Esperienza ed evoluzione del sentire

d-30x30Esperienza. Dizionario del

L’esperienza è il metodo principe che ci è stato donato per poter portare avanti la nostra evoluzione e riscoprire la nostra vera realtà: è solo attraverso l’esperienza fatta «sul campo» cioè nel corso della vita da incarnati che possiamo portare alla nostra coscienza i dati che le occorrono per ampliarsi e strutturare il nostro sentire in maniera sempre più organica.
Molti si chiedono perché è necessario vivere per fare esperienza, ma la risposta è abbastanza semplice, secondo quanto ci insegnano le Guide: la coscienza, per comprendere a fondo, ha necessità del maggior numero di dati e l’esperienza acquisita nel corso dell’incarnazione attraverso gli strumenti a disposizione dell’incarnato (ovvero i corpi fisico, astrale e mentale) fornisce tutti i molteplici elementi che compongono l’esperienza stessa: le azioni e reazioni della persona, le sue emozioni, i suoi sentimenti e i suoi pensieri e ragionamenti, dandogli la possibilità di osservare quanto è stato affrontato con la più ampia gamma di elementi possibile. A volte, quando siamo incarnati, ci sembra di essere sommersi e immobilizzati dai troppi dati che l’esperienza ci mette davanti, ma si tratta solamente di una reazione dell’Io di fronte alla sua impossibilità di avere tutto sotto controllo. In realtà, anche nei casi in cui l’Io sembra essersi immobilizzato, i dati continuano, comunque, ad affluire alla coscienza.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima, pag. 115-116, Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

Emozioni e consapevolezza

d-30x30Emozioni. Dizionario del

Per favorire la completezza delle esperienze dell’uomo incarnato gli sono stati forniti corpi diversi che gli permettono di interagire con la materia fisica, di provare emozioni e di strutturare il pensiero. Ognuno di questi strumenti è necessario e indispensabile per avere la maggiore completezza nel vivere l’esperienza e poterne trarre i frutti.
Le emozioni, solitamente, sono quelle che più spaventano in quanto assumono spesso forme improvvise e impetuose che mettono in difficoltà l’Io principalmente perché le avverte come incontrollabili, e questo rende difficoltoso il suo voler tenere tutto sotto controllo.
Tuttavia, chi vuole comprendere se stesso non può prescindere dall’espressione e dalla manifestazione delle sue emozioni, proprio per questa loro caratteristica di poca vestibilità da parte dell’Io. Il consiglio delle Guide è sempre stato quello di non reprimere le emozioni ma di cercare di esprimerle osservandole e limitandosi a mediare la loro forza quando si ritiene che possano essere dannose, nella loro espressione sul piano fisico, per sé o per gli altri. Osservandole, infatti, si può risalire alle spinte interiori che le hanno fatte nascere e, quindi, arrivare a comprendere i propri perché più profondi che, ovviamente, non saranno i perché definitivi, ma certamente indirizzeranno verso la scoperta di quelli che sono i propri nodi di sofferenza e di incomprensione interiore.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima, pag. 114-115, Edizione privata

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Egoismo ed espressione dell’Io

d-30x30Egoismo. Dizionario del

Comportamento dell’individuo che agisce spinto dal suo Io più che dal suo sentire.
In qualche misura ognuno di noi, quando è incarnato, manifesta principalmente il proprio Io e, di conseguenza, il proprio egoismo, e continuerà a farlo fino a quando, con l’ultima incarnazione, l’Io non sarà più necessario per fornirci gli stimoli per comprendere e, quindi, verrà abbandonato definitivamente.
È importante renderci conto del nostro egoismo perché è solo attraverso la sua conoscenza e la consapevolezza che ci appartiene intimamente che possiamo arrivare, lentamente, a comprenderlo e, alla fine, a superarlo.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima, pag. 114, Edizione privata

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Il dolore e la necessità di comprendere

d-30x30Dolore. Dizionario del

Il dolore – ci dicono le Guide – è l’ultima arma che usa l’esistenza per farci comprendere. Non è mai fine a se stesso, ma riguarda sempre qualche cosa che non si è ancora riusciti a comprendere. Dolore e sofferenza hanno, così, l’importante funzione di stimolare l’Io ad agire nel tentativo di evitare o di annullare i loro effetti.
Anche il dolore più grande – ci è stato insegnato – può essere superato e, osservandolo con sincerità e obiettività dopo che l’esperienza dolorosa ha perso parte della sua influenza, si può facilmente diventare consapevoli che non è stato inutile e che è riuscito, malgrado tutto, ad insegnarci qualcosa.

Messaggio esemplificativo

Fratelli, sorelle, quante volte vi sento affermare, vi sento vivere la vostra disperazione di fronte ad un dolore: ma il dolore, fratelli, la sofferenza, sorelle, è un aiuto che Dio vi porge, è un aiuto che l’Altissimo, nella sua infinita bontà, vi mette nelle mani affinché voi possiate capire, affinché voi possiate comprendere la Sua realtà.
E non dovete versare lacrime per questo dolore, fratelli, non dovete lasciarvi coinvolgere del tutto da questa sofferenza, sorelle, perché a parte quello che può essere il primo momento, a parte quelle che sono le prime reazioni, figli nostri, di fronte a tanto dolore, dovete imparare a superarlo, ma vivendolo e non rassegnandovi, perché la rassegnazione, fratelli e sorelle nostre, è passività, e noi non vogliamo vedervi divenire passivi, ma vogliamo che voi attivamente viviate le vostre giornate.
Il dolore va vissuto intensamente, va capito, va amato allo stesso modo di come si amano le cose belle e meravigliose che l’Assoluto ci manda. Dal dolore si comprende, figli nostri, dal dolore si rinasce, dal dolore si crea, dal dolore… dal dolore si possono far rifiorire tante nuove cose; ma se voi non accettate tutto questo, se voi, figli nostri, rifiutate questa realtà, se voi vi mettete di fronte al dolore con passività e rassegnazione, a nulla tutto questo vi potrà servire, e non solo: altri dolori si aggiungeranno fino al momento in cui non capirete che è Lui, che nella Sua misericordia, in questo modo invita ogni Sua creatura a comprendere, a vivere, a procedere in avanti. Viola

