccata, sia un uomo che è votato alla causa degli altri.
Ecco il motivo di tanta corsa: se considerate, infatti, che coloro che sono attualmente i vostri fratelli incarnati sono tutti più o meno al vostro stesso livello evolutivo, capirete il perché di tanta folla nelle università.
Non siamo pessimisti, quello che sta accadendo non è un cattivo segno, credetemi; anzi, al contrario è proprio un buon segno perché, anche se mosso ancora dall’impulso di soddisfare i propri bisogni, quest’uomo, in un modo o nell’altro, sta facendo veramente qualcosa per gli altri (e qualcuno ci riesce anche abbastanza bene), si adopera per i suoi fratelli, tende quindi ad agire verso l’esterno, verso il non-Io.
Quindi, anche se alla base vi sta sempre la propria gratificazione personale per colui che riceve – come vi hanno insegnato le Guide – non ha importanza la quantità di egoismo contenuta in quell’azione ma ha importanza invece il fatto che quella stessa azione sortisca degli effetti per lui positivi.
Forse – a questo punto – vi ho confuso le idee; vi chiederete che senso ha questo messaggio, vi starete dicendo che siamo dei nichilisti. No, se avete pensato queste cose significa che non avete capito nulla del nostro gran parlare.
È chiaro che tutto ciò che vi circonda, che ogni azione umana ha un duplice aspetto, ha una sua importanza soggettiva ed una oggettiva. Guardate, quindi, ogni vostro movimento, ogni vostra azione alla luce di questa dualità, sempre presente e, forse, riuscirete a capire qualche cosa di più di voi stessi.
Allora, per concludere: ci si deve laureare oppure no? Certamente, se un individuo sente il desiderio di farlo lo faccia, non c’è problema; ma cerchi anche di comprendere quali sono le vere motivazioni del suo agire, e si guardi davanti allo specchio, e se le dica con la massima sincerità.
D’altra parte, considerate che se uno è egoista, è egoista sia che sia un perfetto ignorante sia che sia un emerito laureato, e che l’egoismo non si supera non facendo ciò che ha tutta l’aria di essere un’azione «ioistica»; fatelo pure! Fate tutto ciò che sentite di fare purché riusciate sempre a vedere dentro di voi la vera motivazione; poi, a poco a poco, a forza di guardarvi, di criticarvi, di scoprirvi, l’egoismo stesso si attenuerà da solo, senza bisogno di compiere sforzi che attualmente non siete in grado di fare.
Anche per quello che riguarda il vostro attaccamento all’esteriorità (e la laurea rientra anche in questo aspetto), è valido lo stesso discorso: siatene consapevoli e cercate di scoprirne i motivi, le cause: il resto verrà in seguito da solo, automaticamente.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima, pag. 94-100, Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

Cristallizzazione e comprensione

d-30x30Cristallizzazione. Dizionario del

Momento di stasi interiore dell’individuo incarnato, che causa al suo interno un blocco delle spinte verso l’evoluzione e la comprensione. Per uscire dalla cristallizzazione talvolta basta lo stimolo giusto proveniente dalle vicissitudini della vita o quello interno risalente alle spinte della coscienza ma, nei casi in cui l’individuo non riesce proprio ad uscire da essa, l’esistenza sarà costretta a ricorrere all’arma estrema, ovvero la sofferenza: per sfuggire ad essa l’Io si trova, infatti, costretto ad agire e, perciò, a rimettere in moto l’interazione delle varie componenti dell’individuo e la vita che sta vivendo, alla ricerca di un nuovo equilibrio in cui la sofferenza sia la minore possibile.

Messaggio esemplificativo

Il concetto di cristallizzazione è un concetto che, al di là delle sue sfumature filosofiche, è importante per ognuno di voi, singolarmente, non soltanto in linea teorica ma anche principalmente in linea pratica, perché se voi, nel corso delle vostre giornate, riusciste ad osservarvi con attenzione, cercando di essere obiettivi su ciò che fate, ciò che dite e ciò che pensate, potreste con una certa facilità rendervi conto di quelli che sono i vostri atteggiamenti e i vostri comportamenti ripetuti. Bene, la maggior parte di questa ripetizione di atteggiamenti e di comportamenti indica, il più delle volte, che si è in presenza di quella che noi definiamo «cristallizzazione». Moti

E questo, creature, non può che essere uno dei modi migliori per arrivare a conoscere se stessi e, quindi, in qualche maniera, arrivare ad allontanare quella sofferenza che tutti voi, dichiaratamente, apertamente, cercate di evitare nel corso delle vostre vite. Ma vediamo un attimo, in maniera più terra-terra, da persona normale a persona comune, come si può intendere, o percepire, o recepire, o trasmettere il concetto di cristallizzazione proiettandolo, ovviamente, su quello che è il campo di battaglia della filosofia e dell’etica, ovvero l’esperienza quotidiana di ognuno di voi nel corso della vita che sta vivendo.
Tanto per incominciare, bisogna tener presente che, quando si parla di cristallizzazione, non si parla di cristallizzazione di un individuo nella sua totalità; sono rarissimi i casi di individui che sono totalmente cristallizzati, ovvero che abbiano all’interno dei problemi talmente grandi e delle incomprensioni talmente grandi, dei fantasmi vibratori (se volete) talmente grandi da occupare completamente tutto il loro modo di essere, tutta la loro capacità evolutiva. In realtà, la cristallizzazione riguarda una porzione dell’individuo o, il più delle volte, nei casi più semplici, una sfumatura di comprensione di qualche cosa; ovvero l’individuo non ha compreso perfettamente una sfumatura di qualche cosa, non avendola compresa si trova a ricevere gli impulsi verso questa ulteriore comprensione di cui abbisogna da parte della coscienza, ed ecco che l’esperienza, la vita, gli presenta le occasioni per sperimentare questa sfumatura di comprensione. Molte volte, è l’Io stesso che si oppone a questa comprensione, in quanto cerca di fornire di sé un’immagine migliore di quella che pensa di avere. Ecco, così, che voi, invece di acquisire attraverso le esperienze che vi si presentano i dati che possono essere utili a capire queste sfumature, e quindi a sciogliere queste piccole cristallizzazioni, fate finta di non vedere quello che sta succedendo, fate finta di non comprendere quello che l’esistenza vi propone, fate finta di non accorgervi di come gli altri reagiscono ai vostri comportamenti, magari proiettando sugli altri la responsabilità di quello che accade, e via e via e via. In questa maniera, succede che al vostro corpo akasico, malgrado l’esperienza si ripeta e vi possa fornire i dati giusti, non vengono fatti arrivare i dati che l’esperienza può procurare.
Come dicevo si tratta, quindi, di cristallizzazione non dell’individuo nella sua totalità, ma di parti dell’individuo. Vi è chiaro questo concetto? Quindi cercate di ragionare in questa ottica: che mentre uno di voi, in qualche modo, cristallizza, non è che cristallizzi sotto tutti i suoi aspetti evolutivi, ma cristallizza in qualche particolare direzione, più o meno ampia, più o meno importante per la sua comprensione.
Può essere anche importante sfatare un pensiero che può venire a chi pensa di crearsi un’immagine dell’individuo che cristallizza; infatti, più di uno di voi pensa che l’individuo cristallizzato possa essere identificato con … che so io … la persona abulica, la persona che sembra non avere stimoli, la persona che sembra agire poco con la vita; no? Quanti di voi hanno questa impressione? E può essere anche un’impressione in alcuni casi valida, però state attenti che non sempre è così; e qua potrei riallacciarmi facilmente al discorso del «non giudicare» perché in realtà può anche accadere invece che la persona cristallizzata, proprio per il suo tentativo di non comprendere, di non vedere la verità che non vuol vedere, diventi iperattiva e sia invece una persona che, magari, fa centomila cose in una volta, abbia apparentemente un grandissimo entusiasmo, e via e via e via.
Però, se ciò che deve comprendere è il fatto che deve (che so io) … prestare più attenzione ed essere più disponibile nei confronti degli altri, ecco che allora, sotto questo punto di vista, pensando a questa sua necessità di comprensione, si può capire che il suo tentativo di cristallizzare risale al fatto che, diventando iperattivo, facendo tante e tante cose una dopo l’altra con grandissimo entusiasmo, si trova ad essere talmente preso da quello che fa da poter dire a se stesso – giustificando il suo comportamento – «Non ho fatto questo o quell’altro perché in realtà non avevo la possibilità di farlo». D’accordo?
Come vedete, quindi, osservando i vostri comportamenti potete arrivare a comprendere ciò che voi siete e ciò di cui avete bisogno; ed è ciò di cui avete bisogno quello che maggiormente vi dovrebbe interessare, senza fermarvi però alle prime risposte che avete, anzi, come regola, come regola d’oro direi, tenete sempre presente che le prime risposte, quelle più comode – come dicevano prima i nostri amici – sono quelle più facili e quasi sempre sono quelle meno sincere, e quasi sempre sono quelle che nascondono i motivi della vostra cristallizzazione. Scifo

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima, pag. 91-93, Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

 

Corpi transitori

d-30x30Corpi transitori. Dizionario del

Vengono così definiti i corpi che appartengono all’individuo incarnato e che cambiano ad ogni sua incarnazione.
Essi sono il corpo fisico, grazie al quale è possibile interagire direttamente con l’esperienza sul piano fisico, il corpo astrale, che fornisce all’individuo incarnato la possibilità di esprimere e possedere emozioni e desideri, e il corpo mentale, nel quale viene elaborato il pensiero dell’incarnato. Grazie all’interazione di questi tre corpi, strettamente interdipendenti, l’incarnato ha i mezzi per esprimere se stesso (sia per quanto riguarda le sue comprensioni che per ciò che riguarda, invece, le sue incomprensioni) nel corso della vita che conduce sul piano fisico.
Questi tre corpi sono essenziali per vivere la vita e la predominanza di uno sugli altri o lo squilibrio tra di essi determina molti dei comportamenti che siamo soliti osservare in noi stessi e nelle persone che ci circondano.
Il tutto, ovviamente, è governato e gestito dai bisogni di comprensione (e, di conseguenza, di esperienza) che appartengono al corpo akasico o corpo della coscienza.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima, pag. 90-91, Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

Conosci te stesso, secondo il Cerchio Ifior

d-30x30Conosci te stesso. Dizionario del

Alla base dell’insegnamento etico-morale del Cerchio Ifior sta il concetto del «conosci te stesso»: senza la conoscenza di se stessi non si può arrivare alla consapevolezza di quali che sono i nostri bisogni e i nostri errori e, se non si raggiunge questa consapevolezza non è possibile arrivare a quella comprensione che, sola, può non solo ampliare la nostra evoluzione ma, soprattutto, per chi è incarnato, stemperare il dolore e la sofferenza.
Purtroppo, quando si tratta di affrontare noi stessi, tendiamo a rimandare il farlo trovando mille pretesti e mille priorità «più urgenti» per evitare il più possibile di andare incontro alla nostra realtà. Questo, inevitabilmente, porta al dolore e alla sofferenza e quello che sul momento poteva essere più facilmente comprensibile, a distanza di tempo diventa sempre più difficilmente individuabile perché, nel frattempo, si sono aggiunti nuovi elementi e nuove situazioni.
Per questo motivo le Guide ci dicono che è meglio affrontare se stessi di volta in volta e che risulta più semplice e meno doloroso risolvere un elemento alla volta che trovarsi, successivamente, a dover sciogliere un’interiorità talmente intricata che finirà col costringere a prolungare il nostro ciclo reincarnativo.

Messaggio esemplificativo

Spesso, nei nostri discorsi, parliamo di consapevolezza, di auto conoscenza, di «qui e ora», ovvero di Eterno Presente, ma questi termini – così come li intendiamo noi – non sono facilmente comprensibili come potrebbe apparire ad un esame affrettato e superficiale.
Vediamo, allora, di trovare una serie di idee intorno a questi concetti, magari considerandoli nella stessa prospettiva, con la finalità di avere una visione d’assieme che, anche se parziale, possa fornire spunti di comprensione e di avanzamento lungo la via che porta alla liberazione interiore.
Ricordiamo, però, che il superamento di ciò che noi siamo soliti imputare all’Io – cioè tutti i fattori egoistici e la sensazione di essere una cosa separata e diversa sia dagli altri uomini che da Dio stesso – può avvenire solo grazie alla vostra opera e che noi possiamo soltanto avere, per ognuno di voi, la funzione che ha la mappa stradale per chi cerca la via che porta ad un dato posto.
Senza la comprensione di ciò che si è, senza la consapevolezza di ciò che di solito l’Io crea per nascondere il suo egoismo al fine di accrescere se stesso, l’uomo finisce col trovarsi a vivere in un mondo che non è reale poiché – essendo l’Io una cosa non reale, ma una creazione fittizia – anche i pensieri e le azioni che da esso scaturiscono non sono altro che irrealtà e finzioni, le quali mascherano e si sovrappongono a ciò che veramente si trova nell’intimo umano, nella sua parte più vera.
Ciò che più l’Io usa per continuare a creare una realtà interiore fittizia è la sensazione che l’uomo, all’interno del mondo fisico, ha di essere in divenire, cioè di avere un passato e un futuro facendo in modo, anzi, di renderli spesso così importanti che quello che è veramente importante, e cioè il presente, viene trascurato.
In realtà, al di là dell’illusoria percezione, all’interno del piano fisico, del tempo che scorre, l’uomo è immerso – attimo dopo attimo – sempre nel presente, ed è per questo motivo che noi vi diciamo che non è necessario – e che, anzi, può essere dannoso – attaccarsi al passato o proiettarsi nel futuro ma che, per conoscere se stessi e quindi migliorare, basta conoscersi nel presente, nel «qui e ora».
Affrontare il presente non è facile, perché vi sono meno possibilità di sfuggire alla propria realtà interiore ed è – anche a causa dell’opposizione dell’Io – in se stesso doloroso; ma deve essere esaminato ed accettato così com’è: non rassegnandosi ad esso con la speranza di un domani migliore, né cercando di negarlo e di giustificarlo in base ad azioni ed eventi passati, ma cercandone la causa interiore che lo fa essere così com’è.
Se, ad esempio, qualcuno stesse soffrendo un disagio economico, sarebbe inutile che egli maledicesse gli avvenimenti che gli hanno impedito di ottenere una maggiore agiatezza; così come sarebbe inutile che, con rassegnazione, chiudesse gli occhi per scordare il presente, con l’intenzione di aprirli solo allorché la situazione, un domani, fosse migliorata. Molto meglio sarebbe, invece, che egli guardasse bene nel presente non tanto il fatto del suo disagio economico, quanto la sofferenza che esso gli muove nel qui e ora. Se lo facesse attentamente, si accorgerebbe che la sua sofferenza è in gran parte ingiustificata poiché, in realtà, ciò che soffre è il suo Io, il quale si sente sminuito, si sente a disagio in rapporto agli altri esseri che lo circondano e che hanno più di lui.
Certo, il concetto di Eterno Presente è di difficile assimilazione perché contrasta con ciò che i vostri sensi sembrano percepire e – in realtà – esso va applicato da quella parte di voi stessi che non avete ancora raggiunto e che sta, inconsapevole per ora, al di là dell’Io e della sua manifestazione nel mondo fisico.
Il fine a cui tende il nostro parlare di «qui e ora», di Eterno Presente, è proprio quello di stimolarvi la consapevolezza, di aiutarvi a raggiungere quella parte inconsapevole di voi che sta al di là dell’Io, affinché riusciate a risvegliarla.
Essere consapevoli non vuol dire mettersi nei panni dell’Io ad auto analizzarsi, bensì porsi al di là dell’Io stesso e osservare le sue azioni e le sue reazioni come se egli fosse un’altra persona; vuol dire esaminarvi nel qui e ora cercando di essere consapevoli e di constatare quanto e quando è l’Io che vi spinge ad agire. Non dovete fare l’errore di considerare la consapevolezza un fine ultimo: essa non è altro che un mezzo per arrivare a conseguire il vero fine, che è quello di raggiungere la verità del vostro vero essere interiore. Spesso viene commesso l’errore di pensare che conoscere voi stessi significhi essenzialmente riesaminare le azioni che avete fatto e che vi hanno fatto soffrire o gioire, trovandone non la motivazione vera – che risiede nel vostro Io – ma le cause esterne che, invece, hanno avuto il solo compito di innescare in voi la reazione interiore del dolore o della gioia.
Non è così: conoscere voi stessi significa essere consapevoli che il dolore e la gioia non sono la causa o l’effetto di un’azione esterna, ma sono reazioni che ha l’Io a questa causa esterna; vuol dire, cioè, mettere a fuoco e riconoscere una parte di quest’Io prepotente. Infatti è solo a questo modo – rivelandone e riconoscendone le azioni, che potete impedirgli di soffocare la parte migliore e più vera di voi stessi.
Così, in realtà, non riveste grande importanza scoprire quanto un’azione sia stata buona o cattiva nei suoi effetti, ma ciò che importa è scoprirne la causa interiore, poiché scoprirla e riconoscerla significa trascendere i limiti che l’Io pone in continuazione all’allargamento della vostra coscienza.
Per fare un esempio pratico, sarebbe inutile che un pittore notasse solo che i colori, su alcune delle sue tele, hanno dei punti in cui vi sono delle macchie che egli non intendeva porre, e non si rendesse conto, invece, che ciò deriva dal fatto che non pulisce a dovere i pennelli che usa; in questo modo, infatti, ogni tela potrebbe essere bella o rovinata al di là della sua intenzione.
Per una buona riuscita in questo intento, l’attributo fondamentale è la sincerità con voi stessi, difficile da rendere costante ma assolutamente necessaria, per sfuggire alle trappole più o meno sottili che l’Io pone sul vostro cammino col fine di mettervi fuori strada, offrendovi scuse allettanti e maschere che è facile indossare ma che, poi, è molto difficile riuscire a togliere. Fortunatamente non siete abbandonati a voi stessi, ma l’esistenza vi offre un prezioso alleato che non vi tradisce, né vi abbandona mai: l’esperienza di tutti i giorni, la quale – in continuazione – vi offre molte possibilità di conoscervi mettendovi – spesso anche a viva forza – davanti alle vostre verità interiori, grazie alle situazioni con le quali cerca di far reagire il vostro Io. È proprio dall’esame di queste reazioni alle varie situazioni che il vostro Io si trova a dover affrontare, che potete risvegliare in voi stessi la consapevolezza e che potete riuscire a non mentire a voi stessi.
Accade anche spesso che voi cerchiate di esaminarvi e giungiate a delle conclusioni che, ad un’occasione successiva, si rivelano sbagliate. Ebbene, non demoralizzatevi per questo e siate certi che, prima o poi e poco per volta, riuscirete a superare anche gli ostacoli più duri.
Potreste chiedervi come essere sicuri che le conclusioni raggiunte siano esatte e non illusorie: un’ulteriore trappola che l’Io ha subdolamente messo per voi e in voi, e nella quale – ignari – siete caduti. Vi è un solo modo per esserne sicuri: l’esperienza. Infatti, allorché, sotto la stessa esperienza non reagirete più allo stesso modo errato, sarete sicuri che avete acquisito la consapevolezza di ciò che sentivate nei confronti di quegli stimoli e che, in modo automatico, quegli stimoli avranno perso la loro funzione di stimolo per divenire neutri rispetto al vostro intimo, che non reagirà più ad essi in modo sbagliato.
Tutto questo significa capire che in ogni attimo, in ogni «qui e ora», siete diversi da ciò che eravate nell’attimo precedente; tuttavia è necessario cercare di non crearsi l’illusione di essere o di non essere in un dato modo; quante volte avete pensato o creduto con convinzione, per esempio, di non essere possessivi, e quante volte l’esistenza è stata costretta a mettervi di fronte alla vostra possessività non superata, ma nascosta sotto una creazione illusoria e fittizia?
Abbandonarsi all’illusione, figli, vuol dire abbandonarsi ai limiti che l’Io vi impone, vuol dire creare con la vostra stessa inconsapevolezza motivi di sofferenza per voi e per gli altri.
Il primo passo, dunque, è scoprire che l’Io – per non sfigurare – pone dei limiti a seconda delle sue necessità; il secondo passo è quello di riconoscere e svelare questi limiti; il terzo passo non esiste ma consegue automaticamente allorché sono stati fatti i primi due, poiché riconoscere e svelare i limiti posti dall’Io vuol dire averli superati.
Non basta affermare, ad esempio, di sapere di essere possessivi se non sapete quando siete mossi dalla possessività e quanto è essa che vi muove; e la vostra affermazione, in queste condizioni, non resta altro che un’affermazione generica che non vale molto per farvi superare la vostra possessività e correte, anzi, il rischio che divenga una scusa per non indagare oltre, per continuare a non essere del tutto sinceri con voi stessi.
Dicevamo poco fa che ciò che più conta è essere consapevoli di ciò che si è nel presente, nel qui e ora.
“Ma allora – potreste dire – è inutile cercare le motivazioni, in quanto esse appartengono sempre al passato!»
No, non è così: certo il presente – pur essendo massimamente importante – può essere capito solo attraverso l’analisi del passato, ma ciò deve essere fatto non al fine di perdonare il passato, bensì al fine di superare nel presente le limitazioni del passato che – tenetelo bene a mente – non essendo state risolte a loro tempo esistono ancora nel presente e ne fanno parte. È un po’ come leggere l’ultima pagina di un libro: se non vi è la consapevolezza di ciò che l’ha causata, la pagina che rappresenta il presente non può essere letta con piena comprensione, in quanto la consapevolezza può limitarsi, al massimo, a constatare ciò che quella pagina dice, ma si ferma ad un’esperienza limitata che non è comprensiva della maggiore estensione della consapevolezza che dà il conoscere l’intreccio che ha portato a ciò che su quella pagina è scritto. Così, per quanto possa essere ben scritta, istruttiva o toccante, la pagina non può esserlo tanto quanto lo sarebbe se venisse letta sì nel presente, ma con la consapevolezza di ciò che l’ha portata ad essere situata in quel presente.
È dannoso anche rimuginare – come fanno molti – sulle azioni passate, poiché in questo modo il «qui e ora» viene trascurato, con il solo risultato che, se anche venisse superata un’azione passata trovandone la consapevolezza, nel frattempo sarebbe andata perduta la consapevolezza di molte azioni presenti cosicché – mentre veniva superata l’azione remota – contemporaneamente ne venivano accatastate parecchie altre, peggiorando e non migliorando di certo la situazione.
Esaminate invece ciò che fate e ciò che siete mentre lo state vivendo o subito dopo: ciò basta per trovare lo svincolamento dalle finzioni create dal vostro Io, poiché in continuazione e in ogni «qui e ora», vivete esperienze che vi offrono la possibilità di scoprire voi stessi sotto ogni punto di vista.
Superando un vostro limite nel presente, attraverso il presente, superate anche tutte le volte che lo stesso limite, nel passato, aveva costituito per voi un ostacolo.
Non è poi così difficile come può sembrare, figli cari, smascherare ed arrivare a conoscere il vostro Io; l’importante è riuscire a non farsi convincere da lui stesso a non farlo, è riuscire a non farsi convincere da lui stesso a mentirvi ancora. Certo egli, appena può, vi sfugge, oppure trova mille artifici per celarsi; così usa il vostro corpo e la vostra mente per creare distorsioni e diversivi, ma voi cercate di trovare in voi la consapevolezza che non siete il vostro Io e che ciò che egli usa contro di voi per tenervi soggiogati nell’illusione, può essere usato anche da voi per capire lui e, quindi, sconfiggerlo. Moti

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima, pag. 84-90, Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

Confusione interiore

d-30x30Confusione interiore. Dizionario del

Come sempre le Guide cercano di trasmettere, con le loro parole, elementi di positività. Infatti anche nel parlare dello stato di confusione interiore dell’individuo (che per l’incarnato è quasi sempre sinonimo di ansia, paure e forte travaglio interiore) hanno sempre sottolineato l’utilità di questo stato interiore, in quanto denota l’inizio di un cambiamento nello stato di coscienza dell’individuo o, quanto meno, l’insorgere di uno stimolo (appunto la confusione interiore) che spinge l’essere umano a cambiare invece di cristallizzare sulle posizioni che pensa di aver raggiunto. Infatti, affermano, nel suo cammino l’individuo deve sempre tendere ad una maggiore comprensione e questo comporta fare esperienze e non «accontentarsi» oltre il lecito di quanto si è riusciti a raggiungere.

Messaggio esemplificativo

Non si può riuscire a raggiungere nessuna certezza se prima non si riesce ad abbattere tutti i preconcetti che l’individuo ha dentro di sé; se prima, cioè, egli non riesce a piombare nella confusione più completa, se prima non riesce a mettere in discussione dentro di sé anche i valori che riteneva più acquisiti, più sicuri, e sui quali fondava la sicurezza, l’equilibrio e la stabilità della sua stessa esistenza.
Ogni ricercatore deve essere pronto a fare questo, deve essere conscio che vi saranno dei momenti in cui tutto ciò che prima gli appariva sicuro e acquisito diventerà in un attimo incerto, e franerà sotto il peso delle nuove esperienze.
Certo, vi sarà spesso, allora, la tentazione di afferrarsi al vecchio – perché il nuovo non dà sicurezza, perché c’è sempre la paura di non sapere affrontare le nuove esperienze, di non saperle capire, di non saperle rendere fruttuose – ma, passati quei momenti di panico e compreso che ciò si rende necessario se si vuole andare avanti, constatato il beneficio e il miglioramento che segue alla confusione, sarà poi facile affrontare gli altri momenti di difficoltà di cui è lastricata la via della ricerca spirituale.
Potete stringervi a ciò che vi sembra di avere acquisito, alla sicurezza che dà la costanza e la ripetitività delle vostre giornate, alle vostre vite tranquille, ai vostri affetti e nessuno può biasimarvi per questo: ciò significa semplicemente che non siete ancora pronti, maturi, per affrontare esperienze di quel tipo; significa che il vostro Io è ancora così forte da attaccarsi a ciò che gli dà senso di sicurezza, di potenza. Ma non pensate che ciò sia un fermarsi: anche se non ve ne rendete conto avanzerete lo stesso – magari illusoria- mente in modo più lento di altri che si gettano a capofitto in esperienze quasi traumatiche – tuttavia, prima o poi, in questa o in altre vite, anche voi arriverete al punto in cui vi tufferete non nel fiume tranquillo della vostra vita, ma nelle onde impetuose della vostra interiorità.
Potete accontentarvi di cose meravigliose alla ricerca di una compensazione a quella che vi sembra essere la mediocrità del vostro vivere, ma anche per questo nessuno può biasimarvi perché, anche attraverso a ciò, farete esperienze che, prima o poi, vi porteranno a ricercare quella confusione interiore che è sempre sorgente di mutamento e di evoluzione.
Ogni cosa e ogni uomo è un Maestro, che voi lo vogliate o meno, che ve ne rendiate conto o che non vogliate accorgervene. Di una cosa sola vi preghiamo: accettate ogni insegnamento, da qualunque parte provenga e non accada mai che pensiate: «Il mio Maestro è il Maestro migliore», poiché non vi è migliore o peggiore Maestro ma vi sono, invece, migliori o peggiori discepoli. Quale che sia il metodo di un Maestro per il suo insegnamento la meta è sempre la stessa, cosicché il metodo finisce col non avere alcuna importanza: forse che ha importanza piantare un chiodo con un martello o con un sasso? La tecnica è diversa ma il risultato è lo stesso.
Quindi non attaccatevi alla tecnica, ma tenete solo presente il risultato a cui volete tendere; non esiste una via che porta a Dio ma esiste Dio dentro ad ognuno di voi, cosicché il seguire una via per unirsi a Lui non è altro che un’illusione dell’uomo che non ha aperto abbastanza gli occhi per scorgere Dio, e brancola all’intorno, credendo di fare molta strada per avvicinarsi a Lui, mentre – se si fermasse e aprisse gli occhi – si accorgerebbe che Egli è lì, accanto a lui, e che lo tiene per mano. Moti

Non può conoscere la gioia chi non ha conosciuto il dolore,
non può apprezzare la felicità chi non è mai stato infelice,
non può sapere cos’è l‘amicizia chi non ha avuto nemici,
non può riconoscere l’amore, chi non ha provato odio,
non può trovare certezze chi non è stato confuso,
non può avere fede in Dio chi non è stato il diavolo.
Come la fiamma della candela dà dolore a chi vi posa le labbra
così la sua luce dà gioia a chi ha paura del buio. Labrys

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima, pag. 82-84, Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

 

Condizionamento e libertà

d-30x30Condizionamento. Dizionario del

Direi che la definizione più semplice, più immediata e più generale che si possa dare al termine «condizionamento», è questa: «fattore che con la sua influenza provoca un determinato comportamento».

Messaggio esemplificativo

Il concetto di condizionamento va di pari passo con quello di libertà. Comprendere, quindi, qual è il condizionamento, qual è la sua influenza, la sua importanza, la sua nascita e – al limite – la sua fine porta, inevitabilmente, a comprendere qual è, in realtà, la libertà dell’individuo. Ecco perché le Guide hanno iniziato questo tipo di argomento quale premessa per poter comprendere un concetto così importante – e scottante – per ogni individuo che si accosta a noi, qual è quello della libertà individuale e del libero arbitrio.
È tipico dell’individuo che pensa agli argomenti ed ai perché dell’esistenza, tendere a pensare in modo escatologico: o meglio, tendere a vedere soltanto le cose che più colpiscono, in grande, senza rendersi conto che vi possono essere altri fattori più piccoli, più sottili, ma per questo non meno egualmente importanti. Io sono sicuro che se ad ognuno di voi chiedessi un esempio di condizionamento mi verrebbe risposto – con grande probabilità – che l’essere umano è condizionato dalla società… oppure da ciò che i mezzi di comunicazione fanno pervenire alla massa… oppure che è condizionato dalle condizioni lavorative… oppure che è condizionato da quella che è la sua situazione sociale, la sua vita all’interno del suo ambiente familiare… E se pure, questo, in parte può anche essere vero, io dico, fratelli, che il condizionamento è tante altre cose. Pensate, per fare dei piccoli esempi, a quanto è condizionata la vostra vita anche soltanto dal semplice fatto che voi respirate! Avete mai pensato a questo, fratelli?
Il fatto stesso di respirare finisce per essere, per ognuno di voi, una forma di condizionamento. Allo stesso modo vi sono migliaia di altre piccole forme di condizionamento, che vi accompagnano nel corso della vostra vita. Il fatto, ad esempio, di avere le scarpe sporche, può condizionarvi a certi comportamenti. Il fatto di non essere capaci a parlare in pubblico, può indurvi alla timidezza; ed anche la timidezza – molto spesso – è una forma di condizionamento. Potrei certamente trovare altre migliaia di esempi, ma questo non è il mio compito. Ognuno di voi pensi per conto proprio a quante cose condizionano la propria vita, e si renderà conto che in ogni momento della sua esistenza esiste qualcosa che lo indirizza a certi comportamenti, a certi modi di essere, a certi modi di agire e, persino, di pensare… e di amare. Rodolfo

Quando si usa il termine «condizionamento», solitamente gli si dà una connotazione negativa. Vero, questo? Invece, se ci pensate bene, secondo la famosa ambivalenza – ed è una cosa a me cara – non è detto che il condizionamento sia sempre negativo. Ad esempio, una legge umana che – attraverso l’imposizione di determinate pene – impedisce all’uomo di uccidere un altro uomo, è un condizionamento: perché l’uomo, se non fosse sottoposto al condizionamento (magari con la paura del carcere a vita) non avrebbe il freno per non commettere un omicidio.
Siete convinti che è un condizionamento, questo? Ecco quindi che in questo caso il condizionamento non è negativo, ma è un condizionamento utile perché riesce ad ottenere questo scopo. Allo stesso modo, naturalmente, vi sono tanti altri esempi. Il buon Rodolfo, prima, parlava del condizionamento che vi dà – momento per momento – il fatto stesso di respirare. È evidente che voi respiriate meccanicamente (e quasi sempre senza rendervi conto del fatto che state respirando); ma, se poneste attenzione al vostro respiro vi rendereste conto – anche – che «dovete» respirare: non potete fare a meno di respirare. Potete anche provare a stare senza respirare il più possibile, ma prima o poi il respiro dovete emetterlo ed immetterlo. Questo è chiaramente un condizionamento di tipo prettamente fisiologico, ma non dimenticate che avete un corpo fisico con delle sue meccaniche che, per il fatto stesso che sono insite all’interno del vostro corpo fisico, volenti o nolenti vi condizionano. Pensate, d’altra parte, alla sessualità e a quanto essa vi condizioni nell’arco di tutta la vostra vita. C’è forse, però, qualcosa che va esaminato di pari passo al condizionamento: è possibile che il condizionamento agisca su tutti allo stesso modo, oppure no?
E se non agisce su tutti allo stesso modo allora: perché non agisce su tutti allo stesso modo? Come mai il condizionamento che su una persona serve da freno su un’altra scivola come se neanche esistesse?
Questa direi, creature, è una domanda legittima, sulla quale forse val la pena discutere un attimo. Scifo

“… Il fatto è… il fatto è che tu sei lì… tu sei lì e guidi, ora dopo ora… che ci sia il sole o che sia notte… e vedi le macchine… indifferenti… che passano accanto. Guardi dall’alto, come se tu fossi… su un elefante… e tante formiche ti scivolassero accanto… e quello che fai non è meccanico, è un’abitudine…perché dopo tante ore di guida… ormai il tuo cervello è condizionato… a girare il volante, a cambiare le marce… a guardare negli specchietti per sorpassare o essere sorpassato… Il corpo va avanti quasi senza… bisogno di essere controllato… e intanto il tuo cervello pensa… Pensa! Ha tempo per pensare!… e ti vengono in mente tutte le cose più strane… e le ore non finiscono mai… e anche quando ti fermi un attimo per bere o per mangiare… prendere un caffè… appena torni sull’elefante, ecco… il tuo cervello vola! Vola a casa… vola ai problemi… vola alla tua incapacità di crearti un affetto stabile… vola al fatto che sei su quell’elefante, perché non avevi altre occasioni per fare di meglio… Ti senti crescere dentro l’insoddisfazione… ti senti… che quella vita è sempre uguale, monotona… e incominci a sentire qualcosa… che urla dentro di te… dice: basta! Devo fare qualcosa! Devo cambiare! Vorrei cambiare!… E vai con gli amici… Gli amici ti raccontano cose che tu non puoi fare… perché il tuo lavoro non te lo permette… o perché altri impegni ti fanno fare altre cose… che tu magari non vorresti neanche fare, perché… ti senti ancora giovane, ma vecchio internamente… E allora viene un momento in cui qualcuno ti avvicina… e ti prospetta una via d’uscita… e ti dice: con questo, vedrai… la tua vita cambierà colore, sarà diversa… Potrai fuggire al condizionamento della realtà… basta un po’ di questo, e la tua vita… si trasformerà!… E da un condizionamento… cadi in un altro… un condizionamento più pesante, in cui… se prima avevi la possibilità di essere… padrone o servitore… adesso diventi soltanto servitore!… E per quanto tu dica: questa è l’ultima volta che lo faccio!… per quanto tu dica, in giro, che da domani è finita con quella storia… che non ti lascerai più condizionare da niente e da nessuno, che vuoi vivere la tua vita… in modo normale… malgrado questo poi viene la volta che tu, amico mio, vieni da me… e mi dici:… ho due dosi… Ma sì! Ancora una volta, vai! Ancora una volta! Poi, da domani, la vita riprenderà… pesante… come prima… Allora festeggiamo insieme, amico mio: in fondo… in due può essere anche meglio!… E tu, condizionato dal bisogno d’affetto… condizionato dalla tua incapacità di stabilire un rapporto duraturo… condizionato dai tuoi bisogni… dal piacere di stare con un altro, di fare qualcosa con un altro… alla fine… alla fine… alla fine… ti senti male… e ti alzi… e vuoi chiamare… e scendi dalla macchina… e poi… ti manca il respiro… e cadi… cadi… e mentre cadi ti chiedi ancora… perché… che senso ha… tutto questo?… che senso ha?…» Calogero

Abbiamo lasciato che questo figlio intervenisse, uscendo per un attimo dalla sua condizione di ripensamento di quella che è stata la sua esperienza, da poco conclusa, sul vostro piano di esistenza, per permettergli di scaricare una parte della tensione che andava accumulando, ma anche per rendere utile, con l’esempio, il discorso del condizionamento. Certamente, dalle sue drammatiche parole, dalla sua drammatica esperienza, avrete avuto modo di comprendere quanto sia la mente stessa che possa essere la fonte principale del condizionamento dell’individuo.
Viene allora da chiedersi: come mai tutte le persone non sono indotte, dalla propria mente, dai propri bisogni, ad arrivare a soluzioni estreme, come quella vissuta dal giovane Calogero?
La questione è che ogni individuo in realtà ha un’evoluzione diversa da un’altro, e il condizionamento che dimostra è sempre diverso, a seconda della quantità di evoluzione (e quindi del tipo di sentire) che l’individuo possiede. Il condizionamento è reso possibile nella persona che è in condizione di essere condizionata; ma la persona che raggiunge un certo sentire interiore e, quindi, una certa ampiezza di consapevolezza, vedrà in qualche modo limitata la possibilità di essere condizionata o, quanto meno, le cose che comunemente condizionano la maggioranza degli altri suoi fratelli, su di lei non avranno alcun effetto o, tutt’al più, avranno un effetto marginale.
Questo significa che l’individuo evoluto sarà al di fuori da ogni condizionamento; questo significa – semplicemente – che man mano che l’individuo evolve, il suo condizionamento, le sue «fonti» di condizionamento, saranno diverse. Resteranno quelli che sono gli impulsi biologici, fisiologici, come ad esempio il fatto di respirare, quelli, cioè, essenziali per portare avanti l’esistenza del proprio corpo fisico; tuttavia gli altri condizionamenti, senza dubbio, sulla persona evoluta avranno un effetto molto minore di quello che avranno sulle persone meno evolute.
Si è parlato, ad esempio, di sessualità: la sessualità certamente influenza, in qualche modo, ognuno di voi. Bene: anche la sessualità ha un modo di condizionare, una possibilità, una capacità di condizionare diversa, a seconda che venga vissuta dall’individuo più evoluto o meno evoluto. L’individuo meno evoluto si lascerà possedere dalla propria sessualità: lascerà che essa governi le sue azioni, governi le sue simpatie, dia un indirizzo alle sue stesse giornate.
L’individuo che ha raggiunto, invece, un certo sentire, che ha raggiunto una certa evoluzione e, quindi, ha compreso meglio cosa sia la sessualità (e abbia superato quei problemi che essa comporta), non è detto che non avrà più alcuna forma di sessualità, ma questa volta non sarà più la sessualità a governare lui, ma sarà lui a governare la propria sessualità.
Tuttavia, come dicevo prima, anche per l’individuo evoluto esiste il condizionamento. Ecco perché il fratello Scifo ha parlato del Cristo come una delle persone più condizionate che mai siano esistite.
Voi sapete che noi consideriamo il Cristo un Dio, ma non nel senso comunemente inteso dalla vostra religione. Noi diciamo sempre che il Cristo è tanto un Dio quanto lo è, in potenza, ognuno di voi: l’unica differenza è che egli, allora, in quella personalità che voi conoscete perché tramandata dalla storia, dalla religione, dalle tradizioni, era arrivato ad un punto evolutivo a cui voi, ora, non siete ancora giunti, ma al quale – ripetiamo spesso – anche voi un giorno arriverete. Ora, l’individuo che arriva ad una evoluzione così alta, quindi ad un sentire così ampio, è l’individuo che è diventato consapevole dell’esistenza di una Realtà Assoluta, dell’esistenza di una divinità, dell’esistenza di un disegno che governa tutta la Realtà, dell’esistenza di un bene maggiore, che si muove anche quando sembra che nessun bene venga dall’azione. È un individuo, quindi, che riesce ad accettare di essere totalmente condizionato da quella che è la volontà dell’Assoluto.
Ecco quindi che, in questi termini, la famosa frase: «Sia fatta la Tua volontà e non la mia!», oltre ad essere una bellissima frase – perché testimonia comunque tutto l’abbandono che l’individuo deve avere allorché trova fiducia nella divinità, sia propria che altrui – oltre ad avere questo bellissimo significato, ha anche il significato dell’individuo che è consapevole di essere indirizzato (e quindi condizionato) nella sua esperienza e nella sua vita nel mondo fisico, da qualcos’altro che è al di sopra di lui, al quale non si ribella, del quale accetta la capacità di condizionarlo, perché la ritiene positiva e non negativa, al di là di quello che può essere l’effetto che si ripercuoterà, poi, su lui stesso. Moti
Se davvero aveste un’evoluzione tale da essere partecipi in queste cose degli altri, a quel punto capireste che quelle persone stanno attraversando quel tipo di condizionamento perché ne hanno bisogno. Quindi non sareste tristi: partecipereste, ma senza tristezza. Ricordate che il vero evoluto, quando vede una persona che soffre, non piange: non piange «per lui»…
L’individuo evoluto non piange «per» chi soffre, piange «con» chi soffre: è ben diversa, la cosa! Zifed

Ma sì, certo, capisco bene, è facile criticare… In fondo poi, l’esperienza, di essere madre… mica la vivono tutti. Io non credo, a ben guardare, che si possa fare la madre senza commettere errori… Ma che cosa è che impedisce ad un certo punto a questo amore che accompagna una gravidanza (ché, se analizziamo un attimo, ci rendiamo conto che, in genere, la gravidanza è tormentata ed implica un forte sentimento di amore altrimenti molte donne ne farebbero a meno!), di fluire allo stesso modo?
Cos’è che impedisce a questo amore (che accompagna quei lunghi-brevi nove mesi di gravidanza) di manifestarsi allo stesso modo, o addirittura lo porta a trasformarsi in qualche cosa di diverso che diventa possessività, passione, amore morboso e cose del genere che, senza bisogno di doverlo ripetere, sono cose dannose e deleterie? Io credo che, alla luce degli insegnamenti delle Guide, alla luce di tutto quanto è stato detto dagli psicologi, dai pedagogisti, dagli psichiatri, dai vari medici che si sono occupati dell’infanzia, io credo che fondamentalmente la «colpa» (se così la vogliamo chiamare perché in realtà di colpa vera e propria non si tratta), stia proprio nella figura materna.
Consideriamo un fatto: questa madre è stata abituata, fin dagli albori della vita umana, a dover essere in prima persona la responsabile di quelli che sono i problemi dei propri figli, ma facciamo un po’ il punto della situazione e mettiamo le cose in chiaro: qua si tratta di stabilire se in questa società (relativamente all’ambito in cui noi vogliamo indagare e quindi relativamente all’ambito italiano), la responsabilità del fatto di avere un figlio, quindi dell’educazione dello stesso, dipende esclusivamente dalla madre.
Non è così, e penso che siate d’accordo con me. Esistono infatti, per quanto riguarda lo Stato italiano, una legge che sancisce il matrimonio e una Santa chiesa che santifica il «matrimonio», matrimonio che vorrebbe significare l’unione di due individui i quali, uniti in questo matrimonio, dovrebbero condividere gioie e dolori di questa esperienza a cui vanno incontro. E questa non è una «invenzione» o una trovata degli ultimi anni, ma è un qualche cosa che si porta avanti da secoli.
Ma che cosa è successo? È successo che, osservando come sono andate le cose, così con una certa obiettività, cercando di non fare figli e figliastri, si è visto che, ad un certo punto, la maggior parte delle responsabilità dell’educazione dei figli, è caduta sulla madre. Allora dunque accadeva questo: la madre, una donna, quindi socialmente la più bistrattata, si ritrovava ad avere questa grossa, e veramente grossa, responsabilità dell’educazione dei figli. Questa povera donna cosa doveva fare? Doveva cercare di assumere una mentalità anche maschile, per poter dare un’educazione appropriata alle proprie creature.
Se queste creature poi erano, a loro volta, di sesso femminile, allora il problema diventava apparentemente relativo in quanto si trattava di insegnare a fare «i merletti», mentre se si trattava di creature di sesso maschile i problemi cominciavano a diventare un po’ più grandi. Ma a questo punto, trattandosi di creature di sesso maschile, poteva anche accadere che il padre si sentisse sollecitato ad intervenire, in quanto il padre desiderava «forgiare» questa sua creatura maschile, venuta dal suo seme, a sua «immagine e somiglianza», quindi con un certo carattere, quindi con una certa struttura mentale e – perché no – anche fisica.
Però il massimo del lavoro, il lavoro più pesante – e forse più penoso – veniva lasciato alla madre, la quale si trovava, dopo aver subito come figlia una determinata educazione che la portava ad essere strutturata in un certo modo, a dover affrontare una situazione contingente ben diversa da quella in cui era cresciuta, in quanto vent’anni di differenza dal momento in cui era bimba e quindi veniva educata, al momento in cui diventava madre, per quanto possano sembrare pochi, nella vostra società (e soprattutto nel vostro tempo fisico) in realtà sono tanti: sono tanti perché le cose cambiano, la mentalità cambia, gli stimoli sono diversi, i bisogni stessi diventano diversi.
Quindi una madre non poteva certamente – se non con grosse difficoltà – dire ad un figlio: «Frequenta una passeggiatrice per… magari superare quelli che eventualmente possono essere i tuoi problemi sessuali» (ammesso che ciò sia possibile), cosicché accadeva che doveva essere il padre, una volta che il figlio avesse raggiunto la giusta età, a portarlo a frequentare quelle passeggiatrici, all’insaputa della madre (perché l’onore e la dignità della famiglia non potevano essere offesi) affinché il figlio superasse i suoi, eventuali, problemi sessuali.
Ma se tutte queste barriere fossero cadute, e se la madre fosse riuscita fin dalla primissima infanzia ad essere col proprio figlio quella che sentiva veramente di essere (perché ricordate che la funzione biologica d’essere madre, quella intimità che lega la madre al figlio fin dalla gravidanza, se non fosse limitato dalle inibizioni sociali, verrebbe portato avanti con naturalezza e semplicità, con la stessa spontaneità con cui la gravidanza prosegue per i suoi nove mesi), io vi assicuro, miei cari, che tanti di quei problemi sessuali che affliggono la vostra società non esisterebbero.
Ma già, succede così: in sala parto o al momento del parto, relativamente ai periodi in cui le sale parto non esistevano ancora, la madre espelleva il proprio figlio dal ventre in nudità, necessariamente direi, e poi cosa accadeva… accadeva che il feto diventava infante, l’infante si nutriva dal seno materno, aveva la sua fisicità con il seno materno, poi l’infante diventava bambino e poi fanciullo, e via via che esso cresceva inibizioni sessuali diventavano sempre più forti in modo da far sì che mai più un seno potesse essere visto dal proprio figlio, ed è questo l’errore.
Per carità non vorrei essere frainteso: non intendo con questo dire di arrivare ad una eccessiva promiscuità, ma non è necessario vergognarsi della propria nudità, anche perché quella promiscuità c’è stata, anche se inconsapevole, e forse un buon numero di problemi sessuali nascono proprio da quella barriera che si è venuta a creare in quel rapporto di semplicità, di naturalezza, di libertà che aveva caratterizzato la gravidanza ed i primi mesi di vita della madre e del figlio.
Forse il discorso può essere diverso per il padre, ma relativamente, in quanto se si accettasse veramente la realtà del fenomeno che poi è un fenomeno meraviglioso, se si riuscisse a parlarne con la stessa semplicità con cui si dice «oggi c’è il sole, oggi piove», come sarebbe diversa la vita di tutti voi, come sarebbe più semplice, come non esisterebbero più quegli individui che soffrono, con piacere magari, nel parlare, nel dire o nel vedere determinate cose ancora tacciate per tabù!
In fondo coi propri figli si vive, si convive, si cresce insieme; l’esperienza del figlio è anche esperienza del genitore e viceversa se si riesce a trasmetterla; ma quanti figli, veramente, dopo una certa età, riescono a trasmettere intensamente ai propri genitori le esperienze vissute? Ecco perché nelle strade muoiono oggi tanti figli, cosa di cui vi rammaricate e per la quale magari vi fate venire anche le lacrime agli occhi, ecco perché oggi voi ai bordi delle strade vedete tante siringhe! Francesco

Ritrovarsi assieme, ritrovarsi uniti, ritrovarsi, ancora una volta, ai confini sottili tra mondo materiale e mondo spirituale… ritrovarsi ancora una volta sospesi tra cielo e terra, rinnovando un rapporto che dura da sempre, un rapporto che è vivo, che unisce e costruisce, che accompagna il cammino dell’evoluzione, il percorso evolutivo di ogni scaglione di anime che si incarna nel mondo fisico.
Anche questo fa parte delle tappe evolutive delle varie razze; anche queste esperienze costituiscono un gradino utile per imparare a conoscere e a comprendere la realtà, che può essere necessario, può essere attraversato da chi ha bisogno di osservare la Realtà in una certa prospettiva.
Questo non significa che ogni persona incarnata, ogni individualità che vive la sua avventura nel mondo fisico, debba necessariamente, prima o poi, venire a contatto anche con questo tipo di esperienza; significa soltanto che una parte dell’umanità si avvia alla comprensione e alla conoscenza seguendo quel determinato tipo di via che contempla l’approfondimento e il contatto con entità che intervengono con altri piani di esistenza, non lontani bensì uniti, compenetrati con quella che è la realtà e che, quindi, costituiscono un’altra sfaccettatura della Realtà.
Spesso coloro che si avvicinano a noi, a questi incontri, con una certa superficialità o senza ben ragionare, senza una convinzione vera o un sentire profondo, senza un interesse partecipe di quanto viene detto, tendono ad aver timore, ed il più delle volte questo timore si manifesta con la paura, di venire condizionati da quanto queste presunte entità, queste presunte Guide vengono a dire nel corso degli incontri.
Bene, io mi auguro – e così tutti gli altri fratelli – che voi non abbiate questo tipo di pensiero: certamente è fuori di ogni dubbio che noi vi condizioniamo e che l’esperienza che voi vivete accanto a noi lascia in voi dei segni. Le esperienze sempre costituiscono un condizionamento per ogni individuo, in quanto forniscono quei dati, quei supporti razionali, mentali e affettivi su cui poi modellare il proprio sentire e il proprio comportamento.
Ma ricordate che se anche noi possiamo condizionarvi con le nostre parole c’è sempre la possibilità da parte vostra di rendere questo «condizionamento» utile o negativo. Infatti è solo attraverso l’azione che l’individuo conferisce la caratteristica – in una direzione o nell’altra – del condizionamento che, in se stesso, in realtà, non ha nessuna caratteristica: il condizionamento non è altro che un substrato su cui l’individuo poi porta il suo agire ma non è mai quello che, da solo, può indurre l’individuo ad agire: è necessario che l’individuo recepisca e interpreti il condizionamento e decida da sé se conformarsi o meno a quanto gli viene proposto.
In fondo, questo, non è altro che la trasposizione di quanto noi, spesso e volentieri, vi ripetiamo, ovvero di ascoltare quello che vi diciamo ma di non prenderlo mai acriticamente, bensì di vagliarlo cercando di recepire la parte che a voi più si confà, estraendo dalle nostre parole tutto ciò che voi «sentite» inutile per voi. Moti

Condizionamento…
Quanto spesso si sente questa parola, ma quanto meno spesso gli individui che la pronunciano si sono chiesti chi è che condiziona e chi è che si lascia condizionare! Vito

Per poter rispondere a questa domanda è necessario, fratelli, ricordare tutta la parte di insegnamento che riguarda la costituzione dell’individuo.
Infatti – anche se comunemente si tende a pensare e ad affermare che sono gli elementi esterni quelli che condizionano il comportamento dell’essere umano – si può cercare in realtà colui che condiziona all’interno dell’individuo stesso.
Chiaramente non l’individuo come sua semplice espressione all’interno del piano fisico, ovvero non come persona incarnata stessa, bensì come individualità completata da tutte le sue manifestazioni nei vari piani di esistenza.
Questo cosa sta a significare? Sta a significare che i fattori che rispondono agli influssi esterni e che, quindi, inducono al condizionamento dell’individuo, risiedono proprio nell’individuo stesso ed è dall’individuo stesso che si dipartono, facendo sì che sia lo stesso individuo, in realtà, a condizionarsi e non che sia l’esterno a condizionare, da sé solo, l’individuo. Questo punto che, forse, dicendolo e ascoltandolo, può apparire molto semplice a prima vista, in realtà è essenziale che venga assimilato per poter comprendere poi tutto il discorso filosofico sulla libertà e sul libero arbitrio. Rodolfo

Prendiamo, dunque, l’individuo, la persona che voi vedete accanto a voi, di cui recepite la forma fisica e di cui sapete che esistono altri corpi di esistenza.
Ricapitoliamo velocemente tutto il discorso: l’individuo è costituito da un corpo fisico, uno astrale, uno mentale, uno akasico o della coscienza e da quelli che noi chiamiamo in blocco «corpi spirituali».
Il corpo fisico è quello che vedete sul piano fisico.
Il corpo astrale è quello che governa le emozioni e i desideri. Il corpo mentale è quello che dà la possibilità di pensare, di ragionare all’individuo.
Il corpo akasico è quello che dà la spinta all’azione dell’individuo attraverso quella che, comunemente, viene definita in senso più ampio «coscienza», e i corpi spirituali sono quelli che costituiscono, in fondo, la vera essenza dell’individuo.
Ora, è chiaro che se questi corpi esistono, oltre ad avere una funzione «meccanica» per aiutare l’individuo ad esprimersi nel piano fisico, debbono per forza avere anche degli altri perché: il corpo astrale non può esistere soltanto per permettere al corpo fisico di sentire il caldo, il freddo, il piacere, il dolore e via e via e via, ma questo corpo astrale deve avere anche delle altre funzioni… altrimenti si potrebbe arrivare a pensare che è uno spreco, in quanto sarebbe bastato concentrare nel solo corpo fisico tutte queste qualità senza andare a complicare troppo le cose!
Che necessità vi è degli altri vari corpi dell’individuo? Che necessità c’è di un piano astrale, di un piano mentale e così via quando avrebbe potuto esserci soltanto un piano fisico? Chiaramente è un discorso veramente complesso. Vediamo, quindi, di dare solo qualche spunto su cui pensare.
È evidente, prima di tutto, che se esistesse soltanto il piano fisico l’individuo avrebbe molte minori possibilità di fare esperienza. Questo perché vorrebbe dire che la consapevolezza dell’individuo sarebbe tutta soltanto sul piano fisico, d’accordo?
Se così fosse dovrebbe – per forza di cose – essere tutto alla coscienza.
Se fosse tutto alla coscienza l’individuo sarebbe statico, non avrebbe più molte dinamiche interne.
Se non avesse più molte dinamiche interne ecco che allora tenderebbe a cristallizzare, a fermarsi, a portare avanti i suoi giorni senza molte spinte.
Non soltanto, ma allorché incontrerebbe la possibilità di fare un’esperienza probabilmente si girerebbe dall’altra parte e si allontanerebbe tranquillamente.
Pensate quante volte un’esperienza – magari anche dolorosa – l’avete vissuta vostro malgrado, finendoci in mezzo spinti… da che cosa non lo sapete neppure voi.
Quindi, come minimo, gli altri corpi forniscono le spinte per spingere l’individuo incarnato verso l’esperienza e, quindi, verso la conoscenza, la comprensione, l’evoluzione e via e via e via. Sono, quindi, un mezzo per farvi fare esperienza a fini evolutivi.
Cosa c’entra il discorso del condizionamento con tutto questo, creature?
È evidente: questo sta a significare che, quanto meno il vostro corpo astrale e il vostro corpo mentale condizionano il vostro modo di pensare, di agire, di essere. Però, ricordate che il vostro corpo astrale e il vostro corpo mentale, così come quello fisico, sono diversi ad ogni incarnazione, quindi, in realtà, anch’essi sono condizionati, spinti da qualche cosa: basta pensare che ogni individuo al momento della nascita, un po’ alla volta, si costruisce quello e solo quel corpo astrale, corpo mentale, corpo fisico. Bene, queste direttive da dove arrivano?
Arrivano principalmente dalle esperienze che sono state fatte nelle vite precedenti e che risiedono nel corpo akasico, il quale è proprio preposto ad attrarre quel certo tipo di materia astrale, mentale e fisica per costruire quei corpi che sono necessari in quell’incarnazione per avere le esperienze adatte a conseguire altra evoluzione.
Allora questo significa, evidentemente, che il corpo akasico condiziona non soltanto il corpo fisico, ma anche quello astrale e quello mentale. Scifo

Il cammino evolutivo dell’individuo è tale per cui gli elementi esterni che, solitamente, influenzano e condizionano il comportamento della persona dalla bassa o dalla media evoluzione, un po’ alla volta non hanno più alcuna influenza sull’individuo stesso. Ecco così che, a mano a mano, che l’evoluzione diventa comprensione e sentire, allargandosi all’interno dell’individualità, tutti quei fattori che prima si riflettevano sulla condizione del sentire dell’individuo inducendolo a comportamenti quasi obbligati ora, con l’acquisizione di un sentire più ampio, penetrano nell’individuo ma non provocano più alcuna eco e, quindi, l’individuo non si lascia condizionare, non reagisce ad essi. Anonimo

Ed è così, fratelli, che il condizionamento non va più guardato solo con negatività, ma va anche riguardato esso stesso, e considerato, alla pari con tutto ciò che fa parte della crescita individuale e personale, nella sua giusta luce.
Ma guardate la vostra stessa vita, osservate i vostri figli e i bambini che crescono, ed osservate quanto in essi il condizionamento produca degli effetti positivi.
È per condizionamento, infatti, che essi imparano a parlare, fratelli, è per condizionamento che imparano a leggere e a scrivere, e, quindi, rimirato in questa luce, il condizionamento – considerato negativamente dalla maggioranza degli uomini – ha la sua validità.
Ciò che è più importante, in realtà, è l’essere consapevoli di quanto questo condizionamento ha importanza nella vostra esistenza e nel vostro agire; in qualsiasi vostra azione, sia essa la più semplice o la più sciocca, sia essa la più importante e la più determinante della vostra intera esistenza.
Non riguardate, dunque, il condizionamento soltanto negativamente, e tenete sempre presente il fatto che questo condizionamento, se vagliato adeguatamente, vi potrà portare a delle soluzioni, a delle conclusioni importanti per il vostro stesso bene. Baba

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima, pag. 68-82, Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

 

Compromesso ed ipocrisia

d-30x30Compromesso. Dizionario del

Ancora una volta ci troviamo di fronte a un termine che si può definire soltanto se si tiene conto del concetto di ambivalenza. Il compromesso, infatti, va perseguito quando è possibile rinunciare in prima persona per non danneggiare le esigenze degli altri oltre che le proprie o quando essere intransigenti non servirebbe ad altro che a rendere più aspri i conflitti tra le persone. Ma va, invece, evitato, quando è motivato dal tornaconto personale, dal tentativo di chiudere gli occhi di fronte ai problemi, dalla ricerca del «quieto vivere» più che della risoluzione delle situazioni conflittuali.
Ovviamente solo l’individuo può rendersi conto di quando sia giusto, secondo il sentire che ha raggiunto, accettare o ricercare il compromesso.

Messaggio esemplificativo

Si sa che la vostra società e gli individui che la compongono amano il «compromesso». Infatti se voi vi guardate attorno potete vedere che nel corso di una sola giornata si giunge a migliaia di compromessi. Dal compromesso politico della vostra classe dirigente, al compromesso tra un certo numero di individui (forse meno importanti dei primi) che ha certamente una minore possibilità di ripercussioni e di coinvolgimenti, al compromesso, invece, strettamente individuale.
Da un punto di vista giuridico, da un punto di vista politico, possiamo anche affermare che – tanto per essere buoni – il «compromesso» può avere anche una sua positività, può anche essere giusto e valido soprattutto quando ad esso si giunge per placare delle controversie che altrimenti porterebbero ad una sorta di suicidio generale comprendente migliaia e migliaia di persone.
Non si può però dire la stessa cosa se si osserva il compromesso da un punto di vista etico-morale.
Colui infatti che tende a giungere a dei compromessi, è un individuo che va contro i propri principi etici, i propri principi morali, magari per il solo «quieto vivere» – come siete soliti dire voi – magari per evitare coinvolgimenti, ripercussioni, o magari ancora per non correre il rischio di perdere un certo tipo di «gratificazione» tanto cara al proprio Io.
Perché dico tutto questo? Dico questo perché, certamente, l’individuo che giunge facilmente a dei compromessi non è l’ideale di individuo che noi da più tempo vi andiamo indicando. Se sfogliate un vocabolario vedrete che in opposizione all’individuo che accetta i compromessi, c’è l’individuo che non li accetta e che viene definito per tale ragione, un individuo dal carattere forte, un individuo amante del retto vivere, un individuo onesto con se stesso e con gli altri. Ed è proprio questo tipo di individuo che noi vogliamo indicarvi con le nostre parole.
Capisco che non è cosa facile, ma non è impossibile.
Ma cerchiamo di fare un esempio che renda un po’ meglio quanto noi vogliamo affermare.
Prendiamo come esempio il 1968; io credo che ognuno di voi si ricordi che cosa è accaduto in quell’anno, ognuno di voi ricorderà il numeroso stuolo di studenti invadere le strade, le piazze per protestare contro le Autorità, le istituzioni, contro tutto quello che di falso e di non più accettabile la società di allora stava loro proponendo, vuoi che queste cose fossero una riforma scolastica vecchia di vent’anni, vuoi che queste cose fossero una tediosa attesa per ottenere un serio posto di lavoro dopo la laurea o il diploma, vuoi che fosse la protesta contro una scuola «selettiva» che favoriva i figli dei «possidenti» a scapito dei figli degli «operai». Al di là di tutto questo, che certamente nell’ambito di questa serata non ci interessa, cerchiamo di vedere che cosa è successo a quelle persone che allora invasero quelle strade.
Naturalmente il 1968 ormai è per voi molto lontano, e quindi quegli studenti medi e universitari che allora protestavano sono gli attuali trentacinquenni-quarantenni, alcuni di essi, allora, erano fermamente convinti di quello che stavano facendo; e credevano seriamente nella validità del loro operato. Però, ahimè, s’è visto che alcuni di essi, anche tra quelli che credevano veramente in quello che facevano, sono dovuti giungere a dei compromessi, accettare alcune cose (contro le quali protestavano) magari per far carriera, o per dirla con un cantautore dei vostri tempi «per entrare in banca pure loro». Rinnegando quindi i loro principi etici, i loro principi morali e magari, al limite, qualcuno di loro non avrà condiviso quegli ideali che hanno mosso le recenti manifestazioni studentesche (il buon Vico evidentemente aveva ragione!) che si sono viste appunto qualche mese fa.
Tutto questo per dire cosa? Per dire che la società, ed i suoi mali che possiamo individuare nell’arrivismo, nell’esasperato conformismo, nel servilismo per «chi più conta», nella sudditanza psicologica di fronte alle nomine «illustri», nell’ipocrisia e via e via e via, ha vinto sugli individui che tutto ciò rifiutavano.
Certo, dopo tutto questo discorso che ad alcuni di voi potrà apparire senza capo né coda, qualcuno potrà anche contestare dicendo che d’altra parte quando un individuo è costretto a vivere in una determinata società è logico che debba adeguarsi a quella società, accettandone pure i mali.
Questo è vero e sacrosanto: è vero che l’individuo deve adattarsi alla società in cui vive, anzi noi stessi, più d’una volta abbiamo affermato che è giusto che l’individuo compia la propria rivoluzione all’interno di se stesso senza fare nulla di plateale, senza compiere azioni di forza, e cose di questo genere, restando quindi inserito nella società.
Ma attenzione, forse è proprio a questo punto che il nostro insegnamento è stato travisato: perché adattarsi alla società in cui l’individuo sta vivendo significa provare rispetto per coloro che sono succubi (in questo caso dei compromessi per ritornare un attimo al tema iniziale) e non significa certamente che se la vostra società vi richiede d’essere ipocriti, voi, se non lo siete, dobbiate diventare tali! No, no, questo proprio non lo troverete nel nostro insegnamento, così come non lo troverete in nessun altro tipo di insegnamento spirituale, men che meno in quello del Cristo.
Tutto quello che possiamo dirvi a questo proposito è di mantenere sempre intatto il rispetto per i vostri principi etici e morali anche se questi, magari, cozzano contro quelli della società, di parlare serenamente, di dire quello che sentite, di dire quello che veramente pensate, perché se quello che veramente pensate e sentite è per voi veramente la Verità non v’è nessuna ragione al mondo per cui voi dobbiate rinnegare la vostra verità!
E non abbiate tema d’essere accusati di reato di vilipendio se, nel dire la vostra verità, andate magari anche contro a nomi illustri; non abbiate tema per questo perché il vero vilipendio, figli miei, è quello che voi operate a voi stessi, nei vostri confronti, nei momenti in cui rinnegate le verità in cui affermate di credere.
Vi posso dire che se il Cristo, ad esempio avesse avuto paura delle conseguenze del suo parlare, se fosse arrivato a dei compromessi sociali molto probabilmente sarebbe morto a novant’anni e in un comodo letto… ma vi posso anche assicurare che le sue parole non avrebbero certo avuto la risonanza che esse hanno ancora ai giorni vostri.
Ma lui sapeva che la verità che portava era una verità degna di avere la «V» maiuscola, era una verità che rispondeva alla realtà, era una verità che andava detta, che non andava assolutamente taciuta, era una verità che tutti dovevano, in qualche modo, avvicinare e, nel dirla, consapevole delle estreme conseguenze che avrebbe dovuto subire, ha dimostrato non solo d’essere nella verità ma d’aver compreso, anche, che cosa significhi amare veramente gli altri fratelli. Vito

È evidente da quello che avete appena ascoltato che all’ipocrisia, che allo scendere a dei compromessi noi contrapponiamo l’onestà, il rispetto dei propri principi etico-morali, il rispetto delle proprie idee, delle proprie opinioni e cose del genere.
Ma voglio raccontarvi un fatto che ho avuto occasione di osservare e che ho ritenuto abbastanza curioso se non addirittura divertente, perché credo che possa esservi utile.
Ho visto, non molto tempo fa, una signora molto triste perché aveva scoperto che il proprio compagno di esistenza, il proprio marito, amava sollazzarsi con altre donne e ho visto questa stessa signora andare alla ricerca di un conforto, di parole che potessero sollevarla da questo dolore, e l’ho vista giungere, infine, da un uomo di fede il quale, dopo averle detto alcune frasi di circostanza concluse il suo discorso dicendo così: «Beh, cara, non te la devi prendere: d’altra parte considera che l’80% dei mariti italiani tradisce la propria moglie… bisogna cercare di capire».
Capire che cosa, mi chiedo io?
Che forse quella signora doveva ritenersi fortunata se fino a quel momento aveva fatto parte dell’esiguo 20% di donne non tradite? O capire che doveva ritenersi soddisfatta perché anche lei, adesso, faceva parte di quell’80%?
O, infine, capire che nelle parole di quella persona vi era un tacito invito ad accettare ipocritamente una situazione… per altro così normale?
Non darò una conclusione ma, come mia abitudine, lascerò che ognuno di voi trovi la propria risposta alla luce, magari, del nostro insegnamento, dei nostri principi morali, confrontandoli con quei principi della morale cristiana che viene adottata quale esempio di retto vivere.
Ma voglio parlarvi anche di qualcos’altro, inerente un campo più vicino a voi che, in qualche modo, cercate di compiere la ricerca spirituale, in modo che vi rendiate conto – secondo nostro costume – quanto un comportamento ipocrita possa essere dannoso e quanto male un comportamento ipocrita possa fare.
È risaputo, ad esempio, che nel campo del paranormale esiste una folta schiera di medium, sensitivi, pranoterapeuti che altro non sono che veri e propri imbroglioni, non solo perché non posseggono alcuna di queste facoltà, ma perché pur sapendo di non possederla fanno di queste loro sedicenti facoltà lo scopo della loro esistenza, ne fanno scopo di lucro e fonte di lauto guadagno, gabbando, quindi, quelle persone che, vuoi per ingenuità, vuoi per bisogno, vuoi per disperazione, a loro in qualche modo si rivolgono.
Ma non è questo il punto, il punto più triste di tutto questo è il fatto che vi sono anche coloro che tutto questo sanno e che tutto questo tengono per sé, lasciando che altri fratelli subiscano le conseguenze che ognuno di voi, penso, riesca ad immaginare. Anche questo non è certo un comportamento degno, per lo meno, di chi dice di seguire una ricerca spirituale, o di chi fa dell’insegnamento spirituale lo scopo, quasi, della propria esistenza.
Questo perché nel nostro insegnamento spirituale noi più di una volta abbiamo affermato, ad esempio, che colui che sa ha il dovere di dire a chi meno sa o a colui che, addirittura, nulla sa. E se pur è vero che la Verità è incomunicabile, e se è pur vero che esistono delle difficoltà perché chi sta di fronte a voi riesca ad accettare completamente la vostra verità, è anche vero che voi avete questo dovere nel comunicarla. Questo perché é dovere di ognuno di voi fare qualcosa per i vostri fratelli, per i vostri compagni di viaggio, per i vostri amici che assieme a voi sono incarnati nel mondo fisico.
È dovere di ognuno di voi esprimere quello che veramente pensa, mettere in guardia, avvisare – in questo caso – del fatto che esistono persone che pensano soltanto al proprio benessere e in particolare al benessere del proprio portafoglio. In questo modo voi riuscirete ad eludere la responsabilità che voi avete appunto nei confronti dei vostri fratelli, perché anche se su 10 persone solo 1 resterà convinta del vostro dire, sarà stata sufficiente quell’unica persona affinché il vostro dire avesse una ragione di essere. Il questo modo, oltre ad avere la possibilità di aiutare un vostro fratello, dimostrerete anche che se l’ipocrisia la fa da padrona, sta certamente incominciando a ridurre il numero dei suoi servi.
Certamente nell’andare contro queste situazioni, nel parlare di queste cose, dovrete cercare di farlo con serenità, senza livore, senza rabbia, dovrete cercare di aiutare chi vi sta ascoltando, dovrete cercare di dire le cose mantenendo il rispetto della persona ma cercando di distruggere, magari, il rispetto del personaggio dannoso, in questo caso, agli uomini.
Quindi, come vedete, l’ipocrisia che vi fa tacere, l’ipocrisia che nasconde quella sorta di omertà da parte di coloro che sanno ma preferiscono non dire per non subire poi conseguenze, è veramente qualcosa di deleterio, e non soltanto per il male che può essere fatto, ma deleterio anche per l’individuo stesso, che di questo male si accorgerà soltanto nel momento in cui abbandonerà il mondo fisico. Fabius

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima, pag. 62-68, Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

Complesso edipico, evoluzione del bambino, sessualità

d-30x30Complesso edipico, evoluzione del bambino, sessualità. Dizionario del

Secondo lo psicoanalista il complesso edipico si instaura nel bambino nel periodo d’età che va dai due anni circa ai sette, e consiste nel rifiuto inconsapevole del genitore del suo stesso sesso, ed è causato da una proiezione amorosa nei confronti del genitore di sesso opposto. Si tratta di una fase che, affermano gli psicoanalisti, è normale per la crescita caratteriale del bambino e che finisce col risolversi da sola grazie alla progressiva identificazione col genitore del proprio sesso.
Pur concordando che si tratta di un processo normale, le Guide ne hanno esaminato, nel tempo, i risvolti collegati alla diversa costituzione dell’individuo, della sua coscienza e dei suoi bisogni evolutivi che, ovviamente, non erano stati presi in considerazione da Freud.

Messaggio esemplificativo

 C’è una domanda che è meglio affrontare subito: «Il complesso d’Edipo esiste sempre e comunque o no?».
Certamente no, in quanto gli stessi studi fatti hanno constatato che in certe società (in particolare società «poco civilizzate») non si è riscontrata traccia, presenza del complesso edipico. Che spiegazione dare, allora, a questo?
Questo significa che il complesso edipico non è una cosa assolutamente necessaria, indispensabile alla crescita dell’individuo, altrimenti si presenterebbe senza dubbio da qualsiasi parte, in qualsiasi situazione, ma nasce sotto la spinta di particolari condizioni. Quindi non si può dire che nasca da bisogni del bambino e, in fondo, neanche da bisogni del genitore; questo per lo meno in senso generale, valido per tutti.
Ciò non toglie che, nella maggior parte delle vostre società, si riscontra la presenza di questo fattore definito «complesso edipico», al quale il nostro amico Freud ha però dato alcune connotazioni che, secondo il nostro punto di vista, non hanno poi quell’importanza preminente che è stata loro attribuita.
Queste connotazioni sono l’aspetto sessuale e l’idea della competizione.
Secondo il nostro punto di vista, nell’ambito del complesso edipico la sessualità non può avere quel posto così importante e preminente che le è stato attribuito dalle correnti psicanalitiche e freudiane in particolare.
Consideriamo il bambino, creature.
Il bambino, quando nasce, ha certamente la sua base evolutiva, certamente ha un inizio di personalità che sarà quella che dovrà avere, per cui si sarà strutturata già in partenza su certi schemi; però, senza alcun dubbio, non ha una vera e propria sessualità; ovvero per il bambino certamente esiste (non dai 3 anni ma da prima) addirittura una sensazione di piacere che può essere associata anche agli organi sessuali, tuttavia da lì ad affermare che il bambino si comporta in un certo modo nei confronti dei genitori in quanto si sente attratto sessualmente dall’uno o dall’altro genitore, il passo è molto lungo! Infatti questo significherebbe dare alla sessualità del bambino di pochi anni un’attività in qualche modo cosciente, consapevole, e non è affatto così.
La sessualità del bambino – quella parte di sessualità che nel bambino per lo meno si manifesta – è ancora una sessualità epidermica, fisiologica, quindi non indirizzata verso un oggetto sessuale particolare ma indirizzata e manifestata nei confronti di tutte le cose che gli suscitano certe sensazioni: anche mangiare, essere appagato come stomaco, essere accarezzato sono tutte sensazioni di piacere. È una situazione, è uno stimolo che in qualche modo può essere paragonato, nel bambino a uno stimolo sessuale, però non ha connotazione né maschile né femminile.
Quando nasce, il bambino ha dunque questa capacità, queste sensazioni di piacere che poi chiaramente, con il passare del tempo, si fisseranno in una direzione più prettamente sessuale. Egli, tuttavia, nasce un po’ come una pagina su cui scrivere, quindi come un insieme che deve andarsi formando sotto la spinta di ciò che lo circonda e sotto la spinta anche di ciò che proviene dalla sua parte «esoterica». Ora, cosa succede? Succede che il bambino non è ancora completo, non è ancora un essere unito, ma un essere che si sta formando, che si sta creando, che si sta plasmando attraverso le varie spinte e attraverso i bisogni che si vanno sviluppando… attraverso, anche, a contatti con i vari corpi che lo costituiscono.
Voi sapete che fino ai 7 anni non vi è ancora neppure il completo allacciamento del corpo astrale, quindi non vi è ancora una coscienza, una consapevolezza completa delle sensazioni e dei desideri; tuttavia sensazioni e desideri sono le cose principali che smuovono, che fanno parte della vita della coscienza del bambino, e questo lo potete constatare tutti i giorni, a quest’età.
Le figure dei genitori, per il bambino, sono quelle che devono fornirgli i modelli per creare il proprio «Io», per creare la propria manifestazione all’interno dell’ambiente fisico. Egli, quindi, guarda ai genitori (senza esserne consapevole, naturalmente: è un meccanismo che avviene spontaneamente) per prendere da essi ciò che egli reputa «buono» al fine di costituire se stesso nel modo migliore. Infatti, pensateci bene, creature: il bambino non osserva mai i genitori per prendere da loro i loro comportamenti sbagliati (magari a volte lo fa, perché non si rende conto ancora di ciò che è giusto o sbagliato) però principalmente cerca di prendere da loro ciò che a lui piace nei genitori. Ecco, quindi, che i genitori stessi hanno una funzione molto importante per il bambino, il quale conglobando gli aspetti migliori che rileva nei genitori, conglobandoli dentro di sé, dovrebbe arrivare a formare quell’individuo unito che poi crescerà, maturerà e darà il via a tutte le sue esperienze.
A questo punto entra in gioco, nella vostra società, quello che viene definito complesso edipico. Perché dico «nella vostra società»? Perché, in realtà, il complesso edipico non nasce da un bisogno del bambino, non nasce neppure dai bisogni dei genitori, ma nasce, invece, dal modo stesso in cui è strutturata la vostra società. È la vostra società che crea il complesso edipico, come reazione alla sua strutturazione («della società», ndc). Infatti, la vostra è una società in cui l’individuo è scisso, l’individuo è maschio o femmina; basta osservare i ruoli che il maschio e la femmina hanno nella società per rendersi conto che questa è una dicotomia non tanto reale quanto voluta e, in qualche modo, condizionante e imposta alla persona. Ecco così che il bambino che, come avevamo detto, prende a modello i genitori, invece di diventare nelle vostre società un individuo unito, parte già fin dall’inizio come un individuo scisso, un individuo separato, in quanto le due figure vengono vissute diversamente perché diversamente si comportano, diversamente sono inserite, diversamente agiscono e sono considerate all’interno della società, ed egli non riesce ad unire questi punti che vive come contrastanti, pur rendendosi conto che vi è del buono sia nell’uno che nell’altro.
L’idea che nascere maschio o femmina comporti già una scissione diversa all’interno del bambino non è del tutto condivisibile, in quanto certamente fisiologicamente un individuo nasce già maschio o femmina in teoria, quanto meno, però, il bambino non ragiona ancora in terminologia di maschio o femmina; per questo motivo ritengo che attribuire un carattere prettamente sessuale al complesso edipico non abbia del tutto senso: il bambino non ragiona in questi termini, ragiona in termini di ciò che gli piace, di ciò che desidera avere in se stesso e che gli altri che gli stanno attorno hanno. È «dopo» che viene l’identificazione del ruolo sessuale ed è quindi «dopo», a quel punto, che si smuoverà tutta la tipologia sessuale, che porta dall’adolescenza in poi, per l’individuo. Ma il bambino, almeno fino a una certa età, non pensa a se stesso come maschio o femmina; a meno che, naturalmente, in famiglia non lo condizionino ad osservare la vita in quella determinata prospettiva fin dalla più tenera età.
La sua situazione fisiologica, ovvero il possedere un corpo maschile o femminile, certamente lo porterà ad assumere un suo ruolo nella società, che però ricalcherà i ruoli che ha osservato nella famiglia e nella società di appartenenza. È a quel punto che nascono i problemi sull’identificazione sessuale. Ricordate che la parte fisiologica dell’individuo è un conto, e come vive interiormente l’individuo il suo modo di essere è ben diverso; e che la parte fisiologica non sia neanche poi così importante è vero proprio per il fatto che può esistere una parte fisiologica maschile e una componente interiore, invece, tendenzialmente femminile, anche se poi il discorso tra maschile e femminile andrà esaminato in seguito con più calma, perché è sempre più un condizionamento, una dicotomia imposta, che una realtà dei fatti.
Certamente, ricerche moderne sembrano voler porre una base all’essere maschio e all’essere femmina non soltanto a livello fisiologico ma anche a livello di cervello, a livello genetico e via dicendo. Sì, potrebbe essere vero e, in buona parte, è anche vero, ma vi è qualche cosa, però, al di là ancora, al di sopra di tutto questo, qualcosa che non è né maschio né femmina, e che influisce su questi aspetti; questi aspetti che la scienza genetica sta «a valanga» scoprendo sono, in realtà, ancora degli effetti secondari di tutta la situazione.
La condizione ideale, quella che l’individuo, la vostra razza, dovrebbe arrivare a raggiungere, a compiere, dovrebbe essere proprio quella di essere non scisso interiormente ma unito: riunire in sé gli aspetti maschili e gli aspetti femminili senza farsi condizionare da ciò che la società gli impone o da ciò che anche il suo fisico, in realtà, gli impone.
Quante volte voi osservate una donna e dite: «è molto dura, si comporta come un maschio» o quante volte deridete un uomo perché magari si commuove guardando uno spettacolo alla televisione! Questi sono certamente condizionamenti e null’altro, ma all’interno di ognuno di voi in realtà (e questo l’abbiamo sempre detto, fin dall’inizio dei nostri interventi) c’è una parte maschile e una parte femminile; e inoltre, creature, pensateci un attimo: come potrebbe essere altrimenti quando voi, nel corso delle vostre varie esperienze, siete stati ora maschi ora femmine, ora magari né maschi né femmine, e le esperienze che avete tratto da queste vite si sono inscritte nel vostro corpo akasico, fanno parte di voi.
Quindi avete in voi stessi entrambi i poli della sessualità individuale (e poi si dice sessualità individuale ma in realtà non è soltanto un polo sessuale, ma è un insieme di fattori, una costellazione di fattori che costituisce un certo tipo di esperienza, un certo tipo di personalità e via dicendo).
Il complesso edipico nasce dal desiderio da parte del bambino non di «competere» con il padre o con la madre o con, al limite, un fratello, con lo zio, con la sorella, con la zia, in mancanza delle due figure principali, ma quanto per far suo ciò che gli piace nell’altro individuo; quindi (e questa è una considerazione importante!) un sentimento positivo e non un sentimento negativo, come solitamente viene connaturato.
Questo accade perché cerca di diventare una creatura completa, cerca di inglobare tutti gli aspetti che gli piacciono. Perché inglobare ciò che non gli piace? Lui ha un ‘Io’ e questo Io cerca di primeggiare, di essere bello. Per questo motivo, quindi, cerca di prendere tutte le cose belle dagli altri e di farle diventare parte anche di se stesso. E in questo modo può squilibrarsi.
C’è da tenere presente che il bambino ha bisogno di formarsi e che avrebbe necessità di vedere le cose migliori intorno a sé per introiettarle e, quindi, creare un essere interiore equilibrato e tranquillo. Dal momento che non sempre le situazioni sono così idilliache all’interno delle famiglie e dei contesti sociali accade che il bambino finisca col diventare un individuo confuso.
Su questo bambino influisce una madre la quale, scontenta della sua condizione nella famiglia, scontenta del suo rapporto col marito, scontenta della posizione femminile, in generale, nella società, proietta sul bambino le sue ansie, le sue paure, senza rendersi conto del danno che fa alla costituzione di questa nuova personalità, la quale resterà squilibrata; e in quel momento sì che, allora, il bambino trasformerà il suo complesso edipico in un modo per ottenere ciò che non ha, ovvero per ottenere quell’affetto, quella sicurezza, quella tranquillità che la madre magari non gli dà, per sconfiggere quei fantasmi che la madre fa nascere dentro di lui, per togliere quel disagio nel momento in cui un padre che sembrava ormai sparito (e, quindi una possibilità di affetto, di emulazione, scomparsa) si ripresenta sbilanciando completamente il suo essere interiore e mettendo in dubbio ciò che egli ha preso da questi genitori, spaventandolo al pensiero che lui ha copiato queste persone e queste persone forse non avevano cose belle da copiare.
Ecco da dove può nascere il rancore nei confronti dei genitori: nella disillusione da parte dei figli!
La vostra società solitamente pone l’accento sulla madre, ma il ruolo di entrambi i genitori è importante, non può essere soltanto la madre. Se fosse soltanto la madre, allora sì che veramente il figlio nascerebbe in condizioni squilibrate fin dall’inizio, completamente squilibrate.
I ruoli del padre e della madre certamente sono identici. Può esserci una diversità nel ruolo dal punto di vista fisiologico, però dal punto di vista dell’accrescimento e dello strutturarsi della personalità del bambino i ruoli sono identici e alla pari.
Entrambe le componenti del padre e della madre sono strettamente necessarie e indispensabili al bambino per strutturare se stesso, ed è questa la grande responsabilità che entrambi i genitori hanno.
Se osservate quotidianamente i bambini che copiano gli atteggiamenti dei genitori, vedrete anche voi che non sempre copiano gli aspetti belli, ma copiano gli aspetti che a loro «sembrano» belli; ad esempio, un padre che scherza molto. Copiano questo atteggiamento e magari il padre scherza molto e non si cura degli altri, scherza molto perché è molto egoista, ma il bambino non si può rendere conto di questo! Resta affascinato dall’apparente affabilità, sensibilità, allegria del padre e copia questo atteggiamento, e questa sarà una disillusione poi, interiormente, quando si renderà conto di aver fatto la scelta sbagliata nel copiare proprio quell’aspetto.
Il discorso incomincerà a cambiare dopo i sette anni principalmente, quando il corpo mentale comincerà a costituire i suoi allacciamenti e anche il corpo akasico comincerà appena appena a costituire l’allacciamento con il seguito dell’individualità. Allora sì che la cosa diventerà più complessa e potrà esserci una scelta più consapevole, anche se chiaramente limitata per mancanza di esperienza da parte di quell’Io.
Il bambino tende a idealizzare i genitori e quando viene il momento della realtà dei fatti è difficile poi che riesca ad accettare di essersi sbagliato così completamente sui genitori, riportandoli ad una concezione di persone umane, normali; e, allora, corre il rischio di passare al comportamento opposto, quello del rifiuto totale, per cui entrano in gioco gli scontri generazionali, gli scontri adolescenziali, i rifiuti, i comportamenti antipatici, asociali, e via dicendo; che non sono, naturalmente, la norma, ma che possono essere segno di una non risolta accettazione delle scelte fatte dal bambino stesso, non delle scelte fatte dai genitori.
Di solito, si dà la colpa ai genitori (ed in parte è vero perché la loro responsabilità è grande), ma il bambino in realtà dà la colpa a se stesso per i suoi errori. Non mentalmente, naturalmente: interiormente.
Tirando le somme di quanto fin qui detto: il complesso edipico non è necessario, indispensabile all’evoluzione dell’individuo. Il complesso edipico non è da osservare – allorché esiste – nell’ottica prospettata dalle correnti freudiane; ovvero l’ottica sessuale è priva di una vera consistenza per quanto riguarda lo sviluppo di questo complesso edipico e, in particolare, l’idea della competizione, non soltanto non ha molta consistenza, ma, secondo il mio pensiero, non ha proprio assolutamente nessun fondamento.
Vorrei dire una cosa prima di andare avanti: quanto ho detto a proposito del complesso edipico, è necessariamente stato detto in chiave generale; in modo tale che ciò possa essere applicato, come base, come sfondo, a tutti i casi in cui questo fantomatico complesso si può evidenziare. Naturalmente, poi, le modalità di estrinsecazione sono variabilissime da un individuo all’altro, a seconda delle condizioni in cui si esplica, secondo l’evoluzione dell’individuo complessato, a seconda dei genitori che si trova o che non si trova, a seconda dell’ambiente sociale in cui si viene a estrinsecare questo complesso e quindi non si può più, oltre un certo punto, andare oltre alla generalizzazione, ma bisognerebbe, allora, proprio, parlare caso per caso.
Qualcuno ha tirato in ballo il discorso dei figli «mammoni». La mia interpretazione, in questo caso, è la seguente: il bimbo, come abbiamo visto, cerca di prendere dai genitori ciò che egli ritiene buono, giusto e utile (per se stesso, naturalmente).
Allorché si trova in una situazione di disequilibrio familiare – e nella vostra società solitamente questo porta ad un rapporto privilegiato del figlio nei confronti della madre – il figlio che cerca di prendere qualcosa, perché ne ha necessità, da entrambi i genitori, si trova a dover prendere quasi tutto dalla madre. Si trova, quindi, a introiettare dalla madre quelle che sono le principali emozioni che essa emana. Nel far questo (specialmente arrivato ad una età non più di tre anni ma più avanti) si rende conto del fatto che ciò che avverte dalla madre (che spesso poi la madre proietta sul figlio, dando luogo ad un attaccamento particolare) deriva da ciò che egli percepisce come mancanza da parte della figura paterna. Fin qua siamo d’accordo e non ci spostiamo neanche poi molto dalla concezione freudiana.
Dov’è che ci discostiamo? Ci discostiamo dall’idea di competizione nei confronti del padre e dall’idea inconscia di tendenza sessuale nei confronti della madre.
In realtà il figlio reagisce attaccandosi molto alla madre (diventando, appunto quello che viene definito un «mammone») proprio per il fatto che ha preso tutti questi elementi dalla madre e, siccome in questi elementi è compresa anche la mancanza del padre e i problemi che la figura paterna deficitaria ha fatto nascere nell’altro genitore, il figlio non entra in competizione col padre, ma si comporta in modo tale da cercare di dare alla madre ciò di cui egli sente che essa ha bisogno, non avvertendo la giusta presenza da parte del padre. Non è più, quindi, una competizione – quindi qualcosa di negativo, in un certo senso – nei confronti del padre; anche se poi possono esserci certamente dei sentimenti di rancore o di rivalità nei confronti del genitore deficitario, questo è inevitabile! – ma invece è, più che altro, un tentativo di dare alla madre ciò che egli pensa che non abbia avuto dall’altro genitore.
E questo – badate bene – al di là del comportamento reale della madre nei suoi confronti. Si parla comunemente, in questi casi, di madri che si attaccano molto a questi figli «mammoni»; molte volte invece non è neanche così; molte volte la madre si comporta normalmente nei confronti del figlio, non è neanche particolarmente attaccata al figlio: è il figlio che continua ad essere attaccato, in modo particolare, alla madre, perché si identifica con lei, avendo preso da lei molte parti e, quindi cerca in qualche modo di compensare in se stesso dando a lei ciò che sente mancare in tutti e due.
Non vorrei che dalle mie parole possiate giungere alla conclusione che, secondo me, io abbia affermato che i ruoli devono essere annullati; ho affermato che vi deve essere equilibrio, che l’individuo deve riuscire ad accomunare in se stesso tutti i ruoli, in modo tale da poter essere unito e non più scisso! È diverso il discorso. Anche perché, senza dubbio, un ruolo dell’essere femminile può essere quello di dar alla luce un figlio; questo non può essere un ruolo assunto da un individuo maschile. Quindi i ruoli devono esistere, ma certamente, l’insieme del dar vita a un figlio è fatto da un ruolo sia maschile sia femminile, che, nella loro componente di «sentire», hanno le stesse radici, devono avere le stesse radici; ed è a questo punto, a livello di «sentire», che l’individuo deve trovare la propria unità con gli altri.
Quando l’individuo trova l’unità con gli altri, all’interno del corpo akasico, del proprio «sentire», l’esistenza di un ruolo all’interno del piano fisico non ha nessuna importanza, in realtà, perché è un comportamento che l’individuo tiene perché è necessario; non è più un ruolo imposto dalla società, ma un ruolo sentito. È qua la sfumatura che dà un aspetto completamente diverso a tutto il discorso del ruolo.
Dobbiamo ricordare il fatto che il bambino non è totalmente costituito fin dalla nascita, ma che per il primo periodo di tempo è principalmente costituito da impulsi astrali (e, quindi, emozioni e desideri), poi da impulsi mentali (e, quindi, emozioni e desideri più pensieri) e soltanto poi, molto più tardi, da un inizio di «sentire» che incomincia in qualche modo a far capolino all’interno dell’individualità. Ora, forse, varrebbe la pena di esaminare un attimo l’evoluzione di questo fantomatico complesso edipico, all’interno delle dinamiche degli altri corpi dell’individuo.
Infatti nel corso dei primi anni di vita, il bambino cerca di prendere dai genitori ciò che ritiene meglio per se stesso; ma per se stesso chi? Per se stesso come «Io», certamente; no? Non può essere altro che qualcosa che gratifica il suo corpo astrale; quindi senza dubbio verrà attratto e cercherà di emulare in qualche modo il genitore che appaga i suoi desideri, che gli dà piacere fisicamente, che lo coccola, che lo vezzeggia e via e via e via. Soltanto allorché il corpo mentale comincerà a diventare più preponderante, soltanto allora il bambino cercherà di prendere dai genitori quello che appaga il suo corpo mentale, ovvero la capacità di pensare, gli interessi, le attività mentali; e soltanto dopo, quando ci sarà il corpo akasico più in funzione, più allacciato, più pronto a mettere in atto il proprio sentire, il bambino – il ragazzo, ormai, molte volte – incomincerà a fare una cernita tra le cose che avrà preso e sarà qua il punto difficile poi da superare.
Ecco perché, in realtà, è stato constatato che questo complesso si presenta in due fasi distinte: vi è una fase di acquisizione degli elementi e poi una fase di discussione, di cernita di questi elementi.
Io vi posso dire che, per lo meno nel primo anno di vita del bambino, l’identificazione della realtà, da parte del bambino, avviene principalmente attraverso il tatto e l’olfatto. Ed è per questo motivo che se mettiamo madre e padre vicino al bambino, certamente il bambino quando avrà fame, per essere allattato, si rivolgerà verso la madre, in quanto identifica la fonte del suo piacere e quindi della sua sazietà, con l’odore tipico della madre e del latte del suo seno naturalmente, che – ahimè – il padre non ha.

Dal volume del Cerchio Ifior, Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima, pag. 48-57, Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior