Impulsività e azione

d-30x30Impulsività. Dizionario del

Una delle questioni che si sono presentate più spesso in questi trentanni di interventi delle Guide riguardava la difficile soluzione alla domanda: «È meglio agire impulsivamente o elaborando prima mentalmente le proprie azioni?»
Come si può capire, la questione non è facilmente risolvibile e, tanto meno, è possibile dare una risposta che sia valida in generale: i bisogni evolutivi di ogni incarnato sono così diversi l’uno dall’altro che anche le risposte date a questo tipo di domanda non può che essere diversa da un caso all’altro.
Tuttavia, passiamo a considerare alcuni elementi che forse possono dare un’indicazione su cos’è meglio per chi si pone questo interrogativo.
Per quanto riguarda la coscienza, l’agire impulsivamente porta tanti dati alla sua attenzione, dati che, oltretutto, sono meno inquinati dall’Io perché l’agire d’impulso prende di sorpresa l’Io e non gli permette di alzare tutte le sue barriere e coprirsi di tutte le sue maschere.
Quindi, teoricamente, l’agire impulsivo potrebbe essere sempre il più indicato, se… non ci fosse un grande «se», ovvero gli effetti che l’azione impulsiva può far ricadere sugli altri.
Certo, fermarsi a pensare troppo prima di agire può finire col far attuare comportamenti estremamente egoistici in quanto si tende a vagliare i pro o i contro a favore delle proprie azioni. Oppure, addirittura, si finisce col non agire, cosa che all’Io, solitamente, va più che bene, perché evita di mettersi in gioco.
Come al solito, la strada meno faticosa è quella del «giusto mezzo» che, in questo caso, si traduce nell’esaminare un attimo prima di agire, quali effetti la propria azione farà ricadere sugli altri, senza, però, perdersi in inutili e complesse elucubrazioni mentali.
La vera risposta alla domanda, comunque, non può che essere data dall’evoluzione raggiunta dalla persona: se sarà un’evoluzione medio alta senza dubbio nel mettere in atto il suo comportamento terrà sempre conto anche delle persone sottoposte all’influenza della sua azione. In presenza di un’evoluzione (e quindi di un sentire) ancora limitata la reazione sarà quasi sempre impulsiva, salvo cercare successivamente di mitigare la propria azione impulsiva con altri comportamenti più pacati.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima. Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

Immagine di se stessi

d-30x30Immagine di se stessi. Dizionario del

Una delle caratteristiche di base dell’uomo incarnato – ci hanno insegnato le Guide – è quella di osservare la realtà che vive e di crearsi un’immagine interiore di quello che gli interessa. Ecco, così, che esiste un’immagine di se stessi, una delle altre persone e una, addirittura, dell’ambiente, delle situazioni e di tutto ciò che si incontra nel corso della vita. In altre parole ogni individuo ha, dentro di sé, la rappresentazione della realtà incarnativa che attraversa.
Nella costituzione di questa serie di rappresentazioni sorge però un problema: esse sono condizionate dalla relatività della percezione sensoriale dell’individuo, e non solo, ma anche dai suoi bisogni evolutivi (che gli fanno dare preminenza a certi aspetti a scapito di altri), dalle sue comprensioni e incomprensioni, dall’Io e via dicendo.
Ne consegue che le immagini che l’individuo si forma non sono mai complete né esatte, bensì parziali e, in definitiva, non sempre molto attendibili.
Fattore importante in questa problematica è il fatto che l’immagine che viene creata tende ad essere fissa, sostenuta e mantenuta tale il più a lungo possibile dall’Io che ha paura dei cambiamenti in quanto avvertiti come possibili pericoli alla sua stabilità e al suo possesso della realtà.

Messaggio esemplificativo

Qualcuno ha chiesto «a cosa serve l’immagine?» e, più o meno, avete cercato di dare una risposta; però avete dimenticato la risposta essenziale. A cosa serve l’immagine? L’immagine serve all’Io per illudersi di esistere.
Se l’Io non creasse questa immagine con cui rappresentare se stesso, non avrebbe nessun elemento – secondo lui «palpabile» – per poter affermare che egli è reale, che egli appartiene al mondo fisico; e anzi, tutto sommato – se vogliamo proprio andare a vedere – è anche più reale di tutto il resto della realtà!
Ecco, quindi, che questa è la necessità prima dell’esistenza dell’immagine che l’individuo ha di se stesso.
Ahimè, voi sapete – come abbiamo sempre detto – che l’Io ha in se stesso le armi per la propria distruzione; ecco che, infatti, questa immagine, pur essendo necessaria all’Io per rafforzare se stesso e per convincersi di esistere, di essere più realista del re, è anche quel fattore che induce l’individuo con un minimo di consapevolezza e di attenzione su se stesso, a guardare questa immagine e a essere poco convinto di quello che vede; quindi, a notare questa discrepanza tra ciò che il suo Io crede e ciò che magari è la realtà. Da qui l’esigenza, la spinta a cercare di comprendere di più e tutto quello che ne consegue, come l’avvicinarsi al Cerchio Ifior, o interessarsi di filosofia, e via e via e via, tutti quegli elementi che possono portare a cercare una maggiore comprensione di quella che è la propria realtà.
Ma come fa l’uomo ad accorgersi che è un’immagine, come fa a contestarla, come fa a modificarla? Che sia difficile, non c’è ombra di dubbio, sennò tutti in un paio di vite ce la caveremmo, e invece ce ne vogliono molte di più! Il problema è che bisogna pensare all’uomo non come un individuo limitato, settoriale, bensì costituito da varie componenti. Certamente c’è la componente che dà questa fittizia vita all’Io – che è costituita dai corpi inferiori, quelli cosiddetti «transitori» – ma c’è anche la componente che dura sempre, che è quella della coscienza; ed è proprio dalla coscienza che viene l’impulso a comprendere, ed è proprio dalla coscienza che viene, alla fin fine, ad essere messo in atto quel meccanismo che tende ad osservare l’immagine che di se stesso si crea l’Io mettendo il tarlo del dubbio in chi osserva da «osservatore» e non dal punto di vista dell’Io.
Noi abbiamo sempre detto che tutto nella Realtà è una specie di perfetto orologio svizzero in cui tutti i meccanismi sono interagenti tra di loro e tutto si muove; attraverso il piccolo movimento di una rotellina tutto l’universo si muove di conseguenza.
L’immagine che avete di voi stessi è l’immagine che ha il vostro Io di voi stessi; difficilmente avete un’immagine che discordi da quella dell’Io, a meno che non siate così capaci di osservare voi stessi mettendovi da parte da rendervi conto che quell’immagine è falsa; ma allora, probabilmente, non sareste qua nessuno di voi!
Però, quello di cui non vi rendete conto è che voi, questo discorso dell’immagine, lo applicate all’individuo, «l’immagine che io ho di me stesso», ma in realtà voi, la vostra vita la conducete secondo un’immagine di «tutta» la realtà; il vostro Io si fa un’immagine della realtà, si fa un’immagine … che ne so … della politica in America, si fa un’immagine di come si comporta l’amica G., si fa l’immagine di come sono i rapporti tra di voi; l’Io è un continuo formarsi di immagini, e le immagini che si forma sono quelle che, solitamente, più vanno d’accordo con i suoi scopi. E quali sono i suoi scopi? Principalmente espandere se stesso nel tentativo di fare sua tutta la Realtà in maniera da poterla tenere sotto controllo.
L’espansione dell’Io, che – da un certo punto di vista, concettualmente – è molto utile perché dà l’idea di questo tentativo da parte dell’Io di fagocitare tutta la realtà, può però anche indurre in un errore grossolano, perché «espandersi» porta in sé l’idea del movimento; in realtà lo scopo dell’Io è quello di mantenere tutto immobile; lui non vuole espandersi e conquistare la realtà: vuole che la realtà si fermi e riconosca che lui è il centro, il perno stabile di tutta la realtà, è questo il punto; quindi non è che l’Io voglia proprio combattere con la realtà ma semplicemente vuole che la realtà si fermi perché in quel momento a lui sta bene che le cose siano così e, quindi, per la sua grandezza, per il suo desiderio, per i suoi bisogni, la realtà deve piegarsi, fermarsi in quella situazione, in quell’immagine che, secondo lui, è ottimale per se stesso. Dicendo «immagine ottimale per se stesso» intendo l’immagine che ha di se stesso, l’immagine che ha degli altri, l’immagine che ha della realtà. Praticamente è come se lui, sentendosi un dio onnipotente, volesse crearsi un «eterno presente relativo» partendo dall’assunto che la realtà non solo «è» adatta a lui, ma «deve» essere adatta a lui; non può essere altrimenti. È lui il centro dell’universo, no?
È un po’ come secoli fa, quando si pensava che fosse la Terra al centro dell’universo; è ancora un passettino più avanti: lui è, addirittura, lui stesso il centro dell’universo, tutto ruota intorno a lui, è lì per lui, per far piacere a lui; e non sa poi – ironia della cosa! – quanto in realtà sia tutto vero questo; perché, in realtà, tutta la Realtà esiste «anche» per lui, però certamente la prospettiva è un’altra.
Dunque, l’Io si crea questa immagine e cerca di fermare la realtà: un fermo-immagine del proiettore dell’esistenza, in modo tale da fermare l’immagine sul momento che più gli sembra ottimale per se stesso. Dove sta il problema? Perché non ci riesce? A questo punto, dovreste essere tutti autistici, crogiolati nell’ammirazione di voi stessi – e non soltanto per qualche momento, come fate di solito, ma sempre – e, quindi, la vostra vita non avere più spinta né senso per andare avanti per modificarla; giusto?
La spinta avviene naturalmente, un po’ per i movimenti dall’esterno – perché gli altri non sono lì per il vostro benestare, ma sono lì per vivere anche loro – viene dai loro Io che cercano, a loro volta, di fare di voi quello che voi volete fare di loro e, quindi, da questo confronto, molte volte nasce qualcosa di utile, e viene dal fatto che vi rendiate conto con un minimo di consapevolezza – quando la possedete, come dicevo prima – vi rendete conto che la vostra immagine, a cui siete così attaccati, non è più la stessa. Ma non è più la stessa non per sfumature piccole, ma non è più la stessa perché nel giro di una settimana, di un mese, è completamente diversa; e allora, a quel punto, la terra incomincia un po’ a tremare sotto i piedi dell’Io, perché incomincia ad avere dei dubbi sulla propria onnipotenza. Scifo