Come si fa a comprendere quando vi è un disequilibrio fra razionalità e sentire? Quando nell’osservare, ad esempio, un’altra persona, la si osserva soltanto con la mente senza l’ausilio e la cooperazione del sentire.
L’unico modo per scoprirlo è quello di verificare in continuazione le cose che si crede di aver acquisito, di verificarle, non soltanto attraverso la mente, ma anche attraverso lo scontro diretto con l’esperienza.
Ecco perché noi diciamo così spesso che la migliore maestra all’interno della vita umana è la vita stessa: perché soltanto vivendo la propria vita da uomo, soltanto affrontando in continuazione l’esperienza, senza ritirarsi in preda ai dubbi ed alle paure, si può arrivare a conoscere non soltanto il mondo esteriore, ma principalmente se stessi, principalmente le proprie idee e il proprio sentire.
Certo, fare questo comporta molte volte scontrarsi e trovarsi faccia a faccia con la sofferenza, perché non è facile ammettere di sbagliare, non è facile ammettere di aver giudicato in modo sbagliato un fatto o, addirittura, una persona, cosicché la sofferenza diventa quasi inevitabile. Ma anche la sofferenza, figli, è una maestra, anche la sofferenza rientra nella logica della necessità dell’esistenza, perché (come diciamo spesso e lo ripeto ancora) è l’ultima arma che l’esistenza ha a sua disposizione per indurre a comprendere l’individuo che non vuole comprendere.
Vi è, quindi, una ragione logica della presenza della sofferenza all’interno dell’umanità, che non va ricercata solamente in una natura umana, in certi comportamenti umani, in un istinto umano, che sembrano tendere a prevaricare gli altri uomini, a comportarsi egoisticamente, a sopraffare gli altri, ad arraffare, ma va ricercata anche nell’intenzione di Colui che tutto muove e che, proprio grazie alla sofferenza, tende ancora una volta la mano all’individuo che non riesce a capire da solo.
Quindi, figli, anche se soffrire non è facile e anche se la sofferenza – quasi sempre – sembra un’ingiustizia, cercate di rendervi conto che qualunque cosa vi accade, in realtà, è sempre e solo per il vostro bene, perché non accade mai, nel corso di qualunque vita, che una sofferenza – per quanto forte e grave essa sia – alla fine non porti al raggiungimento di qualcosa di utile e di positivo.
Chiunque tra voi ha avuto una forte sofferenza e la ricorda a distanza di parecchi anni, quando il coinvolgimento emotivo è ormai superato, può rendersi conto che da quella sofferenza, che allora era sembrata insopportabile e insormontabile, gli son venute molte cose buone che l’hanno reso migliore, che gli hanno fatto comprendere i suoi comportamenti errati, le sue manchevolezze, che l’hanno fatto, insomma, avanzare di un passo sulla scala della comprensione di se stesso. Moti

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima, pag. 110-112, Edizione privata

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Desiderio e ricerca esistenziale

d-30x30Desiderio. Dizionario del

Il desiderio esiste nell’uomo per spingerlo a ricercare in continuazione ciò che ancora non possiede, in funzione dei continui bisogni di comprensione della sua coscienza per la quale ristagnare non è mai una condizione ideale.
Ovviamente, il desiderio è utile nel momento in cui assolve questa funzione, ma diventa, invece, dannoso, quando ciò che si desidera diventa preminente rispetto alle altre esigenze della vita, facendo perdere spesso l’obiettività, la razionalità, l’attenzione verso i bisogni di se stessi e degli altri.

Messaggio esemplificativo

La sorgente del desiderio sta non sul piano astrale bensì in parte sul piano akasico (nel corpo akasico dell’individuo) e in parte nell’Io dell’individuo; ovvero, dalle comprensioni o non-comprensioni che esistono nel corpo della coscienza dell’individuo e in ciò che queste comprensioni o non-comprensioni fanno nascere all’interno dell’individuo (nel suo corpo astrale, che è preposto proprio a questo) con l’incontro-scontro con la realtà; ovvero con il reagire dell’Io all’interno del piano fisico in cui si trova a vivere, e quindi il suo tentativo di espandere il possesso della realtà, e quindi di se stesso.
E le emozioni, creature? Qual è la loro sorgente?
Le emozioni si trovano ad agire, a interessare «tutta» la materia del piano astrale, a seconda della finezza delle loro vibrazioni. La sorgente delle emozioni non è altro che il desiderio: le emozioni sono una diretta conseguenza del desiderio e del fatto che questo desiderio venga o meno appagato, venga o meno frustrato, all’interno, dai tentativi che l’individuo compie per cercare di acquisire comprensione all’interno del suo corpo della coscienza. Come conseguenza di questo elemento che ho appena detto, si può dedurre che le emozioni non possono esistere dove non vi sia desiderio. Quindi, dal fatto che il desiderio nasce dalle comprensioni o non-comprensioni del corpo akasico si può dedurre che il desiderio esiste sempre e comunque allorché un individuo ha qualcosa ancora da comprendere, quindi è ancora inserito nella ruota delle nascite e delle morti, ovverosia è incarnato in un corpo fisico. Da questo se ne deduce che nessun individuo incarnato (per quanto evoluto possa essere), proprio per il fatto stesso di essere incarnato e di usufruire necessariamente di questo interscambio tra akasico e fisico, tra realtà «superiore» e realtà «inferiore»), potrà mai essere privo di desideri e di emozioni. Scifo

Si può comprendere, allora, come il concetto di «abbandono del desiderio» che è stato trasportato nel tempo dalle dottrine orientali, non abbia una connotazione molto positiva o, quanto meno, una connotazione molto accettabile allorché si conosce la Realtà nella sua costituzione più intima. Infatti, com’è che si può fuggire dai desideri quando vi è un corpo fisico che ha dei bisogni? Com’è possibile abbandonare il desiderio quando vi è un corpo astrale che vibra e che osserva nel mondo, tante altre creature che hanno bisogno e che soffrono e che, quindi, fanno nascere in consonanza con il corpo akasico dell’individuo il desiderio che esse non soffrano più? Com’è possibile abbandonare il desiderio quando la mente, che osserva ciò che si sta vivendo personalmente, continua a sussurrare che vi deve essere per forza di cose la maniera per vivere in un modo migliore, più giusto, più vero, più reale?
Non è possibile, figli nostri. L’abbandono del desiderio vi può essere soltanto allorché tutto ciò che poteva essere compreso, senza lasciare nulla indietro, è stato ormai compreso. Allora non si desidererà più; o, meglio ancora, vi sarà un altro tipo di desiderio: quello che spingerà l’individuo che ha compreso a mettere in atto la sua comprensione in maniera diversa, non attraverso l’incarnazione sul piano fisico, per aiutare le altre creature che ancora non hanno raggiunto la stessa comprensione. Certamente non è possibile con la forza di volontà non desiderare; soltanto il fatto di «non voler desiderare» in realtà è un desiderio! Non è possibile in nessun modo abbandonare il desiderio ripeto se non sono stati abbandonati quegli impulsi che ancora chiedono della comprensione. Se qualcuno di voi, ad esempio, non desiderasse alcunché, non sarebbe vivo, non parteciperebbe alla storia della Realtà, non interagirebbe con essa e sarebbe alla stregua di un dipinto fatto su un muro su cui viene data una mano di vernice che lo copre e lo rende bello ma inutile per tutti. Moti

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima, pag. 108-110, Edizione privata

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Curiosità e intenzione

d-30x30Curiosità e intenzione. Dizionario del

Soltanto apparentemente ciò che viene detto in queste riunioni è semplice. In realtà, esse trattano di tutte le cose che a voi sono più vicine e, quindi, alla fin fine, più importanti per comprendere la vostra vita perché ognuno di voi ha comunque la curiosità almeno di arrivare a comprendere qual è il senso del proprio esistere sul piano fisico. Ed ecco che, allora, si aggira nei labirinti della propria mente alla ricerca delle risposte, perché ricordate che non è il corpo fisico il corpo che possiede una curiosità, non è il corpo astrale che può possedere una curiosità in quanto governato e spesso travolto dalle emozioni, dai desideri e dalle sensazioni che vengono dal corpo fisico, ma è quella parte di ognuno di voi che abbiamo definito «corpo mentale», cioè la parte che governa il vostro pensiero. In esso risiedono le curiosità, quelle che sorgono dai dati che provengono dal corpo astrale e dal corpo fisico e che contemporaneamente raccolgono le spinte, gli impulsi verso la comprensione che provengono dal corpo akasico, dal corpo della coscienza. L’incontro e lo scontro tra queste vibrazioni di diversa direzione fanno nascere nel corpo mentale dell’individuo la necessità ed i bisogni, la ricerca del perché di ciò che si presenta sotto la sua esperienza nel corso di quell’esistenza.

Messaggio esemplificativo

Voi vi siete chiesti, giustamente, qual è la curiosità giusta e qual è la curiosità sbagliata. Sotto il profilo dell’evoluzione dell’individuo non vi è curiosità «giusta» né curiosità «sbagliata» ma vi è soltanto un tentativo di comprensione attraverso la curiosità a gradi, ovviamente, diversi e che tuttavia è giusta per quell’individuo in quel momento per arrivare a comprendere anche la più piccola delle cose che non aveva ancora compreso fino a quell’attimo.
Al di là, però, di questi ragionamenti strettamente filosofici e quindi lontani alla fin fine da ciò che voi siete, vivete, patite, soffrite nel corso delle vostre esistenze, c’è un modo per cercare di arrivare a comprendere non la curiosità degli altri ma, quantomeno, la curiosità che nasce in se stessi, cercare cioè di arrivare a comprendere se e fino a che punto la curiosità che vi sentite urgere dentro è giusta o sbagliata relativamente a ciò che voi avete compreso fino a quel momento.
Questo non può essere altro che dato dall’intenzione che muove la vostra curiosità.
Ecco, quindi, che nel momento in cui ognuno di voi – bene intenzionato – cerca di arrivare alla profondità del proprio essere per mettere in moto quel «conosci te stesso» che governa in via generale l’evoluzione degli individui, ecco – dicevo – che il modo migliore è quello di cercare ogni volta che vi ponete la domanda non soltanto di andare verso la risoluzione, la risposta alla domanda che vi ponete ma, ancor prima, di comprendere qual è l’intenzione con cui quella domanda ve la state ponendo. In quel modo, anche se la vostra domanda in seguito non avrà la risposta che voi aspettavate o addirittura non avrà alcuna risposta, tuttavia, quel vostro perché avrà espletato la sua funzione perché vi avrà indirizzato a raggiungere qualche cosa di voi stessi che non eravate riusciti a mettere a fuoco; e se quel qualcosa, quella vostra intenzione che potreste riuscire a scoprire è un’intenzione altruistica, bene, siate felici per voi stessi; ma se per caso, come molto più spesso accade, arrivaste a scoprire che la vostra curiosità è mossa dal desiderio di comprendere qualcosa degli altri per avere potere su di loro, è mossa dal bisogno di sentirsi superiore agli altri smascherando magari l’altrui meschinità per coprire la propria, ebbene, non vi abbattete, figli, rendetevi conto che se scoprite che è così vuol dire che siete giunti al punto in cui potete modificare questa vostra non comprensione, e partite da quel punto non per accumulare le azioni negative ma per immergervi ancora un pochino di più in voi stessi e riuscire a cambiare l’impronta del vostro «perché».
Dalla favola che avete letto (1 ) e commentato vi era qualcos’altro da poter estrapolare. Non vi siete chiesti, forse, se Krsna, nella favola, può essere definito curioso; se era davvero curioso o se la sua (curiosità) era soltanto uno strumento per attirare l’attenzione del «deva preferito». Voi avete accorciato la strada dicendo che senza dubbio Krsna stava dando una lezione al deva per riportare la sua attenzione su ciò che è importante e ciò che non è importante. Potrebbe essere così, senza dubbio, ma siccome siamo – nella discussione delle favole – nell’ambito del «potrebbe» e non dell’«è», vi è forse un’altra piccola cosa da considerare. Vedete, noi vi abbiamo spiegato che Krsna è un aspetto dell’Assoluto e voi, come bravi discepoli, avete sempre ripetuto questa piccola frase – fatta senza ben chiarirvi che cosa significhi essere «un aspetto» dell’Assoluto.
Voi sapete che, per la creazione della Realtà, l’Assoluto nel muovere la Sua volontà, la Sua vibrazione verso i piani inferiori e creare così l’esistente, un po’ alla volta si scinde, prima in due, poi si moltiplica, si moltiplica e si moltiplica fino a dare l’enorme varietà di forme che voi conoscete come «realtà fisica». Ora, Krsna appartiene – come aspetto della divinità – a una delle prime scissioni (virtuali, naturalmente), ad uno dei primi frazionamenti virtuali dell’Assoluto nel protendersi verso la creazione della Realtà; e nel momento stesso in cui quest’aspetto di Dio diventa una Sua parte che, in qualche modo, si scinde assieme alle altre parti, senza dubbio non è più completamente consapevole, al 100%, di essere ancora l’Assoluto.
Ecco, quindi, che esiste in questa parte, anche nella manifestazione divina, la tendenza a ricongiungersi con l’Assoluto, la tendenza a ritornare alla completezza dell’Assoluto e, quindi, la curiosità di arrivare a scoprire quei punti di contatto che lo renderanno pienamente, totalmente, consapevole di essere tutt’uno con Esso, come magari sta sospettando di essere.
Ecco, quindi, che in quest’ottica, nell’ottica di qualsiasi frazionamento diverso e minore del Tutto, forse può essere accettabile l’idea di un Krsna veramente incuriosito dall’assoluta e meravigliosa perfezione di quella piccola pallina di capra; tant’è vero che ne loda la meraviglia e afferma di non riuscire a comprendere quale fantasia l’Assoluto abbia potuto mettere in moto per creare anche una cosa così piccola eppure, nel suo piccolo, così essenziale e perfetta all’interno della realtà che sta osservando. Moti

1- Si fa riferimento alla “Favola della pallina di capra”che riportiamo per facilitare la comprensione del messaggio:
Il deva preferito di Krsna stava guardando il suo Signore seduto in mezzo a un prato che faceva rotolare tra le dita qualche cosa. Il sole tramontò e, ancora, Krsna stava facendo rotolare quel qualcosa di così piccolo che il suo deva non riusciva a vedere, e continuò a osservarlo attentamente, mentre il sole ancora sorgeva, e sempre Krsna non si toglieva da quella posizione. Alla fine, senza riuscire più a trattenersi dalla curiosità, si avvicinò e gli disse: «Cosa stai facendo, mio Signore? Cos’è che tieni tra le dita?»
«Come, mio caro, non vedi cos’è che ho tra le dita? E’ una pallina di capra»
«Una pallina di capra! Per due giorni, vuoi dire, mio Signore, che Tu hai giocato e guardato questa pallina di capra?»
«Sì, mio caro, e per quanto io l’abbia guardata intensamente e in tutte le posizioni non sono riuscito a comprendere quale atto di fantasia ha messo in moto il Creatore per creare una cosa così bella!» (Ananda)

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima, pag. 100-104, Edizione privata

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Cultura e intelligenza

d-30x30Cultura e intelligenza. Dizionario del

Il principio di ambivalenza è applicabile a qualsiasi cosa, pensiero, emozione, azione, in quanto connotati positivamente o negativamente da chi li osserva, li percepisce, li mette in atto.
È applicabile in maniera evidente anche al concetto di cultura: la cultura è un fattore positivo quando la persona che la possiede usa ciò che sa per comprendere in maniera più approfondita se stesso e ciò che vive, ma diventa negativo quando viene usata per porre barriere nei confronti di chi è meno colto, per ergersi al di sopra degli altri, per fare, insomma, della cultura un tratto distintivo di merito e di superiorità nei confronti delle persone con una cultura inferiore.
Molto spesso chi ha una grande cultura finisce con il farsi sovrastare da essa e col perdere di vista l’umiltà, quell’umiltà che, dicono spesso le Guide, deve sempre portare ad avere presente il fatto che per ogni cosa che si sa (o si crede di sapere) ce ne sono un’infinità che neppure sono state sfiorate dalla nostra conoscenza.

Messaggio esemplificativo

Il Buddha definì la prima via della sua dottrina la «giusta conoscenza». Ma cosa intendeva il Buddha con queste due parole, così semplici? Scifo

La giusta conoscenza non è solo comprendere cosa sia il bene e cosa sia il male, ma è arrivare a riconoscere cos’è che li crea all’interno dell’uomo. Colui che comprende il bene e il male comprende che essi scaturiscono dal tentativo di evitare la sofferenza o dal fatto di cercare di non esserne preda, ma la giusta conoscenza non può fermarsi agli effetti; così deve risalire alla radice della sofferenza, che va riconosciuta nel desiderio, in quanto la sofferenza nasce dal desiderio inappagato.
Ma il desiderio, figli, non appartiene all’uomo, appartiene al suo Io, il quale, con esso, si veste di panni sfarzosi per alimentare se stesso; la giusta conoscenza è, così, quella che porta a conoscere non solo il bene e il male, non solo la sofferenza, non solo il desiderio, ma ciò da cui essi nascono, cioè l’Io. Conosci e comprendi a fondo il tuo Io, e il desiderio non ti muoverà più, e la sofferenza non ti strazierà più, e il bene e il male non si combatteranno più dentro di te.
Non è forse ciò che noi in altri termini, adeguati al vostro sentire attuale vi proponiamo?
Com’è facile, per chi non comprende, recepire questo insegnamento in questa forma come una rinuncia alla vita, un’istigazione all’abulia, all’inoperosità, alla passività, all’annullamento interiore… mentre, per chi comprende, esso appare nella sua giusta luce di comprensione della realtà e di espansione della coscienza individuale ben oltre i ristretti confini del proprio Io.
Ascoltiamo ancora le parole del Buddha: Chi ha espugnato la fede e la saggezza viene portato avanti dal suo essere armonioso come se fosse in un carro.
La coscienza lo indirizza, la mente lo serve, la rettitudine lo tiene unito e l’estasi lo sorregge, l’energia lo fa muovere e la calma lo rende stabile, la mancanza di desiderio lo infiora, la benevolenza, la dolcezza e la serenità lo rendono invincibile, e la comprensione lo difende nel suo cammino verso la pace. Questo carro immenso e ineguagliabile ogni uomo lo può costruire da se stesso evolvendo il proprio Io. Moti


Cultura e intelligenza

Il pensiero delle Guide sul reale rapporto tra cultura e intelligenza è chiaro e semplice: i due termini non sono sinonimi e non necessariamente avere cultura significa essere intelligenti e viceversa.

Messaggio esemplificativo

Parliamo per un poco di tutta quella folla di persone che in questi anni hanno riempito le aule delle università alla ricerca e alla conquista di una «laurea».
Osservando scrupolosamente queste persone, mi sono ritrovato molto spesso a chiedermi quante di esse si siano trovate a varcare la soglia delle aule universitarie perché spinte veramente dal desiderio di imparare, conoscere, approfondire, esercitare una professione di importanza sociale che soltanto attraverso la laurea è possibile esercitare; e quante, invece, si sono trovate in quei lidi soltanto perché pensavano che il possedere una laurea fosse anche qualcosa che ispirasse fiducia e, soprattutto, reverenza da parte degli altri.
Mi sono divertito in questo periodo ad osservare nell’intimo di tutte queste persone ed ho visto che (nonostante tutte le mie speranze), purtroppo, il numero di coloro che intraprendevano questa via, mossi dal desiderio di adoperarsi nello studio per il bene degli altri, per il bene della società stessa, era esiguo.
Infatti, ho potuto notare, in questi anni di osservazione (e, credetemi, sono stati tanti!) come la corsa all’università sia stata dettata per un buon numero di persone dal desiderio di avere un certo prestigio, reverenza, rispetto e l’onore di essere chiamato «dottore».
Già… l’onore di essere chiamato «dottore», al di là delle proprie reali capacità intellettive, al di là delle proprie possibilità di attuazione pratica degli studi compiuti. Perché tutto questo?
I motivi che hanno spinto e, forse per molto tempo ancora, spingeranno questi poveri ragazzi, sono molti, ma io ne vorrei prendere in considerazione soltanto uno: quello per cui una buona parte della gente comune ritiene che avere una «laurea» significhi, necessariamente, essere persone intelligenti.
Eh no, cari miei! Se così fosse, considerando il numero dei laureati, le cose nel vostro mondo andrebbero senz’altro molto meglio. Eh no, cari miei! Perché in tutti questi anni di osservazione posso dire che ho notato più «stupidità» tra i laureati che non tra le persone poco colte.
Già un tempo avevo affermato che cultura non è uguale a intelligenza, e sottoscrivo ora quanto avevo detto allora, dicendo che «laurea» non è uguale a »intelligenza».
Non staremo certo ad analizzare che cosa significhi intelligenza, anche perché definire in breve tempo l’intelligenza è un compito molto difficile; cercheremo, piuttosto, di analizzare come mai ad un certo punto dell’evoluzione, l’uomo comune tende a confondere l’intelligenza con la cultura e con la laurea. Non entreremo senz’altro in polemica con l’attuale sistema di insegnamento universitario e con la struttura stessa dell’attuale università perché, in realtà, il problema non ci riguarda da vicino, almeno per quello che vogliamo adesso dimostrare; caso mai quello è un problema sociale che potremmo analizzare in un’altra occasione. La laurea non è sinonimo di intelligenza, a mio avviso, per diverse ragioni, non ultima quella per cui la laurea altro non è che un attestato di preparazione (per lo più) culturale di una persona in una determinata disciplina; che poi questa persona dimostri di aver compreso quanto ha studiato e riesca a metterlo in pratica (dimostrando così in questo modo di avere una certa intelligenza) è tutto da verificare, da sperimentare. Se la laurea, dunque, dà soltanto la conoscenza, la preparazione teorica, un bagaglio culturale non indifferente, non è detto che dia anche la certezza che quella persona sia in grado di mettere in pratica quanto conosce teoricamente (unico indice, a parer mio, di intelligenza).
Ve lo ripeto: se il numero dei laureati aumenta, aumenta di conseguenza il livello culturale (questo è un dato di fatto di una certa importanza), ma non aumenta senz’altro il livello intellettivo.
L’intelligenza non si misura con la preparazione culturale (altrimenti pensate a come dovrebbero essere considerati coloro che di lauree ne hanno due: dei geni!… eppure, molto spesso, la realtà dimostra esattamente il contrario), ma è qualcosa che si misura nelle azioni di tutti i giorni, anche in quelle in cui non è necessaria una preparazione culturale.
Gettate via, quindi, quella sudditanza psicologica che a volte vi fa avvicinare i laureati come se fossero «Colui che Tutto sa», è che vi fa dire: «Se l’ha detto anche lui che è dottore…».
Non me ne vogliano per queste parole i sostenitori della cultura in genere e della laurea: il mio non vuole essere un inno all’ignoranza, il mio vuole essere semplicemente un discorso che vi aiuti a cacciare certi preconcetti, certi fantasmi della mente, e che vi dia una mano a considerare ogni cosa che fa parte del vostro mondo fisico nella sua giusta luce.
Lo studio, la conoscenza, la cultura, sono senz’altro elementi positivi nel cammino dell’individuo (fosse anche solo per il fatto che aiutano l’individuo stesso, se li vive nella giusta misura, a mantenersi attivo, elastico, aperto mentalmente); anche la laurea, considerata sotto questo punto di vista quindi, è senz’altro uno stimolo in più per la mente. E perbacco, se questo non è un aspetto positivo!
Ma, e qui mi ripeto, l’intelligenza è qualcosa di pratico, di immediato, di intuitivo, qualcosa che si verifica nelle azioni di tutti i giorni, oserei dire in ogni momento della vita individuale, e che nessuna università può certificare, nessun test psicologico può valutare, ma ogni uomo può scoprire, relativamente a se stesso, in ogni istante della sua vita, grazie alle esperienze cui l’Esistente lo sottopone.
Ma, come mio solito, mi sono perso un po’ per strada; lo scopo di questo discorso era quello di dimostrare che identificare l’intelligenza con la laurea è tipico dell’uomo di media evoluzione. L’individuo di media evoluzione è quello che vive in un modo raffinatamente egoista, non è quello che è terribilmente egoista e non si cura degli altri né positivamente né negativamente; è quello che maschera il suo forte egoismo, il suo Io al culmine della maturità, in azioni apparentemente altruistiche. Ma quest’uomo comincia a sentire dentro di sé il desiderio di fare qualche cosa per vincere quell’egoismo di cui, almeno in parte – soprattutto nelle azioni che hanno del macroscopico – si rende conto; è quello, quindi, che si sforza di limitare la spinta egoistica che, purtroppo, è ancora dentro di lui.
L’uomo di media evoluzione dice: «Studio ingegneria per aiutare la mia società», oppure ancora: «Divento chirurgo per dare una mano ai miei fratelli», oppure ancora: «C’è tanta gente che soffre di solitudine ed ha bisogno di comunicare, parlare… mi laureo in sociologia», e così via.
E voi credete che tutti, tutti coloro che diventano medici, ingegneri, architetti, fisici, psicologi, sociologi, etc., etc., lo abbiano fatto perché veramente mossi da intenzioni altruistiche? Se rispondete di sì non continuate a leggere questo messaggio, perché io vi dirò che non è così (naturalmente non in tutti i casi: noi ci occupiamo di casi limite, anche se abbastanza frequenti).
Quell’uomo, ragazzo prima, che si è trovato nelle aule universitarie è stato mosso da bisogni egoistici che così riassumo: il bisogno di avere importanza (e la laurea ne dà), il desiderio di fagocitare conoscenza (“Per essere più preparato» dice lui «Ma per poter in futuro far mostra di sé» dico io), in taluni casi – i più disperati – il piacere di indurre sudditanza psicologica negli altri perché – anche se i tempi sono veramente un po’ cambiati, ma non abbastanza – la laurea continua ad esercitare un certo fascino.
Non entriamo in particolare analizzando poi coloro che fanno sforzi – a volte sovrumani – per raggiungere la laurea a pieni voti: è un problema secondario e una logica conseguenza di tutto questo. La laurea soddisfa quindi i propri bisogni egoistici e li soddisfa abbastanza pienamente, anche se non a livello pratico – infatti non tutti i laureati riescono, malgrado i loro sforzi, ad esercitare un’attività degna della loro preparazione – per lo meno a livello psicologico e, credetemi, è più gratificante la soddisfazione morale (questo per l’Io) di quella materiale.
Però la laurea riesce sempre a dare l’impressione, almeno all’esterno, di generosità, di altruismo, di apertura verso gli altri, insomma dà tutta l’impressione che colui che l’ha raggiunta, toccata, sia un uomo che è votato alla causa degli altri.
Ecco il motivo di tanta corsa: se considerate, infatti, che coloro che sono attualmente i vostri fratelli incarnati sono tutti più o meno al vostro stesso livello evolutivo, capirete il perché di tanta folla nelle università.
Non siamo pessimisti, quello che sta accadendo non è un cattivo segno, credetemi; anzi, al contrario è proprio un buon segno perché, anche se mosso ancora dall’impulso di soddisfare i propri bisogni, quest’uomo, in un modo o nell’altro, sta facendo veramente qualcosa per gli altri (e qualcuno ci riesce anche abbastanza bene), si adopera per i suoi fratelli, tende quindi ad agire verso l’esterno, verso il non-Io.
Quindi, anche se alla base vi sta sempre la propria gratificazione personale per colui che riceve – come vi hanno insegnato le Guide – non ha importanza la quantità di egoismo contenuta in quell’azione ma ha importanza invece il fatto che quella stessa azione sortisca degli effetti per lui positivi.
Forse – a questo punto – vi ho confuso le idee; vi chiederete che senso ha questo messaggio, vi starete dicendo che siamo dei nichilisti. No, se avete pensato queste cose significa che non avete capito nulla del nostro gran parlare.
È chiaro che tutto ciò che vi circonda, che ogni azione umana ha un duplice aspetto, ha una sua importanza soggettiva ed una oggettiva. Guardate, quindi, ogni vostro movimento, ogni vostra azione alla luce di questa dualità, sempre presente e, forse, riuscirete a capire qualche cosa di più di voi stessi.
Allora, per concludere: ci si deve laureare oppure no? Certamente, se un individuo sente il desiderio di farlo lo faccia, non c’è problema; ma cerchi anche di comprendere quali sono le vere motivazioni del suo agire, e si guardi davanti allo specchio, e se le dica con la massima sincerità.
D’altra parte, considerate che se uno è egoista, è egoista sia che sia un perfetto ignorante sia che sia un emerito laureato, e che l’egoismo non si supera non facendo ciò che ha tutta l’aria di essere un’azione «ioistica»; fatelo pure! Fate tutto ciò che sentite di fare purché riusciate sempre a vedere dentro di voi la vera motivazione; poi, a poco a poco, a forza di guardarvi, di criticarvi, di scoprirvi, l’egoismo stesso si attenuerà da solo, senza bisogno di compiere sforzi che attualmente non siete in grado di fare.
Anche per quello che riguarda il vostro attaccamento all’esteriorità (e la laurea rientra anche in questo aspetto), è valido lo stesso discorso: siatene consapevoli e cercate di scoprirne i motivi, le cause: il resto verrà in seguito da solo, automaticamente.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima, pag. 94-100, Edizione privata

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Cristallizzazione e comprensione

d-30x30Cristallizzazione. Dizionario del

Momento di stasi interiore dell’individuo incarnato, che causa al suo interno un blocco delle spinte verso l’evoluzione e la comprensione. Per uscire dalla cristallizzazione talvolta basta lo stimolo giusto proveniente dalle vicissitudini della vita o quello interno risalente alle spinte della coscienza ma, nei casi in cui l’individuo non riesce proprio ad uscire da essa, l’esistenza sarà costretta a ricorrere all’arma estrema, ovvero la sofferenza: per sfuggire ad essa l’Io si trova, infatti, costretto ad agire e, perciò, a rimettere in moto l’interazione delle varie componenti dell’individuo e la vita che sta vivendo, alla ricerca di un nuovo equilibrio in cui la sofferenza sia la minore possibile.

Messaggio esemplificativo

Il concetto di cristallizzazione è un concetto che, al di là delle sue sfumature filosofiche, è importante per ognuno di voi, singolarmente, non soltanto in linea teorica ma anche principalmente in linea pratica, perché se voi, nel corso delle vostre giornate, riusciste ad osservarvi con attenzione, cercando di essere obiettivi su ciò che fate, ciò che dite e ciò che pensate, potreste con una certa facilità rendervi conto di quelli che sono i vostri atteggiamenti e i vostri comportamenti ripetuti. Bene, la maggior parte di questa ripetizione di atteggiamenti e di comportamenti indica, il più delle volte, che si è in presenza di quella che noi definiamo «cristallizzazione». Moti

E questo, creature, non può che essere uno dei modi migliori per arrivare a conoscere se stessi e, quindi, in qualche maniera, arrivare ad allontanare quella sofferenza che tutti voi, dichiaratamente, apertamente, cercate di evitare nel corso delle vostre vite. Ma vediamo un attimo, in maniera più terra-terra, da persona normale a persona comune, come si può intendere, o percepire, o recepire, o trasmettere il concetto di cristallizzazione proiettandolo, ovviamente, su quello che è il campo di battaglia della filosofia e dell’etica, ovvero l’esperienza quotidiana di ognuno di voi nel corso della vita che sta vivendo.
Tanto per incominciare, bisogna tener presente che, quando si parla di cristallizzazione, non si parla di cristallizzazione di un individuo nella sua totalità; sono rarissimi i casi di individui che sono totalmente cristallizzati, ovvero che abbiano all’interno dei problemi talmente grandi e delle incomprensioni talmente grandi, dei fantasmi vibratori (se volete) talmente grandi da occupare completamente tutto il loro modo di essere, tutta la loro capacità evolutiva. In realtà, la cristallizzazione riguarda una porzione dell’individuo o, il più delle volte, nei casi più semplici, una sfumatura di comprensione di qualche cosa; ovvero l’individuo non ha compreso perfettamente una sfumatura di qualche cosa, non avendola compresa si trova a ricevere gli impulsi verso questa ulteriore comprensione di cui abbisogna da parte della coscienza, ed ecco che l’esperienza, la vita, gli presenta le occasioni per sperimentare questa sfumatura di comprensione. Molte volte, è l’Io stesso che si oppone a questa comprensione, in quanto cerca di fornire di sé un’immagine migliore di quella che pensa di avere. Ecco, così, che voi, invece di acquisire attraverso le esperienze che vi si presentano i dati che possono essere utili a capire queste sfumature, e quindi a sciogliere queste piccole cristallizzazioni, fate finta di non vedere quello che sta succedendo, fate finta di non comprendere quello che l’esistenza vi propone, fate finta di non accorgervi di come gli altri reagiscono ai vostri comportamenti, magari proiettando sugli altri la responsabilità di quello che accade, e via e via e via. In questa maniera, succede che al vostro corpo akasico, malgrado l’esperienza si ripeta e vi possa fornire i dati giusti, non vengono fatti arrivare i dati che l’esperienza può procurare.
Come dicevo si tratta, quindi, di cristallizzazione non dell’individuo nella sua totalità, ma di parti dell’individuo. Vi è chiaro questo concetto? Quindi cercate di ragionare in questa ottica: che mentre uno di voi, in qualche modo, cristallizza, non è che cristallizzi sotto tutti i suoi aspetti evolutivi, ma cristallizza in qualche particolare direzione, più o meno ampia, più o meno importante per la sua comprensione.
Può essere anche importante sfatare un pensiero che può venire a chi pensa di crearsi un’immagine dell’individuo che cristallizza; infatti, più di uno di voi pensa che l’individuo cristallizzato possa essere identificato con … che so io … la persona abulica, la persona che sembra non avere stimoli, la persona che sembra agire poco con la vita; no? Quanti di voi hanno questa impressione? E può essere anche un’impressione in alcuni casi valida, però state attenti che non sempre è così; e qua potrei riallacciarmi facilmente al discorso del «non giudicare» perché in realtà può anche accadere invece che la persona cristallizzata, proprio per il suo tentativo di non comprendere, di non vedere la verità che non vuol vedere, diventi iperattiva e sia invece una persona che, magari, fa centomila cose in una volta, abbia apparentemente un grandissimo entusiasmo, e via e via e via.
Però, se ciò che deve comprendere è il fatto che deve (che so io) … prestare più attenzione ed essere più disponibile nei confronti degli altri, ecco che allora, sotto questo punto di vista, pensando a questa sua necessità di comprensione, si può capire che il suo tentativo di cristallizzare risale al fatto che, diventando iperattivo, facendo tante e tante cose una dopo l’altra con grandissimo entusiasmo, si trova ad essere talmente preso da quello che fa da poter dire a se stesso – giustificando il suo comportamento – «Non ho fatto questo o quell’altro perché in realtà non avevo la possibilità di farlo». D’accordo?
Come vedete, quindi, osservando i vostri comportamenti potete arrivare a comprendere ciò che voi siete e ciò di cui avete bisogno; ed è ciò di cui avete bisogno quello che maggiormente vi dovrebbe interessare, senza fermarvi però alle prime risposte che avete, anzi, come regola, come regola d’oro direi, tenete sempre presente che le prime risposte, quelle più comode – come dicevano prima i nostri amici – sono quelle più facili e quasi sempre sono quelle meno sincere, e quasi sempre sono quelle che nascondono i motivi della vostra cristallizzazione. Scifo

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima, pag. 91-93, Edizione privata

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Corpi transitori

d-30x30Corpi transitori. Dizionario del

Vengono così definiti i corpi che appartengono all’individuo incarnato e che cambiano ad ogni sua incarnazione.
Essi sono il corpo fisico, grazie al quale è possibile interagire direttamente con l’esperienza sul piano fisico, il corpo astrale, che fornisce all’individuo incarnato la possibilità di esprimere e possedere emozioni e desideri, e il corpo mentale, nel quale viene elaborato il pensiero dell’incarnato. Grazie all’interazione di questi tre corpi, strettamente interdipendenti, l’incarnato ha i mezzi per esprimere se stesso (sia per quanto riguarda le sue comprensioni che per ciò che riguarda, invece, le sue incomprensioni) nel corso della vita che conduce sul piano fisico.
Questi tre corpi sono essenziali per vivere la vita e la predominanza di uno sugli altri o lo squilibrio tra di essi determina molti dei comportamenti che siamo soliti osservare in noi stessi e nelle persone che ci circondano.
Il tutto, ovviamente, è governato e gestito dai bisogni di comprensione (e, di conseguenza, di esperienza) che appartengono al corpo akasico o corpo della coscienza.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima, pag. 90-91, Edizione privata

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