 Immagine di se stessi, approfondimento

Dal momento che le immagini che ci creiamo sono fisse, non possono tenere conto dei cambiamenti che, nel frattempo, noi stessi, le altre persone o le situazioni hanno messo in atto.
Diventa allora indispensabile ricordarsi di non restare aggrappati alle immagini che abbiamo ma cercare di aggiornarle rendendole il più aderenti possibile alla nostra realtà corrente.
Questo ci permetterà di essere più facilmente sinceri con noi stessi, di tendere meno alla cristallizzazione, di non giudicare gli altri senza dare loro alcuna possibilità di riscatto e di comportarci meno spesso di quanto facciamo in maniera irragionevole per non dire sciocca.

Immagine di sé, differenza con l’Io

Ovviamente immagine e Io sono strettamente correlati. Sappiamo che, secondo l’Insegnamento, l’Io non ha una sua esistenza reale; l’Io si potrebbe quasi dire che è una situazione in cui l’individuo si trova, una risultante del comportamento all’interno dell’incarnazione dell’individuo tramite le sue componenti fisica, mentale e astrale. Ora, questo dà vita a una fittizia personalità che, a un certo punto, cerca di essere vera, di essere reale e, per far questo, cosa deve fare? Deve costruire se stessa. Ricordiamo che quando l’individuo nasce, al di là del corpo fisico, nasce praticamente senza Io, ha soltanto un’identità fisica.
Un po’ alla volta questo Io si struttura, grazie all’intervento degli altri corpi: del corpo astrale e del corpo mentale.
A mano a mano che questi altri corpi intervengono, l’Io si struttura, e ha necessità – per prendere vita, quanto meno «apparente» – di identificarsi con qualche cosa e, siccome si trova a vivere all’interno del piano fisico con vari individui – cosa ha bisogno di fare? Di avere un’immagine di se stesso che stia quanto meno alla pari degli altri individui; quindi, un’immagine non soltanto fisica ma completa e caratteriale di come lui è in confronto agli altri. Sappiamo che l’Io avverte la necessità di apparire «meglio» degli altri; ecco, quindi, che l’Io un po’ alla volta si costruisce quest’immagine di potenza per cui egli cerca sempre di mostrare la propria superiorità nei confronti degli altri individui incarnati che incontra. Diciamo, così, che l’immagine dell’Io non è altro che «un riflesso» dell’Io: un’illusione dell’illusione, poi, alla fin fine.
Il cambiamento dell’individuo nel tempo, grazie alle esperienze di vita, diventa percepibile allorché l’individuo riesce a fornire all’Io, riuscendo a vincere le sue resistenze al cambiamento, un’immagine aggiornata di se stesso. Questo è un meccanismo non solo inevitabile ma addirittura indispensabile per poter mantenere in movimento l’evoluzione dell’individuo. Senza questo meccanismo di continuo aggiornamento dell’immagine, l’Io non cambierebbe, quindi non riuscirebbe a cambiare neanche l’individuo.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima. Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

Giudicare e non giudicare

d-30x30Giudicare. Dizionario del

Il «giudicare» è stato spesso affrontato dalle Guide nel corso degli incontri. Esse hanno sempre sottolineato che «non giudicare» non significa non avere opinioni bensì prendere atto di quella che ci appare essere la realtà degli altri (o la nostra) senza, per questo, ritenerla una condizione immutabile, dal momento che ad ogni comprensione ciò che uno è si trasforma di conseguenza.
State ben attenti – ci hanno detto – a non lasciare il vostro giudizio in mano al vostro Io e osservate con attenzione quanto siete pronti a giudicare negativamente gli altri e, invece, a giustificare voi stessi.
Questo è esattamente il contrario di quanto dovremmo fare dal momento che i perché degli altri sono solitamente in gran parte al di fuori della nostra portata, mentre i nostri perché, se vogliamo, sono dentro di noi e possono, di conseguenza, essere individuati. Così, mentre non possiamo far comprendere agli altri i perché dei loro presunti errori, ci è sempre possibile arrivare a comprendere i perché dei nostri e arrivare ad attenuarli se non a risolverli completamente.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima, pag.137. Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

Illusione e osservazione di sé

d-30x30Illusione. Dizionario del

È facile, per l’uomo incarnato, cadere in balia delle proprie illusioni… a chi non succede?
Ma le illusioni finiscono, inevitabilmente, per portare alla sofferenza, talvolta anche molto grande, nel momento in cui si rimane disillusi.
Per questo motivo le Guide hanno esortato da sempre i partecipanti alle riunioni a cercare di mantenere il più intatta possibile la loro obiettività nell’osservare se stessi, gli altri e la vita, in modo da non perdere il senso della propria esistenza correndo dietro a pericolose illusioni.
Certo – affermano – anche il cadere in balia delle illusioni alla fine non sarà inutile ma sarà servito a fare imparare qualcosa, ma perché andarsi a cercare il dolore a tutti i costi?

Messaggio esemplificativo

Dolce sorella, in altro tempo ti parlai in modo che a te parve confuso; parlai delle illusioni e lasciai il discorso in sospeso, proprio perché sapevo che non mi avresti saputo comprendere subito, e allora non mi parve il caso di finire il discorso per non confonderti del tutto. Ma adesso che è passato parecchio tempo da quel messaggio, credo di poterlo continuare e quindi finirlo.
Io so benissimo, sorella, che dietro a quello che appare in tutta la sua fragilità c’è una bellissima sorella, forte e sicura, fiduciosa e serena, che sta aspettando.
Che cosa? Sta aspettando di liberarsi da quelle catene che tu le imponi per estrinsecarsi, per essere finalmente libera e congiungersi in un’unione indissolubile che appare ma che non è. Questa sorella – come ti ho detto – è forte e sicura, tanto che non cade sotto i colpi delle illusioni cadute. Illusioni che sei tu stessa a creare e – credimi – nessun altro lo fa, non esiste una seconda persona ché possa creare per te ciò che tu non vuoi venga creato. Illusione vuol dire credere in qualche cosa che non esiste e auto convincersi della sua esistenza; quindi vivere per ciò che si crede, comportarsi in modo tale da distaccarsi da una realtà razionale nella sua freddezza, ma irrazionale nella sua logicità. Quindi l’illusione è una creazione soggettiva e non oggettiva, e infatti non può mai venire dall’esterno.
Ma se è una reazione soggettiva vuol dire che esistono interiormente dei motivi precisi per cui quello stesso essere tende a nutrirsi di illusioni, piuttosto che di realtà, ed è soprattutto questa causa interiore, infida e sfuggente alla sua stessa comprensione, che deve essere eliminata.
Carissima sorella, questi miei discorsi sono solo teorici, nel senso che io ti sto esponendo della teoria; ti sto indicando uno dei modi migliori di essere, che tu puoi accettare o rifiutare, comprendere o meno, mettere in pratica o lasciar cadere. Vorrei chiarire una volta per tutte che questa non è una «lezione», quindi non c’è rimprovero, non c’è ironia, non c’è compassione: è solo l’esposizione teorica di qualcosa che fa parte di te ma che non riesce ad uscire.
È facile, sorella, porgere la mano a chi è capace di aggrapparvisi, è facile anche perché la spinta egoistica che muove – a volte – il braccio viene in questo modo alimentata e soddisfatta. Credimi: in genere si compie una scelta nell’offrire il proprio aiuto, si seleziona consciamente e inconsciamente – tra le persone che maggiormente riescono a muoversi in modo tale che il loro agire funge da ricompensa all’azione d’aiuto. E questo è sbagliato; è un grosso errore che il tempo, solo il tempo, sarà in grado di evidenziare; bisogna invece imparare ad aiutare chi sembra che rifiuti l’aiuto, chi non lo chiede espressamente né con le parole né con il comportamento, chi anche sembra avercela – per chissà quale ragione – con te; chi, creatura silenziosa, reagisce al proprio bisogno d’aiuto con atteggiamenti aggressivi e talvolta scostanti. Sono proprio quelle persone appena citate a dover smuovere in te qualcosa, a toccare le tue corde interiori affinché tu possa donarti a loro.
Mi sono reso conto che, molto spesso, queste nostre parole vengono fraintese e che, quando parliamo d’aiuto, voi – per motivi logici ed evidenti che derivano dalla vostra condizione di esseri umani – lo identificate con l’aiuto materiale. L’aiuto materiale invece, di per se stesso, può anche non avere importanza: per chi ha fame, infatti, a volte serve di più una parola di incoraggiamento che un pezzo di pane. Anche questo deve essere una meta del vostro miglioramento; e anche tu, dolce sorella, devi imparare a fare tue queste teorie; quando avrai imparato a rivolgere il tuo sorriso, la tua dolcezza, la parte migliore di te, insomma, a quelle persone che sembrano non accettarti, starai meglio, evitando così di cadere nelle illusioni e quindi, poi, nella solitudine.
Ho detto «sembrano», perché un conto è ciò che appare e un conto è ciò che è, e vi è un’enorme differenza tra le due cose. La realtà che tu vivi è apparente e non vera, perché tutto ciò che osservi, sperimenti o impari è vittima della tua interpretazione soggettiva, cosicché quanto tu vedi potrebbe essere verità ma non è detto che lo sia. Per questo meccanismo, certe persone ti possono «apparire» in modo negativo, perché urtano nel tuo intimo qualcosa di non ancora libero dall’egoismo dettato dall’Io, facendoti reagire in modo tale da impedirti di vedere con oggettività la realtà che, quindi, ti «appare». Tutto questo va superato e non bisogna mai trovare delle attenuanti adducendo motivi del tipo: «però anche lui/lei potrebbe comportarsi in modo diverso».
È sbagliato fare questo ragionamento, in quanto il solo pensiero indica quanto siano ancora alte le dosi di egoismo e ti dirò, per darti una spiegazione a questo discorso, che bisogna essere tanto severi con se stessi quanto indulgenti con gli altri. Dare vero aiuto agli altri è offrire spassionatamente se stessi; non aspettare una ricompensa né tanto meno il ringraziamento; non rammaricarsi se l’aiuto non viene accettato; non soffrire se anche si corre il rischio di perdere un rapporto (perdita sempre relativa e momentanea); non rendersi neppure conto di aiutare e non soffermarsi a pensare che per farlo si è dovuto scavalcare se stessi.
Parliamo adesso della sofferenza fisica ed anche morale che ti è stata, così spesso, compagna di vita. Capisco benissimo le difficoltà che ha comportato per la tua esistenza umana, sorella, ma la sofferenza e il dolore – come sai – servono all’individuo affinché migliori. Potrei avvilirti, a questo punto – ma spero che così non sia – dicendoti che la sofferenza, sia essa fisica o morale, è l’ultima carta che viene giocata quando un individuo non vuole o non ha voluto comprendere certe verità. Per consolarti, comunque, ti dirò che potrebbe anche essere la conseguenza di una tua vita precedente.
Da queste premesse, tra l’altro assai generali, ora ti dico: spogliati, sorella, dall’esteriorità nemica numero uno di te stessa, ma non dell’esteriorità come tu la puoi intendere, bensì di quell’esteriorità sottile e perfida che si insinua per impedire di comprendere. Fa il piccolo sforzo di allontanarla da te e medita, veramente e con serenità, sul perché di tanta, tanta sofferenza. Cerca di non cadere nel vittimismo, nemico numero due per la tua comprensione, e non lasciar cadere la speranza. Trova la vera origine di tutti i tuoi mali e del tuo quasi disperato bisogno di affetto; solo così riuscirai a lenire la tua sofferenza morale, e anche quella fisica. Cerca di capire che la sofferenza e il tuo bisogno d’affetto sono interdipendenti, e questo è un dato di fatto innegabile; cerca di scorgere i motivi e da sola ti renderai conto della verità, che non è poi così lontana dai discorsi che ti ho appena fatto.
Sorella, tu hai la verità a portata di mano purché tu voglia scorgerla, e hai i mezzi per comprendere perché la tua sofferenza morale e fisica ti appare – e ancora una volta ho detto «appare» – più grande di quanto sia in realtà, nella realtà oggettiva. Cerca di arrivare a comprendere che non è giusto fare della propria sofferenza un modo per sentire gli altri vicini; questo lo dico per te, poiché la prima a soffrire sarai proprio e soltanto tu. Gli altri, seguendo il corso della propria esistenza, saranno in grado di dimenticare tutto questo, mentre tu non vi riuscirai e potrebbe restare per te un peso invece di un’esperienza positiva.
Cerca anche di vedere quanto il «rifugiarsi nel dolore» possa essere un modo per sfuggire la realtà e quindi, in un certo senso, chiudersi in una nuova e dolorosa illusione. Una realtà – o, meglio, una verità – che dovrebbe essere accettata nella sua totalità a mano a mano che il tempo passa, che i giorni fuggono via, che gli anni pesano sul proprio corpo fisico.
Sorella, questa volta ti ho parlato nel modo più aperto possibile per aiutarti, per infonderti fiducia, per darti speranza, per vederti serena in ogni momento, anche quando le tue pene cercheranno di impedirti di volgerti intorno e di abbracciare il creato anche solo con lo sguardo e sentirlo finalmente tuo. Fabius

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima, pagg.133-137. Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

 

Felicità e infelicità

d-30x30Felicità e infelicità. Dizionario del

Riuscire a definire la felicità (o l’infelicità) non è una cosa facile… questo accade perché sono condizioni strettamente collegate a stati dell’Io e, essendo i bisogni dell’Io estremamente variabili da persona a persona ecco che anche il sentirsi felici o infelici è difficilmente uguale per persone diverse.
Ci è stato insegnato che la condizione ideale per tutto ciò che esiste è la condizione di equilibrio, condizione a cui tende tutto il Creato, dal microcosmo al macrocosmo, dall’essere umano all’universo intero: per avere un’idea di questo concetto di equilibrio basti pensare al sistema solare nel quale diversi corpi di diverse grandezze che si muovono a diverse velocità intorno al sole devono la loro stabilità all’equilibrio che si è formato fra le varie forze che tengono uniti il sole, i pianeti e i satelliti che partecipano all’esistenza stabile dell’intero sistema solare.
Ciò che l’uomo incarnato definisce «felicità» o «infelicità» non è, invece una situazione di equilibrio, bensì di squilibrio, come si può notare osservando con quanta facilità la felicità o l’infelicità tendono a sparire col mutare delle condizioni interiori alle quali sono legate.
L’uomo veramente felice, ci ricordano le Guide, è quello che si sente in equilibrio con l’intera realtà a cui appartiene e, di conseguenza, può essere soltanto quello che ha ormai quasi finito l’evoluzione della propria coscienza e il raggiungimento del pieno sentire.

Messaggio esemplificativo

Fratello, fratello mio, questa volta mi rivolgo a te non per portare una mia solita lamentosa preghiera ma per dirti che sono felice. Già, io, Federico, oggi sono felice ma non riesco a comprendere la ragione di questa felicità. Infatti non vi è nulla di diverso, non è accaduto nulla che possa avere alimentato questo stato che mi fa sentire così felice. Immagino che la felicità possa essere definita come una condizione interiore che ti accompagna nel quotidiano, nelle azioni più comuni le quali magari, in altri momenti, venivano fatte in malo modo mentre, quando uno si sente felice, vengono fatte con gioia. Ecco, questo mi dà un po’ da pensare e ti chiedo, sicuro della tua infinita pazienza, di cercare di spiegarmi che cos’è questa felicità che oggi mi fa sentire così radioso, mi fa vedere tutto così bello, tutto così allegro. Grazie, fratello, grazie per le parole che saprai dirmi. Federico
Un momento, un momento, non rispondete, perché, a questo punto, siamo tutti in coda all’amico Federico per fare anche noi delle domande, che poi portano tutte alla stessa domanda, alla fin fine: cos’è la felicità?
Eh sì, perché tutti noi abbiamo cercato la felicità: in fondo, cercare la felicità sembra un po’ l’obiettivo di tutta l’esistenza, della vita di ognuno di noi. Io, per esempio, ho cercato la felicità nel tentativo di essere libera e per questo non mi legavo con nessuno, non mi lasciavo comandare da nessuno, ero sempre ribelle, prepotente, qualche volta maliziosetta, un po’ ladruncola; tutto per mantenere questa libertà che vedevo come un miraggio davanti a me. Però poi, alla fin fine, continuavo a cercare la felicità, quindi vuol dire che quello che io pensavo potesse darmela non me la dava; e allora anch’io, come Federico, non posso far altro che chiedere: cos’è poi, in fondo, la felicità? Zifed

Io ho pensato che la felicità potesse derivare dall’appagamento della mente, e così, nel corso della mia vita ho fatto in modo da dare continuamente cibo alla mia mente, che desiderava trovare questa condizione che anelava ma che, tuttavia, non le apparteneva. Ma, malgrado avessi la possibilità di poter in continuazione fornire nuovi elementi alla mia analisi, alla mia ricerca di comprensione, allorché sono morto sono morto infelice. Allora, fratelli miei, cos’è… cos’è la felicità? Andrea

Dal canto mio ho cercato la felicità in molte direzioni e, per un lungo periodo di tempo, ho pensato che la felicità fosse legata principalmente ai rapporti d’amore con le altre persone… anche se all’epoca, forse, la mia concezione di «rapporto d’amore» era alquanto esageratamente frammista alla sessualità. Ecco così che molte persone io ho amato, sperando sempre che l’ultimo amore fosse l’amore finale, quell’amore che finalmente mi avrebbe reso felice; ma non felice per l’accettazione da parte del mondo intorno a me, non felice perché i miei comportamenti magari mi mettevano sulla bocca di tutti (chi mi ammirava, chi mi odiava) ma felice perché amavo ed ero amato. Ma forse, ahimè, non era veramente amore il mio, o forse quello che io pensavo fosse amore non dà la felicità. E allora vi chiedo, fratelli, come cercare, come alimentare, come trovare, come afferrare tra le dita la felicità senza che essa sfugga? Billy

Io ho cercato la felicità… sempre, praticamente sempre! Ma la cercavo così come una stupida come in realtà ero, alla fin fine, perché dicevo «Voglio essere felice» ma non sapevo cosa intendevo dire con «essere felice»! Io sapevo che dovevo vivere, dovevo fare, dovevo agire, sì, cercare di essere allegra, divertirmi, contattare altre persone, gioire magari per un bel quadro, per un bel disegno, quel qualcosa di culturale, di artistico… ma non c’era niente di particolare per cui io potessi dire: «Ecco, quello mi potrebbe dare la felicità», e così io sono morta senza essere felice.
Io mi chiedo: come è possibile morire felici e cercare la felicità se non si sa che cos’è la felicità? Sembra un grande tormentone che continua a girare per tutte le vite che stiamo facendo, una dopo l’altra, una dopo l’altra senza trovare una soluzione e poi, magari, immagino che la soluzione sarà lì, semplicissima, facilissima; però, miei cari amici, ditemela… perché io proprio continuo a non vederla! Ah, ho certamente ancora tante vite davanti! Margeri

Maremma! … Io la felicità la trovavo nel bicchiere di vino bono, magari la mi’ moglie voleva mica che bevessi tanto.. eh, però quel bicchier di vino ‘bono, fresco di cantina, mi faceva capire che anche la maremma non era mica tanto male, eh! Anonimo

E voi, voi figli, tutti voi figli che ricercate la felicità, e vi disperate, e soffrite, e molte volte sciupate le cose belle che vi capitano e delle quali non sapete far tesoro dentro di voi perché non vi accontentate di ciò che avete…
Facile, figli, sarebbe dirvi che per essere felici basta essere contenti di ciò che si ha, ma non può essere così; non può essere così semplice la risposta, in quanto fa proprio parte della necessità evolutiva dell’individuo il non essere quasi mai contento di ciò che possiede o, quanto meno, il limitare la sua contentezza a un breve periodo per volgersi, poi, ad altre nuove mete, altri nuovi traguardi che gli fanno sembrare l’appagamento avuto fino a poco tempo prima soltanto un punto di passaggio, ormai superato e non più appagante. Moti

Questo, creature, finisce col diventare una sorta di ricerca, senza fine apparente, verso qualcosa che appare chimerico, difficile da trattenere, qualche cosa che però fornisce, indubbiamente, una spinta all’individuo in quanto anche la semplice ricerca della felicità induce l’individuo a porsi domande, a muoversi, ad agire, a interagire con gli altri e, quindi, a fare esperienza, accumulare comprensione e via e via e via muovendosi sulla scena dell’evoluzione fino ad arrivare all’abbandono della reincarnazione.
La risposta, apparentemente lontana, è invece talmente semplice che, come tutte le cose semplici e immediate, sfugge all’attenzione di chi osserva. Il fatto è che – ironia della sorte, ironia del Grande Disegno! – colui che è veramente felice non se ne accorge! L’individuo veramente felice è colui che riesce a esprimere se stesso nel suo ambiente, è colui che riesce a manifestare la sua interiorità in modo fluido, senza intoppi, senza blocchi interiori emotivi e di energia, è colui, insomma, che riesce veramente a essere se stesso; anche se, magari, per poter convivere con gli altri individui, fa sì da mettersi consapevolmente (è questa la differenza dal mascherarsi dell’Io) delle maschere per poter appartenere al mondo fisico in cui egli vive.
La felicità quindi, creature, non sta nel possedere ricchezze, non sta nell’aver un bel corpo fisico, non sta nell’avere tanti amori, non sta nell’avere tanti tesori, non sta in nulla di ciò che voi osservate intorno a voi e sul quale, malgrado questo, voi proiettate la vostra ricerca di felicità. In realtà, la felicità la potete trovare soltanto dentro di voi e, allorché la troverete, allorché vi apparterrà in quanto voi finalmente avrete un punto evolutivo tale per cui riuscirete a far fluire spontaneamente e con continuità voi stessi, non vi accorgerete di questa felicità perché essa sarà una condizione permanente, spontanea e semplice. Scifo

Dal volume del Cerchio Ifior, Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima, pagg.129-133. Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

Fare da specchio

d-30x30Fare da specchio. Dizionario del

Sappiamo che, quando siamo immersi nella materia fisica, abbiamo una vita di relazione con le altre persone che ci sono attorno; questo porta a constatare che quello che viviamo serve a noi ma serve anche alle altre persone, non siamo mai chiusi soltanto in noi stessi.
Questa constatazione, però, potrebbe trarre in inganno l’osservatore che osserva la propria vita perché certamente noi diamo qualcosa all’altro e certamente l’altro dà anche qualcosa a noi, però noi dell’altro non riusciamo che raramente a vedere la sua realtà, la sua verità, ma vediamo normalmente nell’altro «quello che vogliamo vedere».
Per esempio: quante volte incontrate una coppia di innamorati e, osservate: «Ma come fa quella persona ad essersi innamorata di quell’altro così brutto?!». Ora, come può accadere davvero una cosa del genere? Spesso, vi è anche attrazione fisica tra queste due persone! E, se vi è questa attrazione fisica, come è possibile che delle persone fisicamente accettabili possano innamorarsi di una persona non attraente fisicamente? A volte ciò accade perché si riesce a vedere la bellezza interiore dell’altro, ma la maggior parte delle volte, invece, accade che in realtà una delle persone proietta sull’altro quello che vuol vedere e vede solo quello che vuol vedere; proietta, cioè, sull’altra persona i propri bisogni e i propri desideri; ed ecco che l’altra persona, quindi, diventa uno specchio di quello che egli è.
Questa è una bellissima possibilità che ci viene offerta perché se non si riesce ad osservare se stessi e a comprendersi e ci si rivolge all’esterno, si avrà comunque il modo per arrivare al «conosci te stesso»dal momento che, anche se non si guarda se stessi direttamente, osservando gli altri e cercando di capire gli altri – quelli che ci stanno accanto – si finisce per acquisire elementi su se stessi, dato che ciò che si vede nell’altro, e che magari si critica, è qualche cosa che ci colpisce perché risuona in noi, è qualcosa che si può riconoscere anche in noi e quindi è una proiezione nostra, ci appartiene. Molte volte, in persone che ci stanno accanto riconosciamo soltanto certi difetti e non altri; sembriamo ciechi ai difetti anche grossolani che magari quella persona possiede, eppure proprio non li vediamo; non è che facciamo in modo da non vederli: proprio non li vediamo perché vi sono altri aspetti che ci colpiscono di più – in quanto ci ricordano qualcosa di noi stessi – che attirano la nostra attenzione, per cui quegli altri aspetti non li osserviamo neppure.
Questo significa che ogni individuo incarnato può risalire a delle cose di se stesso vedendo quali sono le sue proiezioni sulle altre persone.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima, pag. 128-129, Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

Fare ciò che si sente

d-30x30Fare ciò che si sente. Dizionario del

«Fare ciò che si sente» è uno degli interrogativi più grossi che l’individuo si trova a dover affrontare, perché se è vero che è giusto agire seguendo il proprio sentire, è altrettanto vero che ben difficilmente, a questo livello evolutivo, si può aver la certezza che ciò che si sente provenga veramente dal proprio «sentire».
Generalmente si usa la frase «fa’ ciò che senti» quando un individuo si trova di fronte alla difficoltà di compiere delle scelte particolarmente importanti; mentre, per quanto riguarda il quotidiano e le piccole esperienze di tutti i giorni, viene quasi dato per scontato che un individuo si comporti in maniera conforme al proprio «sentire», ma in realtà non sempre è così anzi, questo non accade quasi mai a causa delle varie influenze che subiamo e ai condizionamenti cui siamo sottoposti, sia interni (l’Io) che esterni (ambiente e società).
Soltanto verso la fine delle incarnazioni, quando il quadro del sentire è quasi completamente strutturato, sarà più facile fare veramente ciò che si sente più che quello che «si pensa» di sentire o si ritiene di «dover» sentire.
Nell’attesa di arrivare a quel punto non ci resta che operare su noi stessi per permettere che le condizioni perché ciò avvenga si avverino, osservando noi stessi e il nostro comportamento e cercando, per quanto è possibile, di essere sinceri con noi stessi.

Messaggio esemplificativo

Se osserviamo un individuo qualsiasi nel corso di una giornata qualunque della sua esistenza, riusciremo a vedere come in molte occasioni, nell’arco delle l6-18 ore di veglia di una sua giornata, egli vada contro quello che invece sentirebbe di fare.
Mettiamo che sia una cupa e umida giornata autunnale, una di quelle che sicuramente non contribuiscono a farti alzare di buonumore, ecco che al momento del risveglio egli comincia a dover andare contro se stesso soffocando il desiderio di restarsene a letto al caldo invece di alzarsi per raggiungere il proprio posto di lavoro.
Primo sforzo: se avesse fatto quello che sentiva di fare non si sarebbe alzato, avrebbe continuato a dormire e forse anche a poltrire sotto le coperte del suo caldo e morbido letto, ma il senso del dovere lo ha spinto ha trovare il coraggio di alzarsi ed iniziare così la sua giornata.
Mettiamo che la nostra creatura abbia un’attività lavorativa che lo ponga in continua relazione con gli altri.
Già alzatosi di cattivo umore «perché a letto si sarebbe sicuramente stati meglio» ecco che egli, poverino, deve affrontare le persone che a lui si rivolgono, ed ancora una volta lo vediamo «costretto» a fare buon viso a cattivo gioco non attribuendo agli altri, che hanno in qualche modo bisogno di lui, la causa del suo malumore… Ancora una volta, il senso del dovere lo spinge ad essere il più cordiale e disponibile possibile nei suoi rapporti interpersonali.
Secondo sforzo: se avesse fatto quello che sentiva di fare non si sarebbe posto più di tanto il problema di essere cordiale e disponibile con gli altri e non avrebbe esitato più di tanto a mandare al diavolo coloro che gli apparivano particolarmente noiosi.
Lo troviamo, adesso, dopo aver accumulato già un po’ di tensioni a causa della «levataccia» e degli sforzi di essere (e non apparire) cordiale con gli altri, di fronte ad un caso particolarmente difficile: gli si para infatti davanti una persona (di quelle con cui ti rendi subito conto che è impossibile comunicare o instaurare un rapporto di qualsiasi tipo) che riesce in un fiato a «mandarlo in bestia» ad un punto tale che ci vuole tutta la sua forza di volontà per controllarsi nelle reazioni.
Terzo sforzo: se avesse fatto quello che si sentiva di fare non avrebbe dato sfogo alle sue reazioni in quanto non avrebbe neanche permesso a quell’individuo di esasperarlo al punto da fargli perdere la pazienza; ecco che, ancora una volta, il suo senso del dovere lo ha spinto ad accettare anche questa situazione cercando di compensarla con ciò che di positivo e gratificante gli capiterà nel corso della giornata.
E così, tra alti e bassi, trascorre la sua giornata lavorativa, accumulando al suo attivo una decina di sforzi dello stesso tipo dei precedenti, fino ad arrivare a sera, al rientro a casa, non totalmente soddisfatto, ma comunque neanche particolarmente deluso o affaticato, tuttavia con il desiderio di trascorrere una tranquilla serata facendo ciò che più gli aggrada fare. Immaginiamo ancora che il nostro individuo abbia famiglia, abbia dei figli. Ecco che lo vediamo in uno dei momenti più importanti per una famiglia: l’ora di cena, con tutti riuniti attorno al tavolo, pronti a scambiarsi le esperienze che ognuno ha avuto nel corso della giornata appena trascorsa. Immagine forse un po’ troppo patriarcale, forse anche un po’ démodé, ma perdonatemi… ognuno è figlio del proprio tempo!
Finalmente rilassato ed a proprio agio, confortato dall’idea che da lì a poco potrà finalmente dedicarsi al suo hobby preferito, in modo da finire nel modo migliore una giornata così e così, ecco che ad uno ad uno i componenti della sua famiglia, dal partner ai figli, cominciano a sciorinargli le loro problematiche, le loro quotidiane frustrazioni, ed ognuno di essi, a modo proprio, gli fa una tacita richiesta di aiuto, o quanto meno di una parola di conforto.
Penultimo sforzo: se il nostro amico avesse fatto quello che sentiva di fare, ecco che avrebbe fatto orecchi da mercante o avrebbe raccontato le sue frustrazioni quotidiane insaporendole anche un po’ in modo da deviare l’attenzione degli altri su quelli che erano stati i suoi problemi, invece ancora una volta il suo senso del dovere lo spinge a pensare che, tutto sommato, quanto da lui vissuto nelle ore precedenti era ben piccola cosa di fronte agli occhi lucidi di uno dei suoi figli che ha preso un inaspettato brutto voto a scuola, o alla frustrazione del partner che è stato aspramente rimproverato sul posto di lavoro, o all’altro figlio che, adolescente, soffre di difficoltà di comunicazione con i suoi coetanei, cosicché si sente solo e inadeguato.
E così, lo troviamo a ricercare al proprio interno una parola di conforto e di incoraggiamento per tutti… Intanto il tempo passa e l’idea di poter dedicare quel poco di tempo che gli e rimasto al proprio hobby si affievolisce sempre più… tuttavia un’altra idea fa capolino: c’è sempre la possibilità di scaricare le tensioni accumulate nel corso della giornata in un altro modo. Lo ritroviamo quindi nuovamente a letto, come lo avevamo trovato al mattino, a fianco del suo partner che, terribilmente stanco e amareggiato, gli augura una frettolosa buonanotte.
Ultimo sforzo: il nostro amico spegne la luce e si addormenta! Se avesse fatto quello che si sentiva di fare…
Ecco, mi rendo conto che gli esempi portati possono sembrare anche banali, invece non lo sono, o per lo meno non lo sono relativamente al punto in cui vi voglio portare. Non concluderò questo messaggio sciorinandovi chissà quale teoria, ma vi farò delle domande alle quali sarà vostro compito fornire una risposta. È chiaro che il non volersi alzare dal letto, il non aver voglia di essere cordiale e disponibile con tutti, etc. etc. sono movimenti dell’Io, ma lo sforzo, il costringersi a fare qualcosa che in quel momento il vostro Io non vorrebbe fare, chi lo fa? Che significato ha? Da dove proviene? Ho parlato, in ogni esempio, di «senso del dovere», ma ciò che comunemente viene chiamato in questo modo che cos’è in realtà? Potrebbe essere un «sentire» che traspare, che supera i limiti e le barriere poste dall’Io dell’individuo e che spinge ad un determinato tipo di comportamento, e che l’Io deve giustificare in qualche modo, chiamandolo appunto «senso del dovere»?
Il fatto di mettere in ogni occasione, anche se a fatica, da parte se stessi e i propri bisogni, non potrebbe significare che il «sentire» si sta facendo strada, o invece pensate che quando una certa azione viene compiuta in perfetta armonia col proprio «sentire» essa debba essere necessariamente fluida e spontanea? Francesco

Il «fare ciò che si sente» viene facilmente confuso col «fare ciò che ti va di fare» e c’è anche chi può dire: «È giusto fare ciò che a uno va di fare perché in questo modo può comprendere quello che deve comprendere».
Questo è il passo a cui potrebbe arrivare la persona che segue l’insegnamento applicando – senza tener conto di tutto l’insegnamento – le cose che sono state dette nell’insegnamento filosofico e morale; però voi vi rendete conto, creature, che non sempre è veramente possibile e giusto fare ciò che si sente di fare, a prescindere dal fatto che ciò che si sente sia dovuto al sentire o, come accade di solito, all’Io. Vi deve essere, allora, una discriminante di qualche tipo a cui fare riferimento, in modo da poter adattare il proprio comportamento a quella che è la manifestazione del comportamento personale all’interno della famiglia, della società in cui uno vive.
Ovviamente, questa discriminante non può essere che l’intenzione; ma l’intenzione non è così facile da conoscere, quindi non può essere un motivo abbastanza sicuro per poter fare da discriminante nel modo di comportarsi dell’individuo; se io fossi sicuro sempre delle mie intenzioni, certamente farei sempre per il meglio quello che devo fare, giusto?
D’altra parte, se io conoscessi tutte le mie intenzioni, probabilmente non mi incarnerei neanche più, perché vorrebbe dire che ho compreso tutto quello che dovevo comprendere di me stesso e quindi della Realtà. La cosa è molto semplice: è giusto seguire gli impulsi e i comportamenti di ciò che «ci sembra» di sentire (lasciamo questa parentesi aperta) sempre che non ci si renda conto che il nostro agire «sentitamente» non sia scopertamente, evidentemente, senza ombra di dubbio, un danno per qualcun altro; ovvero il mio «fare ciò che sento» deve avere il suo limite nel «non fare dei danni agli altri». Scifo

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima, pag. 123-127, Edizione privata


Il tema del Fare ciò che si sente viene riportato anche nella parte seconda del secondo volume a pagina 26, analizzato, in particolare, in relazione all’evoluzione personale.

«Fare ciò che si sente» è un concetto che investe l’individuo nella sua totalità e quindi è giusto esaminarlo dai vari punti di vista in cui può essere esaminato, ad esempio dal punto di vista dell’evoluzione, in quanto, senza dubbio, il concetto di «fare ciò che si sente» è in stretta, strettissima relazione con quella che è l’evoluzione dell’individuo.

Messaggio  esemplificativo

Molte volte il «fare ciò che si sente» – come è stato detto e ripetuto – viene confuso col «fare ciò che ti va di fare» e c’è anche chi può dire: «È giusto fare ciò che a uno va di fare perché in questo modo può comprendere quello che deve comprendere». Questo è il passo a cui potrebbe arrivare la persona che segue l’Insegnamento applicando – senza tener conto di tutto l’Insegnamento – le cose che sono state dette nell’Insegnamento filosofico e morale; però voi vi rendete conto, creature, che non sempre è veramente possibile e giusto fare ciò che si sente di fare, a prescindere dal fatto che ciò che si sente sia dovuto al sentire o, come accade di solito, all’Io.
Vi deve essere, allora, una discriminante di qualche tipo a cui fare riferimento, in modo da poter adattare il proprio comportamento a quella che è la manifestazione del comportamento personale all’interno della famiglia, della società in cui uno vive.
Immagino che potreste dire che bisognerebbe conoscere l’intenzione.
Ma l’intenzione non è così facile da conoscere, quindi non può essere un motivo abbastanza sicuro per poter fare da discriminante nel modo di comportarsi dell’individuo; se io fossi sicuro sempre delle mie intenzioni, certamente farei sempre per il meglio quello che devo fare. D’altra parte, se io conoscessi tutte le mie intenzioni, probabilmente non mi incarnerei neanche più, perché  vorrebbe  dire che ho compreso tutto quello che dovevo comprendere di me stesso e quindi della Realtà.
La cosa è molto semplice ed era già stata accennata in precedenza: è giusto seguire gli impulsi e i comportamenti di ciò che «ci sembra» di sentire (lasciamo questa parentesi aperta) sempre che non ci si renda conto che il nostro agire «sentitamente» non sia scopertamente, evidentemente, senza ombra di dubbio, un danno per qualcun altro; ovvero il mio «fare ciò che sento» deve avere il suo limite nel «non fare dei danni agli altri».
È un po’ lo stesso concetto della libertà: dov’è che finisce la libertà dell’individuo? Esattamente dove comincia quella di un altro. Lì c’è quella parete sottile che l’individuo che vive in una società deve tener presente – condizionamenti o no, convenzioni o no – perché la propria libertà non vada a nuocere alla libertà di un altro; perché tutti quanti abbiamo diritto ad avere la stessa possibilità di libertà. Allo stesso modo, si può dire che tutti gli individui incarnati hanno teoricamente bisogno di poter esprimere ciò che sentono. Ma vi immaginate voi che mondo sarebbe se tutti veramente facessero ciò che sentono di fare? Pensate a una società agli inizi dell’evoluzione della razza, quindi di bassa evoluzione: se tutti facessero ciò che sentono di fare, ben pochi sopravvivrebbero. Questo significa che vi devono essere, comunque sia, dei freni, degli apparati di qualche tipo che possano permettere all’individuo di esprimere se stesso e ciò che sente entro, però, certi limiti, per non nuocere agli altri.
Ora, questi freni, nei casi di bassa evoluzione, sono evidentemente, principalmente, costituiti da cosa? Dalle norme sociali e dalle norme giuridiche e – perché no? – persino dalle norme religiose che, proprio in questa condizione di evoluzione dell’individuo trovano la giustificazione della loro  esistenza.
Voi, attualmente, specialmente i più giovani fra quelli incarnati, siete tentati a fare di ogni erba un fascio e mettere da parte come obsoleti, inutili, o persino fastidiosi o dannosi i condizionamenti sociali, le norme sociali, le religioni; però tenete presente che tutti questi fattori che attualmente, per qualche motivo, hanno perso parte della loro valenza e della loro positività, sono nati, necessariamente, sotto la spinta di determinati impulsi provenienti  direttamente  da Chi tutto il Disegno ha creato, per far sì che l’evoluzione potesse svolgersi, per far sì che esistessero determinate condizioni in cui l’individuo, malgrado la sua bassa evoluzione, non finisse in massa per costituire un blocco dell’evoluzione dell’intera razza; tant’è vero che, specialmente nei primi tempi dell’incarnazione della razza, vi è un grande affluire di incarnazioni di individui di evoluzione superiore che possano dare corpo a quelle leggi etiche, morali e sociali, a quei comandamenti necessari e indispensabili affinché quello che ho detto prima si avveri, affinché l’evoluzione cioè della nuova razza che si sta incarnando possa comunque andare avanti senza subire interruzioni. Siete d’accordo su questo?
Quando si passa a un’evoluzione superiore – non ancora la più alta evoluzione, ma un’evoluzione media, quella che si suppone abbiate tutti voi – le cose indubbiamente si fanno molto più complicate: l’Io è più sottile, è più rarefatto, non ragiona più per grandi movimenti, ma ragiona per sfumature; il suo egoismo non è più così (nella maggioranza dei casi) evidente, sfacciato, arrogante, ma molte volte diventa furbo, insinuante, cerca di ottenere quello che gli interessa magari con l’inganno o facendo finta di volere qualcos’altro; quindi la discriminante di cui parlavamo non può più essere applicata molto facilmente, ma deve essere applicata consapevolmente dall’individuo allorché si rende conto – e, con l’evoluzione che possiede a questo punto, può rendersene conto – che il suo comportamento può nuocere agli altri e ciò non va bene.
È in questo punto, in questa linea mediana dell’evoluzione della razza, che l’individuo deve fare il passo che lo porta ad avvicinarsi agli altri, che lo porta a considerare che il pianeta non è tutto suo ma appartiene a tutti quelli che lo popolano, e che con tutte queste persone lo deve condividere, e che, quindi, a quel punto, deve trovare un elemento di equilibrio tale che permetta non soltanto a sé ma anche agli altri di poter esplicare ciò che sente e i propri desideri di libertà personale.
Vi è poi l’individuo evoluto, quello che è a un passo dall’abbandono della famosa «ruota delle nascite e delle morti», colui che tutto   ha ormai compreso, o quasi tutto; gli mancano soltanto quelle due o tre sfumature per arrivare  finalmente  ad  abbandonare  l’incarnazione: non avrà bisogno di applicare discriminanti perché, automaticamente, grazie alla sua comprensione,  al sentire  che fluisce,  farà  ciò che sente; ma non più ciò che sente l’Io, bensì ciò che sente la sua coscienza.
Si troverà in un mondo di persone dall’evoluzione molto inferiore, dalla comprensione magari molto inferiore, e quindi nella condizione di dover essere d’esempio e, indirettamente, col proprio esempio, da maestro agli altri, e quindi cercherà di farlo nella migliore maniera possibile.
L’individuo dall’alta evoluzione, direte voi, «non si pone neppure il problema»… ma siete davvero sicuri di quanto state dicendo? Se il suo sentire è aver imparato il «non rubare», siete davvero sicuri che il suo sentire, comunque sia, fluirà in maniera tale che egli non penserà nemmeno di tenersi quei soldi?
Dovete ricordare che l’individuo incarnato, per quanto evoluto sia, è incarnato perché qualcosina deve ancora comprendere, sta facendo una sua vita che, magari , per … che so io … esigenze karmiche contempla, per fare un esempio, un figlio cieco che, con un’operazione adatta, potrebbe riacquistare la vista. La valigetta contiene 20 milioni, e – guarda caso – è proprio la cifra che potrebbe far recuperare la vista al figlio dell’uomo evoluto, il quale, d’altra parte, poiché non ha un grosso Io, non è riuscito a diventare un Berlusconi, ma è magari semplicemente un impiegato postale, che con difficoltà riesce a sbarcare il lunario e quindi difficilmente può trovare 20 milioni in più per pagare l’operazione agli occhi a suo figlio. Potrebbe essere una situazione normale, questa, no? Ma l’individuo è evoluto e allora, secondo voi, come reagisce di fronte a questa possibilità che l’esistenza gli mette davanti di avere i 20 milioni a disposizione? Qual è il suo senso del sentire: quello che gli dice che deve aiutare il figlio a riprendere la vista o quello che gli dice: «Non posso aiutare mio figlio a riprendere la vista usando i soldi di un altro»?
Non c’è dubbio che la scelta finale non possa che essere di non appropriarsi di quel denaro, però pensate che non abbia dubbi? Pensate che per un attimo non lo possa cogliere il pensiero «Questi soldi mi fanno comodo e li tengo»? Quindi vedete, creature, che anche con un’alta evoluzione, allorché si possiede un Io, anche la persona evoluta per un attimo può avere il dubbio di commettere qualche cosa che va contro la sua comprensione. Certamente poi, alla fine, com’è nella logica della Realtà, la comprensione raggiunta ha la meglio sulle pulsioni dell’Io perché, la spinta della vibrazione emanata dall’akasico è tale che l’Io soccombe, per forza di cose, a questa spinta che arriva piuttosto pura, piuttosto pulita alla coscienza dell’individuo incarnato.
Ricordate che, comunque sia, l’individuo incarnato un Io, lo possiede, deve possederlo per forza perché, se non possedesse un Io, non potrebbe neanche riuscire a barcamenarsi, a vivere all’interno della società e a contatto con gli altri. Non possedere l’Io significa non mostrare un carattere, una personalità, non essere capaci di interagire con gli altri; l’Io è necessario, comunque sia, finché si è incarnati, perché costituisce un mezzo di interazione con la realtà fisica in cui ci si trova a vivere l’esperienza.
Quindi, come vedete, anche applicare la discriminante in molti casi non è facile; tant’è vero che, come ho detto, questa discriminante può essere usata soltanto quando si ha già un certo livello evolutivo. L’importante è cercare di capire quand’è giusto fare ciò che si sente e quando non è giusto e cercare di esaminare con attenzione le conseguenze sugli altri del proprio comportamento; mettere da parte per un attimo le conseguenze su se stessi e poi cercare di comportarsi nel modo migliore per far soffrire l’altro (o l’altra) il meno possibile.
Certo, questo vorrà dire prendersi la responsabilità di agire, ed è questo che spaventa l’individuo più di ogni altra cosa. Per l’Io, la cosa migliore sarebbe poter sempre andare avanti nella stessa vita, avendo un rapporto – vero o falso che sia, ma un rapporto da mostrare agli altri – far finta che questo rapporto sia bellissimo, che la propria vita sia meravigliosa, che tutti gli amici siano persone stupende, che i figli siano gratificanti, che la vita che stanno conducendo stia dando loro tutto il massimo che può dare; mentre, guardando con attenzione, magari non è così. Quello che è importante – ripeto – è essere attenti a queste cose e cercare di comprendere quando veramente è giusto seguire ciò che si sente, cercando di non farsi mascherare o travisare da quelli che sono i desideri dell’Io … che, pur non esistendo, però è un gran  rompiscatole!
Qua c’è un altro problema, che sottintende una cattiva comprensione del concetto di Io: voi pensate che l’Io sia il demonio; niente di più sbagliato. L’Io non è né buono né cattivo; l’Io semplicemente esiste come risultante delle varie forze che arrivano all’individuo. Questo non significa che qualsiasi cosa l’Io vi induca a fare sia sbagliata. Questo forse non riuscite a capire! Voi partite dal preconcetto che, comunque sia, quello che l’Io fa è demoniaco e va combattuto; non è così!
Ci sono due aspetti da considerare in questa situazione: intanto molte cose costruite dall’uomo nel corso della sua storia, molte delle cose più meravigliose e più belle, più piene d’amore e via dicendo, sono state costruite sotto la spinta dell’Io; secondariamente, dovete considerare che quello che è importante da riconoscersi è quella che è la vostra motivazione, è la motivazione dell’Io, non l’azione; perché l’azione in se stessa può avere degli effetti positivi, può essere giusta, può essere utile per altre persone, può anche aiutarle, ciò non toglie che, per quanto la vostra azione possa aiutare un’altra persona, se fatta per motivi egoistici, – che so io … per essere in qualche modo considerato «importante» – la vostra azione ha aiutato l’altro ma voi dovete vedere qualche cosa perché l’azione che avete compiuto in quella maniera comunque era sbagliata; ma non sbagliata per l’altro, che riceve l’effetto della vostra azione: è sbagliata per la vostra coscienza, per voi stessi, perché c’era qualcosa che dovevate comprendere.
Per quanto riguarda, poi, l’ipotesi che il fatto di bloccare l’Io vi possa portare a dei problemi all’interno dell’individuo, nel corpo fisico o negli altri vari corpi, ci tengo a sottolineare che i vostri corpi sono pieni di problemi, tutti i giorni, in continuazione, per quello che compite, sia che seguiate l’Io, sia che non lo seguiate, e i vostri problemi nascono dal fatto che le vostre comprensioni non sono ancora abbastanza ampie e che, quando arrivano alla coscienza di voi incarnati, il vostro Io li usa per ottenere magari ciò che più desidera ottenere, entrando in contrasto con queste vibrazioni; ed è questo contrasto quello che provoca i problemi, non il fatto di bloccare l’Io. Scifo

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

 

Fantasmi della mente

d-30x30Fantasmi della mente. Dizionario del

Quelli che le Guide hanno denominato «fantasmi della mente» si creano quando l’individuo sta cercando di trovare una soluzione a qualche situazione ma non ha tutti gli elementi indispensabili per trovarla. Accade, così, che questa idea continui a percorrere un circolo all’interno del suo essere e a rimanervi senza riuscire a sciogliersi fino a quando non troverà sfogo in una soluzione di qualche tipo scaturita dall’acquisizione di nuove esperienze all’interno del piano fisico.

Messaggio esemplificativo

Chi tra voi non ha dei dei fantasmi che, ricorrentemente, lo perseguitano nel corso delle sue giornate? Chi tra voi non ha paure, timori o desideri che lo tormentano nel corso della sua esistenza? Nessuno, penso. Vi siete chiesti alcune cose su quello che così abbiamo denominato, ma quello che non vi siete chiesti, in realtà, è come nascono questi fantasmi della mente, Qual è la loro genesi, da dove provengono e per quale motivo si vanno a formare all’interno dell’individuo incarnato. Moti

Per comprendere questo aspetto bisogna, per prima cosa, non cadere nell’errore, come mi è parso di avvertire, di concepire il corpo mentale come il caput mundi dell’individuo incarnato, come il corpo inferiore più importante tra quelli che l’individuo possiede, perché non è così.
Certamente il corpo mentale ha una grande importanza, in quanto senza il corpo mentale tutti voi non riuscireste a ragionare – non con questo che sempre ragioniate! – tuttavia se non vi fosse il corpo mentale certamente nessuno di voi riuscirebbe mai a ragionare!
Però bisogna tener conto del fatto che il corpo mentale basa i suoi ragionamenti, i suoi processi deduttivi e cognitivi, sugli elementi che vengono a lui dall’esperienza vissuta dall’individuo all’interno del piano fisico. Quindi, se il corpo mentale non avesse le sensazioni del corpo fisico e le emozioni ed i desideri del corpo astrale, certamente non avrebbe gli elementi sui quali fondare i propri ragionamenti.
Voi direte: «Ma al corpo mentale arrivano, però, le spinte dal corpo della coscienza: potrebbero bastare queste per indurre il corpo mentale a produrre dei ragionamenti», giusto? Certamente, in teoria potrebbe essere così, ma soltanto in teoria perché anche il corpo della coscienza, a sua volta, riceve di ritorno dal corpo fisico, dal corpo astrale, dal corpo mentale gli elementi tratti dalla vita all’interno del piano fisico per acquisire il sentire, e ciò che poi rimanda al corpo mentale arriva al corpo mentale attraverso questi elementi conosciuti, quindi sempre in dipendenza di questo flusso di informazioni che passa attraverso i corpi inferiori.
Non vi è, in questo anello di vibrazioni che passano attraverso i corpi inferiori dell’uomo incarnato, nessuna parte che sia più importante o meno importante: tutte sono importanti allo stesso modo e tutte sono dotate tra di loro di una certa sincronicità, ovvero lavorano praticamente contemporaneamente sui dati che entrano in circolo all’interno dell’individuo.
Come nascono allora, figli, i fantasmi della mente? Scifo

I fantasmi della mente nascono dall’illusione, ma è possibile che il corpo mentale si illuda? Quale può essere l’illusione data dal corpo mentale? In fondo, per sua stessa natura, esso ragiona lucidamente, direi freddamente, esaminando consequenzialmente le catene logiche che compongono i pensieri e, quindi, partendo da un punto, esamina i dati correlati a questo punto per arrivare, alla fine, alla conclusione.
Come può nascere, allora, il fantasma?
Se ci pensate un attimo, la risposta, alla fin fine, è abbastanza semplice: infatti, come diceva prima il fratello Scifo, ricordate che la sinergia tra i vari corpi, è sempre in atto, non sono mai ognuno a se stante e in condizioni di lavorare da soli, quindi, bisogna ricordare che al corpo mentale arriva anche ciò che sta vivendo il corpo fisico e ciò che sta vivendo il corpo astrale, attraverso i dati che essi sperimentano.
Ora, allorché al corpo mentale arrivano questi dati, può accadere che essi forniscano degli elementi illusori. Prendiamo l’esempio di un terremoto: il corpo fisico avverte questo tremito della crosta terreste e avvertire questo tremito fa inviare dal corpo fisico la percezione fisica di questo tremito al corpo mentale. Se non vi fossero altre interferenze da parte delle altre componenti destinate a completare l’esperienza, il corpo mentale farebbe due più due uguale quattro, ovvero: il corpo fisico ha avvertito un movimento del terreno. Significa, perciò, che il terreno si sta muovendo, punto e basta.
Ma mentre il corpo fisico avverte il movimento si mettono in moto gli altri meccanismi tipici dell’insieme dei corpi inferiori dell’individuo, ed ecco che il corpo fisico prova una sensazione di disagio perché non riesce più a mantenere il perfetto controllo dei suoi movimenti e si sente squilibrato rispetto alla terra su cui poggia i piedi, cosicché prova una sensazione spiacevole; questa sensazione spiacevole provoca il desiderio, naturalmente, che la sensazione possa finire, in modo che il disagio sparisca; questo a sua volta porta con sé la paura, anch’essa un’altra emozione, che il disagio possa continuare per sempre, quindi, il corpo astrale invia questi dati verso il corpo mentale, affinché vengano elaborati. A quel punto il corpo mentale mette assieme tutto ciò che ha ricevuto e quello che è il risultato viene – come si può dire – «trasformato» in un fantasma fatto di paura e di disagio, perché il suo due più due che prima veniva quattro, adesso è un’incognita che non riesce a elaborare o a comprendere.
Questo è tipico, ad esempio, di tutte le volte in cui capitate in una situazione nel corso delle vostre vite in cui dovete affrontare qualcosa che non conoscete e, quindi, vi spaventa: il processo che in voi si mette in moto fa sì da creare all’interno del vostro corpo mentale una risposta con una incognita, alla quale il corpo mentale cerca, attraverso i dati, la razionalità e i suoi processi logici, di dare una soluzione per ottenere la tranquillità dei corpi inferiori, e siccome non riesce a ottenere, con i pochi dati che ha, ciò che desidera, non può fare altro che cercare di dedurre quale può essere la soluzione, quale può essere la motivazione per il suo stato interiore, e la deduzione, naturalmente, è qualche cosa di diverso dall’esame logico, razionale delle concatenazione dei fatti ma vuol dire aggiungere qualche cosa in più che non è certo; questa aggiunta di fattore non certo, è un’incognita che il corpo mentale aggiunge al suo processo elaborativo per cercare di stabilizzare il pensiero che sta formando in modo da creare una situazione di equilibrio.
Se la sua deduzione è giusta, il fantasma non si creerà, se la deduzione, invece, è sbagliata ecco che si creerà all’interno del corpo mentale una sorta di forma-pensiero in cui è impressa questa deduzione ancora in attesa di essere trasformata in forma definitiva e giusta: questo è il fantasma della mente, che resterà come schema all’interno del corpo mentale, come schema razionale, deduttivo, che però deve essere ancora provato e, quindi, deve passare ancora attraverso l’esperienza, cioè deve ancora avere i dati provenienti da nuove esperienze del corpo fisico e da nuove reazioni del corpo astrale.
Il corpo mentale può, quindi, contenere in sé degli elementi illusori che noi abbiamo chiamato fantasmi. Moti

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima, pag. 120-123, Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior