Il nostro orizzonte esistenziale e spirituale

Vi propongo queste parole del Cerchio Ifior che mirabilmente esprimono il senso compiuto del procedere interiore e l’approdo nell’esperienza dell’unità.

Quando comprenderò con tutto me stesso che «Tutto È Uno»
che sarà di me, Padre?
Moti

Tu non avrai più la tua famiglia,
ma ogni uomo, animale, pianta, cristallo
sarà un membro della fratellanza universale.

continua..

Domande sulle forme-pensiero

d-30x30Forme-pensiero. Dizionario del

D – Le creiamo noi queste forme-pensiero?

Diciamo che una buona parte delle forme-pensiero è creata da voi, certamente.

D – Le crea anche qualcun altro?

Beh, le possono creare – cosa a cui nessuno aveva pensato – le entità disincarnate che hanno abbandonato il piano fisico, che risiedono sul piano astrale. Avendo ancora un corpo astrale e un corpo mentale significa che il loro corpo mentale è ancora all’interno del piano mentale e agisce sulla materia mentale; essendo spinti da desideri, all’interno del piano astrale questi desideri, se sono molto forti, molto concentrati, possono provocare la creazione di forme-pensiero.

D – Ma le forme-pensiero create nel piano astrale e nel piano mentale possono essere sia positive che negative e influiscono anche sul piano fisico?

Diciamo che possono influire; però, perché possano influire, vi debbono essere parecchie circostanze concomitanti: intanto bisogna vedere se intendono che possono influire sulla persona che ha prodotto la forma-pensiero o se intendi che possano influire su altre persone. Ti faccio io le domande, invece di farle tu a me, così vediamo di chiarirci di più le cose, vero? Allora, cosa vuoi sapere: se influiscono sulle persone che hanno pensato o sulle persone al di là di quella catena …

D – Io penso che le persone siano, almeno penso, una specie di «antenne» che magari, forse, possono captare o meno le forme-pensiero degli altri piani…?

Sì, certo; su questo posso essere – in linea di massima – d’accordo; però qua, a questo punto, bisognerebbe fare un attimo un piccolo corso accelerato sull’antenna. No, non è una battuta, cari, perché, vedete, le antenne non sono tutte uguali: ogni antenna ha una gamma di ricezione delle onde che può percepire, e ognuno di voi è un’antenna diversa. Questa diversità di gamma di onde che ognuno di voi può percepire da che cosa è data? E’ data, principalmente, da come siete costituiti, quindi è data principalmente dal vostro corpo fisico, astrale e mentale ma, in particolare, dal vostro sentire, da ciò che avete compreso e quindi, di riflesso, dai problemi che voi vi trascinate in questa vita, che dovete cercare di risolvere per avere una maggiore comprensione. Fino a qua ci siamo? Questo fa di voi delle antenne che emanano delle vibrazioni diverse l’una dall’altra, completamente diverse, anche se – sotto certi punti di vista – simili; poiché le necessità evolutive e anche le condizioni evolutive del sentire di ognuno di voi è diverso e quindi le onde che emanate sono sempre e comunque diverse l’uno dall’altro; al punto tale che un’entità disincarnata potrebbe riconoscere ognuno di voi soltanto osservando le vibrazioni che emettete.

D – Quindi siamo energia?

Certamente, siete energia.

D – Tutti?

Tutti quanti; e non solo tutti ma «tutto» proprio. Ora, il discorso delle forme-pensiero: la forma-pensiero che cos’è? Non è altro che una creazione energetica che parte da un individuo che si condensa in materia. Si può immaginare così, la forma-pensiero. Questa materia si condensa in quel particolare modo sotto la spinta delle vibrazioni emesse dall’individuo, che l’ha creata; quindi è una particolare forma energetica anch’essa. Ora, la persona incarnata sul piano fisico può essere antenna per quel tipo di forma-pensiero nel momento che possiede una certa affinità vibratoria con questa forma-pensiero. In quel momento, senza dubbio, vi è la possibilità che possa entrare in contatto con questa forma-pensiero, che vi sia uno scambio di energia tra lei e la forma-pensiero. D’accordo?

D – Questo dipende dai «sentire» analoghi?

Diciamo che dipende «in parte» dal sentire analogo e, di conseguenza, anche dai problemi analoghi.

D – Anche i problemi?

Anche i problemi analoghi. Supponiamo che la forma-pensiero di cui stiamo parlando sia una forma-pensiero dovuta a un desiderio molto forte – un classico, proprio: di panna montata, qua, per la nostra amica G. – una grande golosità di questa panna montata: se la persona incarnata sul piano fisico (faccio un esempio proprio terra-terra, non è poi così chiara, immediata, la situazione) possiede lo stesso tipo di golosità, lo stesso desiderio per la panna montata, ecco che questa vibrazione, che è un desiderio – perché il desiderio è, comunque sia, una vibrazione – può risuonare della stessa vibrazione della forma-pensiero che desidera la panna montata. Allora le due vibrazioni si trovano, si riconoscono, in qualche modo si alimentano l’una con l’altra e il desiderio di panna montata della persona che è entrata in contatto con la forma-pensiero diventa ancora più acuto.

D – E influisce anche sull’ambiente?

Dipende dal tipo di forma-pensiero. Certamente vi è una forma-pensiero ambientale, ma quella è una forma più generale, che non è dovuta a una persona sola, bensì a un gruppo di persone, o a un insieme più vasto di persone. Se voi poteste osservare dal nostro punto di vista il pianeta e vedere le masse di vibrazioni del pianeta, vi accorgereste che – così come se guardaste il pianeta a infrarossi vedreste le zone più calde, le zone meno calde, e via dicendo – vi sono delle zone di vibrazioni particolari che accomunano un certo ambiente, altre di vibrazioni particolari che accomunano un altro, e via dicendo. Questo è dovuto al fatto, per esempio, … che so io … che nella società occidentale molti siano attratti dal desiderio di possedere delle cose; questo fa sì da creare un tipo di vibrazione che si incontra di più nell’ambiente occidentale in modo particolare; e se voi poteste guardare dal nostro punto di vista la parte occidentale del vostro pianeta vedreste che vi è questa comunanza di vibrazione che forma, se non una forma-pensiero, quanto meno una zona vibratoria comune di tutte queste persone che hanno questo tipo di interesse o di spinta interiore.

Georgei


Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume terzo, parte prima, Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

Meditazioni quotidiane 3.1

 

 


Bastò che tu dicessi:
«Sia la Luce » e la Luce fu.
Ciò che Tu vuoi È, mio Dio,
perché Tua è la volontà.
Essa è uno dei Tuoi aspetti
e da Te pervade il Creato;
essa è il filo che lega a Te ogni individuo,
è la scala sulla quale ogni uomo può salire
fino ad arrivare a sprofondare in Te,
perché chi vuole davvero, sa amare davvero,
e chi ama davvero sa riconoscere l’Amore,
e chi riconosce l’Amore
non può non riconoscerTi,
e chi Ti riconosce
non può non comprendere
di essere una Tua parte,
una piccola immensa scintilla
della Volontà e dell’Amore
che da Te emana e che a Te riporta.

Al di là dei nostri fallaci pensieri,
al di là delle nostre imperfette sensazioni,
al di là delle nostre egoistiche società,
al di là delle nostre infinitesime conoscenze,
al di là delle nostre speranze,
delle nostre paure,
dei nostri dolori e delle nostre gioie,
dei nostri desideri e del nostro continuare
a essere schiavi del nostro Io,
dacci sempre la volontà di volere,
accompagna con il Tuo Amore
il nostro brancolare nel buio
della nostra inoperosità
alla ricerca di ciò che «sentiamo»
esistere in noi,
ora calpestato, ora deriso,
ora schernito, ora sfuggito,
ora cercato, ora temuto,
ora maledetto, ora agognato
e che si chiama Amore.
Viola


 

 


A Te, Padre mio, mi rivolgo
con parole forse già troppo conosciute
e ti sussurro con tutto l’amore
che riesco a trovare dentro di me:
Padre nostro che sei nei cieli,
sia santificato il Tuo nome,
venga il Tuo regno,
sia fatta la Tua volontà
così in cielo come in terra.
Io spero, Padre, di amarTi
almeno una piccola parte di quanto
Tu sempre mi hai amato.
Florian


 

 


Padre mio, io mi immergo nella materia
partendo dall’incoscienza di me stesso;
vivo la mia vita incosciente e, alla fine,
muoio apparentemente incosciente.
Poi sembra che tutto, per un attimo più o meno lungo, sia finito;
ed ecco che io mi
ritrovo di nuovo ad essere sollevato dalla ruota,
a essere immerso nella materia,
a vivere una nuova vita con i tormenti,
le mie delusioni, i miei affanni, qua e là qualche gioia,
per arrivare al momento della paura definitiva
ed essere di fronte a una mano invisibile
che sembra spenga l’interruttore della mia luce
cosicché
sprofondo di nuovo nel buio.
Certo, questa potrebbe essere l’idea di un ciclo:
dapprima la luce e poi il buio;
un ciclo però – secondo la mia concezione,
forse limitata ma, ahimè, umana –
va da un polo ad un altro!
Padre mio invece, osservando la mia vita,
mi sembra che essa compia il suo ciclo dal buio
per ritornare al buio e tutto questo,
Padre mio,
aggiunge ansia al mio vivere l’esistenza.
Scifo

Figlio mio, tu osservi le tue vite come
fossero una candela che ora si accende e ora si spegne,
ora si accende ancora per spegnersi nuovamente, in continuazione.
Ma come posso, figlio mio,
farti comprendere che non è la candela quello che è importante per te,
bensì la luce che la anima?
Ma come posso, figlio mio,
farti comprendere che se tu sapessi osservare con attenzione,
scopriresti che non esiste un attimo in cui non vi è la luce
ma sempre essa è presente in maggiore o minore misura?
Ma come posso, figlio mio,
farti comprendere che è proprio soltanto questa variazione
della sua intensità ciò che costituisce un ciclo delle tue molte esistenze?
Labrys


 

 


Padre mio, Padre mio dolcissimo,
io mi rendo conto che Tu hai fatto tutto per me
e che tutto quello che esiste intorno a me
esiste non «per me soltanto» ma «anche per me»
e ciò mi rende umile nei Tuoi confronti.
lo vorrei, Padre mio,
vorrei anch’io poter fare 
qualcosa per Te,
ma cos’è che posso mai 
fare io, povera creatura?
Moti

Figlio mio, metti da parte questa tua apparente umiltà:
non sei «più prediletto» adesso che hai detto queste cose,
non ti amo di più per le parole che hai pronunciato,
non sei il mio figlio preferito perché manifesti
il desiderio di fare qualcosa per me.
Non vi è nulla che tu possa fare per me.
In compenso, ricordalo sempre, vi è molto che tu puoi fare per te.
Scifo


 

 


Padre mio, io non ci capisco più niente,
anzi non soltanto non ci capisco più niente,
ma non riesco neanche più a capire che cosa dovrei capire!
Io mi sono messa lì con impegno,
mi sono presa i miei bei libri, e li ho letti, accuratamente,
cercando di capirli, ho cercato di comprendere quello che hanno detto i filosofi,
così come mi è stato chiesto, ho cercato di comprendere le varie teorie di pensiero;
ho cercato di capire quello che hanno detto i vari Maestri dai più esotici ai più tradizionali;
ho cercato di capire gli insegnamenti,
ho cercato di comprendere cosa accidentaccio sia questa percezione soggettiva della realtà
che io non dovrei vedere ma che vedo, ma che è una illusione,
e allora siccome è una
illusione è diversa da quello che vedo,
e non so che cos’è perché è un’illusione anche il
fatto che io mi illuda!
Ho cercato di allargare il mio «sentire».
Ma non so se ci sono riuscita perché non ho capito che cosa sia il sentire.
Ho cercato di incontrare Te, Padre mio,
sempre che Tu sia mio Padre, perché io non Ti ho ancora incontrato
e quindi non posso metterci la mano sul fuoco!
Spero nel domani così come, chi dice che parla in Tuo nome, afferma che si debba fare.
Insomma sono una fucina di dubbi, un calderone di discorsi,
un insieme di confusioni tremende, che però – sinceramente – in certi momenti mi aiutano,
tenendo occupata la mia mente quando proprio non ho altre cose cui pensare.
Ma allora, Padre mio, stammi a sentire:
se davvero sono Tua figlia, se davvero mi ami, fai qualcosa,
cerca di farmi capire qualcosina in più!
Non Ti dico di mettermi lì la Tua parola scritta a lettere di fuoco sulla pietra,
ma quanto meno un’idea, un’intuizione, un modo per comprendere,
un modo più chiaro per comprendere, cerca di farmelo arrivare. 
Ti prego.
Zifed

Figlia mia, io ti chiamo figlia ma, in realtà, non sei mia figlia.
Coloro che io mando a parlarti, ti chiamano sorella, ma non sono tuoi fratelli.
Ciò che vedi intorno a te, e che tu pensi – sbagliando – sia l’unica vera realtà,
non è altro, effettivamente, che un’illusione.
Io non sono tuo padre, perché tu da me non ti sei mai staccata
e quindi io e te siamo una cosa sola;
le creature che ti parlano in mio nome non sono tuoi fratelli poiché, come capirai un giorno,
essi fanno parte di te come tu fai parte di loro e riuscire a scindere te da loro,
anche questa, figlia mia, è un’illusione.
La realtà che tu vivi è un’illusione
soltanto perché tu sei limitata da ciò che sei in questo momento,
e limitata dal fatto che ti guardi attorno e sei colpita dalla bellezza di un fiore;
e limitata dal fatto che guardi i tuoi figli e li ami più di ogni altra persona al mondo;
e limitata dal fatto che tu segui i pensieri della tua mente,
e la conoscenza che ti possono dare i libri;
e limitata dal fatto che tu ti guardi intorno e, nel guardarti intorno,
nella tua mente passa l’elenco delle cose che tu osservi.
Io non posso, figlia mia, in un solo colpo farti comprendere qual è la verità.
Tutto quello che posso è far sì che ti arrivino gli elementi affinché tu, lentamente,
riesca a incamminarti lungo la giusta strada.
Io ho posto sul tuo cammino una miriade di tappe che tu devi raggiungere
per arrivare alla Verità: alcune le hai raggiunte – il non uccidere i tuoi simili
o il riuscire ad essere meno egoista – altre dovrai ancora incontrarle,
raggiungerle e superarle, e non sono meno difficili delle altre.
Tuttavia, io so che andrai avanti con pazienza, con costanza,
superando una meta alla volta, e so anche che la prossima meta che
ho posto sul tuo cammino, la prossima meta necessaria
affinché tu riesca a comprendere qualcosa di più della realtà
di me stesso e della nostra unione,
è quella di non fare più differenza tra l’Uno ed i Molti.
Figlia, io ti aspetto al termine della strada.
Moti


 

 


Padre, Padre mio, io non riesco a capire se ho difficoltà di apprendimento
o se, invece,
il mio Io mi impedisce di affrontare con una certa serenità
quegli insegnamenti che voi, ormai, da tanti anni, mi portate.
Infatti, rileggendo quanto voi avevate suggerito di fare, mi sono scontrato,
ancora una volta, con la vostra realtà, così ben lontana da quella che è la mia realtà.
Avete parlato di orgoglio, o, meglio, ancora di orgogl/Io – per dirla alla Zifed – ma,
per quanto accettassi mentalmente quanto voi avete affermato,
mi sono reso conto guardando retrospettivamente, osservando le mie azioni,
di essermi comportato, nel corso di tutti questi anni, facendo sì che il mio «orgoglio»
non dico la facesse da padrone, ma almeno arrivasse a trionfare sulla mia umiltà.
Forse, la mia è soltanto una mancanza di volontà, di volontà di non essere orgoglioso;
forse, la mia è, come dicevo prima, un’incapacità di apprendimento,
una difficoltà di apprendimento.
Ma allora io dico: se continuo a commettere questi stessi errori perché, fratelli miei,
voi che avete sempre mostrato nei nostri confronti una sì grande pazienza,
perché non date un’ulteriore prova di essa, aiutandomi interiormente a capire
e a non commettere più quegli errori che mi turbano,
che mi infastidiscono e che mi fanno sentire terribilmente egoista?
Federico

Il fatto è figlio mio, che allorché noi ti parliamo di ciò che è l’uomo,
tu ti fermi ad osservare l’uomo nelle sue manifestazioni più
eclatanti,
più evidenti, più importanti, senza tenere conto che ciò che più evidentemente appare
agli occhi di colui che osserva, in realtà, è soltanto la superficie che nasconde
la maggior parte, invece, di ciò che sta alle spalle e che può essere osservata soltanto
con un esame approfondito e accurato e, perché no, spietato.
Certo, l’uomo è mosso nella sua esistenza da mille pulsioni;
noi, soltanto per citarne alcune, abbiamo parlato di orgoglio,
di aggressività, di dolcezza, di amore,
e solitamente quando voi ascoltate le nostre parole, prendete questi aspetti,
li valutate, li riferite il più delle volte agli altri e vi riferite sempre,
in particolare, appunto alle manifestazioni più evidenti, più forti.
La realtà è ben diversa: la realtà è che uno stimolo,
un impulso in un individuo può sì 
affiorare in maniera evidentissima agli occhi di tutti,
ma tuttavia può esistere invece anche senza affiorare in questa maniera così
eclatante.
Ciò non toglie che esista, che possa essere incontrato, riconosciuto e scoperto, vissuto ed osservato.
Scifo


 

 


Io ho ascoltato le tue parole, io ho ascoltato, Maestro,
i tuoi discorsi filosofici e credo anche di aver compreso ciò che tu intendi dire.
Riconosco la logica del tuo insegnamento,
riesco a vedere dove ciò che dici può portare,
tuttavia, al di là dell’insegnamento individuale,
non posso dimenticare che sono
inserito in una realtà concreta e fisica.
E non mi dire, Maestro, che per te la realtà concreta e fisica è ormai superata,
perché io non riesco a comprendere una tale condizione
ma sono invece immerso nella materia,
e mi sembra quindi giusto che proprio tu, Maestro,
che prima di me sei passato attraverso la stessa via,
debba per forza di cose riuscire a comprendere e cercare di aiutarmi.
Perdonami se, forse, non sono umile come un discepolo dovrebbe essere ma,
d’altra parte, ciò che sto vivendo provoca al mio interno delle tensioni tali
per cui non sempre è facile 
accettare senza reagire anche con una certa aggressività,
perché si sa, soffrire non è mai piacevole.
Io vivo la mia vita attraversando questa esperienza che, come dici tu,
potrebbe anche essere karmica, e che, d’accordo, potrebbe interrompersi
se io riuscissi a rimuovere al mio interno le cause che l’hanno mossa nel passato;
pur tuttavia, ripeto, sono immerso nel concreto della vita materiale,
e non so che
fare in questa direzione.
Io mi guardo intorno e vedo il mio lavoro, o ciò che di esso resta,
e non riesco a capacitarmi di come stanno andando le cose,
ed è ancora più doloroso per me il fatto che il cattivo andamento del mio lavoro
non coinvolge soltanto me stesso ma anche altre persone,
e questo «essere responsabili per gli altri», Maestro,
proprio tu me l’hai insegnato.
Dovresti, quindi, aiutarmi, darmi il modo per far sì che io possa adempiere
a queste mie responsabilità verso gli altri.
Io vedo la mia famiglia, vedo le tensioni che in essa stanno crescendo,
le incomprensioni, le incapacità di comunicare,
di partecipare gli uni con gli altri quelli che sono i problemi,
le impossibilità di risolverli, di affrontarli assieme
e anche per questo, per la mia compagna, per i miei figli, Maestro,
io mi sento responsabile, e se è una mia situazione karmica
quello che io sto attraversando, non riesco ad accettare
che altri debbano soffrire per ciò che a me deve accadere.
Ti prego, quindi, Maestro, tu che sempre hai dato mostra di amarmi,
tu che sempre hai
dato mostra di aiutarmi, di comprendermi,
di sapere e di essere molto più saggio di me,
fai qualcosa anche questa volta affinché possa uscire
dalla sofferenza e dal dolore.
Non tanto per me, quanto per chi da me,
in qualche modo, dipende.
Scifo

Figlio mio, quanto tu hai appena detto dà mostra di quanto poco, in realtà,
tu hai assimilato e compreso di ciò che io ho tentato di inculcare nel tuo essere,
nel corso di questi incontri.
Infatti dovresti comprendere, aver compreso, aver ormai assimilato,
accettato fino in fondo
il fatto che nell’intero universo non esiste
e non può esistere l’ingiustizia.
Per questo motivo, figlio mio, io ti dico che se tu con la tua sofferenza di oggi
stai vivendo una situazione karmica, e in questa situazione tu vedi altre persone
coinvolte e da te dipendenti, questo non è motivo di disequilibrio nel disegno divino
e di ingiustizia nel suo volere, bensì di equilibrio e di giustizia
per il fatto che anche queste altre persone, in realtà, stanno vivendo il loro debito karmico.
Con questo, figlio, non intendo dire che tu non debba preoccuparti per loro,
né tanto meno intendo dire che tu non debba sentirti responsabile per gli errori
che puoi fare e che su altri possono ricadere.
Tuttavia, ripeto, ricorda che accade sempre e soltanto il giusto per ogni individuo,
e che tutto ciò che accade, anche se non sembra sotto il coinvolgimento dell’esperienza,
accade, sempre e comunque, solo per il bene dell’individuo stesso.
Però – tu dici, tu chiedi, tu implori – in concreto cosa fare,
quale può essere la via migliore per cercare se non di risolvere immediatamente
la situazione dolorosa quantomeno di attenuarla, di migliorare le condizioni
di chi accanto ti sta e che di riflesso soffre o può soffrire assieme a te?
Io ti dico, figlio mio: se ancora non riesci a comprendere la tua causa interiore,
se ancora ti sembra di vivere una situazione senza via d’uscita,
se ancora vedi così lontana la soluzione al tuo problema,
metti in atto un primo 
insegnamento, ovvero l’incominciare da poco e da vicino.
Ricorda che tu soffri per la tua situazione e che quindi è qualcosa in te,
o di te che va
mutato.
Allora osservati, osservati nella vita di tutti i giorni, osservati con la tua compagna,
con i tuoi figli, e guarda prima di tutto, come trasformare
ciò che con essi non è giusto così come è.
Fai sì, se ti riesce, di diventare tale per cui essi non saranno più parte negativa
del tuo karma, ma potranno diventare una fonte di sostegno, di aiuto,
di serenità e, quindi, di ausilio alla tua comprensione.
Fatto ciò, figlio mio, rivolgi la tua attenzione al tuo esterno, osserva il mondo del tuo lavoro,
compi la stessa ricerca e modifica anche per il tuo lavoro,
per il tuo stare con chi con te lavora, in modo tale da ottenere le condizioni concrete
e materiali migliori che tu desideri per poter veramente arrivare al nucleo
di ciò che devi fare, ovvero comprendere qualcosa che è al tuo interno, parte di te.
E ti accorgerai, dopo questo cammino, figlio mio,
di aver fatto già quasi tutto il percorso e più soltanto poche sfumature
avrai da mutare per uscire dalla tua situazione karmica.
Allora, lentamente, la vita ti ritornerà amica, il sorriso comparirà ancora sulle tue labbra,
le tue notti saranno ancora serene e tu andrai sorridente incontro ad una nuova esperienza.
Questo io ti dico, figlio mio, affinché tu possa comprendere.
Moti


 

 


Al di là del bene e del male,
al di là delle frontiere che mi separano dai miei fratelli,
al di là del dolore, che mi fa rinchiudere come se fossi dentro ad un’ostrica,
al di là di tutto questo ho conosciuto l’Amore.
Ma non quell’amore che voi potete pensare
ma quell’Amore che riesce veramente ad andare oltre al bene
che io posso aver creato, ed al male che io posso aver arrecato ai miei fratelli.
Al di là di tutto questo, al di là del pensiero di essere legato alla materia,
si può incontrare veramente l’Amore.
Anche voi incontratelo, affrontate i fantasmi della mente
che vi tengono legati al bene e al male, alle frontiere, alla separatività, all’egoismo,
a tutto ciò che fa di voi un essere ancora meschino e pieno di illusioni.
Florian


 

 


Se io conduco la mia vita senza far male a nessuno,
se io lavoro facendo esattamente quello per cui vengo pagato,
se io so accarezzare i miei figli quand’è il momento,
o, quand’è il momento, corteggiare la mia compagna,
se io conduco fa mia vita in questo modo chi potrà mai dire
che io non ho vissuto nel modo giusto?
Scifo

Se, figlio mio, nel tuo non fare male agli altri
contemporaneamente non trovi il modo di aiutare gli altri,
se il tuo lavoro è in proporzione a quanto ricevi
e non è fatto perché è il tuo senso del dovere, della giustizia e,
perché no? anche del piacere che ti induce a lavorare,
se ai tuoi figli non neghi una carezza allorché da essi ti viene richiesta,
pur tuttavia non sai dare loro una carezza
quando meno se l’aspettano e senza motivo,
se alla tua compagna non neghi il tuo amore,
eppure questo tuo amore te lo tieni in tasca
quando essa non te lo richiede,
io posso dirti, figlio mio, che se pure non posso affermare
che tu vivi la tua vita in
modo sbagliato neppure posso affermare
che la tua vita sia condotta veramente nel modo più giusto.

Moti


 

 


Padre mio, nel corso della mia vita
ci sono dei momenti in cui somiglio ad un cristallo
ed il mio cammino sembra essersi
fermato,
bloccato su posizioni da cui faccio
fatica a smuovermi,
posizioni in cui nulla più mi sembra importante,
in cui mi sento indifferente, distaccato;
abbandonato senza avere neanche la capacità di soffrire,
di gioire, di amare.
Vi sono poi momenti in cui la mia vita
assomiglia a quella di una pianta ed io cerco
allora le sensazioni più diverse,
lascio che siano le sensazioni ad arrivare sino a me
senza far nulla in fondo più che muovermi, girarmi,
affinché possano toccarmi più facilmente
e restando tutto sommato passivo
nei confronti di ciò che la vita o l’esistenza mi mandano incontro.
Vi sono poi molti momenti in cui la mia vita sembra quella di un animale
e allora lascio che i miei passi, le mie azioni e i miei pensieri
siano mossi quasi ciecamente dall’istinto,
dagli impulsi fisici, dalla ricerca del piacere,
dell’appagamento, della soddisfazione,
andando spesso a schiantarmi a testa bassa contro gli ostacoli
senza fermarmi 
un attimo ad alzare gli occhi per cercare di comprendere se,
dove, come e quando 
ho commesso l’errore che mi ha posto l’ostacolo davanti.
Vi sono poi dei momenti in cui la mia vita è quella di un essere umano
che vive in una
società di cui si sente parte, che si interessa agli altri,
che ama, che vive, che gioisce, che soffre, che si accompagna, che si sposa,
che diventa genitore; che lavora, che si demoralizza, che si rallegra,
che spera, che si dispera, che vive.
Vi sono poi, Padre mio, dei rarissimi momenti in cui mi sento Te,
ed è grazie a quei momenti, Padre mio, che la vita mi sembra degna di essere vissuta,
è grazie a quei momenti, Padre mio, che comprendo come tutto ciò che sto vivendo
va oltre la mia capacità di comprensione, va al di là di quanto io, per il momento,
riesca ad immaginare, anche se, per qualche breve attimo di intuizione,
la Tua Realtà, diventa anche la mia realtà.
Padre mio, spero che presto non esistano più due realtà per me.
Rodolfo

Figlio mio nel corso del tuo cammino evolutivo sei stato un cristallo, un minerale,
ma ciò aveva una logica ben precisa e non è avvenuto soltanto per soddisfare un mio capriccio.
In quella forma, figlio, hai incominciato ad essere sensibile agli stimoli, avvertendo,
anche se per te, ora, in modo quasi incomprensibile, che l’avvicendarsi delle stagioni,
del sole e della luna, del vento e della pioggia, esisteva ed influiva sull’ambiente di cui tu,
inconsapevole, facevi parte.
Quando questa comprensione si è strutturata al tuo interno,
ha fatto sì, creatura, che tu abbandonassi la forma minerale,
e riprendessi
il tuo ciclo evolutivo come elemento vegetale.
Ed anche ciò non è stato senza scopo.
Io volevo che tu acuissi la tua sensibilità,
che comprendessi il movimento, che cominciassi a sentire in te il desiderio
che spinge all’azione, fosse anche quella così semplice
di essere inondato di luce.
Ti ho posto poi, a vivere nel regno animale
affinché tu potessi affinare al meglio le nuove percezioni
che avevi sperimentato, 
ben sapendo che in questa nuova forma
avresti lentamente incominciato a separare te stesso da ciò che ti circondava,
creando i presupposti per far nascere l’illusione della
separatività,
l’illusione dell’Io contrapposta
al non-Io.
Come un padre attento al bene dei suoi figli
ti ho fatto vivere quindi in forma umana,
affinché tu potessi comprendere attraverso la gioia ed il dolore
l’illusione che stavi vivendo, e riuscissi a superare le separatività ed il tuo egoismo.
Ti ho preparato poi una nuova forma, quella del superuomo,
non tanto dissimile fisicamente da quella che già conosci,
ma in verità molto diversa interiormente,
in modo tale che tu avvertissi la mia presenza in te stesso ed in ogni creatura
che io ho posto al tuo fianco lungo il tuo cammino, e fossi, infine,
pronto
a riunirti a me, chiudendo il circolo della tua evoluzione.
Figlio mio, viandante affaticato, sono qui ad aspettarti,
non in cielo, non in terra, smetti di chiamarmi e resta in silenzio ad ascoltare,
io non ti ho mai abbandonato, tu non mi hai mai abbandonato,
io sono in te e tu sei in me,
per sempre, figlio mio.
Scifo


 

 


Padre mio, quando tu mi hai dato la possibilità di vivere in questo mondo
io sono stato, per un po’ di tempo, felice;
ho assaporato la gioia delle cose che mandavi intorno a me,
ho goduto del Tuo amore che io ritrovavo ogni giorno scoprendo un gioco nuovo.
Ma poi, Padre mio, io sono cresciuto, sono diventato adulto, sono diventato un uomo
e Tu non mi hai più dato felicità ma soltanto dolore;
e ho conosciuto la sofferenza ogni giorno.
Hai fatto di tutto per me, Padre mio, anche se non ne comprendo le motivazioni,
anche se ne intuisco la causa, mi hai fatto soffrire in ogni modo:
mi hai privato delle cose che più amavo,
mi hai privato di un figlio,
mi hai privato di un amore al quale volevo dedicare tutta la vita.
Mi hai provato mettendomi ultimo in mezzo agli uomini.
Mi hai fatto soffrire togliendomi la possibilità di diventare una persona importante,
rispettata dagli altri, amata, richiesta.
Ma perché, Padre mio, tutta questa sofferenza?
Perché, Padre mio, non hai continuato a infondermi,
a darmi quella felicità che io godevo nei primi giorni della mia vita?
Aiutami, Padre mio!
Aiutami a comprendere il perché di tutto questo, dammi la mano,
dammi la mano
perché voglio capire, Padre mio!
Viola

Figlio mio, ho ascoltato le tue parole ed è per questo che ora, in qualche modo,
io
faccio giungere a te la mia voce anche se so che molto facilmente, figlio,
tu non vorrai
ascoltarla; so che molto facilmente preferirai distogliere la tua attenzione
per cercare di
seguire ciò che, magari, anche soltanto a mezzo metro di distanza
starà accadendo
sul tuo piano di esistenza.
Figlio mio, tu ti lamenti della tua sofferenza,
e tendi a far risalire la causa di questa tua sofferenza fino a me,
come se io, figlio mio, potessi divertirmi a creare per te dolori,
affanni, tristezza, e non ti rendi conto, figlio, che questi dolori,
questi affanni, questa tristezza nascono in te perché tu stesso,
con le tue mani, li stai facendo nascere,
perché tu stesso ti immergi così completamente e totalmente soltanto
in ciò che riguarda l’esteriorità da dimenticarti di creare in te stesso quei supporti,
quegli aiuti, quelle grucce che potrebbero farti superare senza
fatica
anche il più grande affanno.
Figlio mio, se tu non riesci neppure ad ascoltare per un attimo il silenzio,
se il restare in silenzio provoca in te nervosismo, imbarazzo, tensione,
impazienza, come puoi pensare di riuscire ad ascoltare il tuo essere?
E se non riesci ad ascoltare il tuo essere, figlio mio,
a che scopo rivolgi a me delle
preghiere che, tanto, non potresti poi vedere esaudite
sotto forma di discorso perché il mio discorso, figlio, passerebbe attraverso il tuo intimo?
Comunque io continuo a parlarti, figlio,
poiché il tempo per me non ha importanza e le mie parole, in un modo o nell’altro,
continuo a inviarle, siano esse parole che giungono da un tuo fratello,
siano esse parole che giungono da un fiore, da un tramonto, da un’aurora, da una notte;
e se non sarà oggi sarà domani, se non sarà domani sarà tra
mille anni, figlio mio,
ma tu riuscirai a sentire le mie parole che il vento, in continuazione,
ti porta.
Moti


 

 


Padre, Padre mio, ancora una volta hai permesso
che la Tua voce giungesse a me attraverso i Tuoi messaggeri,
ed ancora un’altra tristissima volta, Padre mio,
io mi chiedo a quanto tutto questo mi possa servire,
osservandomi nella vita di tutti i giorni in cui dimentico i momenti di serenità,
i momenti di pace, i momenti quasi di beatitudine e divento l’essere meschino
che continua sempre e soltanto a pensare a se stesso,
e non sa rivolgere lo sguardo attorno per asciugare anche una sola lacrima
ad un proprio fratello.
Padre mio, a cosa servono questi Tuoi messaggeri
quando io vado nel mondo spinta
soltanto dal desiderio di guadagnare,
di possedere, di mettere in mostra il mio Io, di fare opere d’arte, di scrivere,
di parlare, di far godere gli altri di queste mie capacità quando Tu, invece,
attraverso i Tuoi messaggeri, mi insegni l’umiltà, la semplicità,
mi insegni a godere anche del solo silenzio?
Padre mio, è inutile che Tu continui ad inviarmi queste voci,
è inutile che Tu cerchi di farmi maturare,
perché io continuo inevitabilmente ad essere l’uomo egoista
che ancora oggi sento dentro di me.
Se solo Tu potessi aiutarmi, Padre mio,
se solo Tu fossi in grado di darmi un’indicazione,
ma non soltanto semplicemente attraverso queste voci che restano voci e basta,
ma direttamente con qualcosa di vero 
e di tangibile
che mi gratifichi in qualche modo nel mio Io più profondo,
allora anche io, Padre mio, riuscirei a sorridere veramente.
Non più parole quindi, Padre mio,
ma qualcosa di più. Grazie.
Viola

Figlio mio, tu ti aspetti da me ciò che io non voglio fare,
tu ti aspetti da me che io dia corpo ai tuoi desideri,
che io accontenti i tuoi bisogni,
che io appaghi ciò che tu vuoi non soltanto pregando
ma esigendo addirittura che io faccia ciò.
Eppure, figlio mio, se io ti ho dato una mente è stato perché tu imparassi
ad usare questo strumento così sensibile che io per te ho creato,
è stato affinché tu riuscissi ad impadronirti della logica e – attraverso la logica –
rendere più giusti, più veri, più indirizzati verso me i tuoi pensieri e i tuoi desideri.
Se tu ti ascoltassi, figlio mio, allorché chiedi, implori e pretendi,
se tu stessi attento all’assurdità delle tue parole,
se tu usassi le tue parole per vagliare con attenzione ciò che tu dici,
stai pur certo, figlio mio, che il tuo viso diventerebbe rosso e taceresti.
Pensi davvero che io possa fare per te ciò che tu stesso non riesci a fare?
Pensi davvero che riuscirei a convincerti senza arrivare alla costrizione?
Perché nessun individuo può essere veramente convinto contro la sua volontà.
Pensi davvero che io per te potrei creare qualche fenomeno meraviglioso,
inaudito e strabiliante che possa far breccia nel tuo non credere,
che possa far sì che tu da un momento all’altro trovi la fiducia
non soltanto in me ma addirittura in te stesso?
Io ti garantisco, figlio mio, che per quante meraviglie per te abbia posto nel mondo,
per quante meraviglie per te abbia posto su quei piani che tu non conosci,
per quante meraviglie io, soprattutto, figlio mio, abbia posto al tuo interno,
non ve n’è nessuna che possa essere per te convincente se tu non vuoi essere convinto.
La tua preghiera, quindi, figlio mio, è raccattata dal vento ma è dal vento dispersa.
E la mia risposta, figlio mio, io l’ho affidata al vento
ma tu non sei stato capace di afferrarla.
Scifo


 

 


Padre, Padre mio, mio Creatore,
Tu mi
hai dato la possibilità d’essere testimone di fenomeni strani, inusitati,
di fenomeni che hanno sconvolto il mio credo interiore,
che hanno cambiato il corso della mia esistenza,
che hanno dato un colore diverso alla mia vita,
passando da un grigio squallido ad intensi colori di luce.
Le parole che Tu hai affidato ai Tuoi messaggeri affinché esse giungessero a me,
erano talmente dense di significato che non sarebbe sufficiente una vita
per riuscire veramente a comprenderle.
Questo dicevo.
Ma adesso mi rendo conto, Padre mio, Altissimo Signore e mio Creatore,
che questi Tuoi messaggeri continuano a giungere a me per ripetere sempre le stesse cose;
non trovo infatti in ciò che Tu ora mi mandi nulla di veramente nuovo e originale;
ed io allora mi chiedo, Padre mio, che senso ha continuare a ripetere le stesse cose,
continuare a dirmi che devo amare gli altri miei fratelli come me stesso,
continuare a dirmi che devo essere sincero con me stesso e sincero con gli altri,
continuare a ricordarmi di dire sempre la verità anche al prezzo di creare
al mio interno della sofferenza?
Padre mio, mi chiedo che senso ha continuare a pensare che l’evoluzione
alla quale io dovrò giungere è così lontana, ma veramente così lontana,
che tutto questo mi appare quasi come un gioco senza senso?
Perché dunque affaticarTi ancora affinché le Tue parole giungano a me,
perché permettere che io possa continuare ad ascoltarle,
perché non far sì che quanto viene speso in fatica, in lavoro, in energia,
non venga usato diversamente a convincere colui che a tutto questo non vuole credere?
Padre mio, mio Creatore, prima di continuare a parlarmi degli stessi concetti
Ti prego di dare una risposta ad un dubbio, ad un’idea,
ad un qualcosa che da più tempo giace dentro di me:
perché non usare tutto ciò che stai usando per far parlare i Tuoi messaggeri,
per creare invece un fenomeno meraviglioso, fantastico,
che possa dare la certezza a tutti gli altri che Tu esisti veramente?
Michel

Figlio mio, se tu pensi veramente che possa essere il fenomeno meraviglioso,
il fenomeno fantastico a darti la certezza, significa mio caro che ben poco hai capito
di ciò che volevo dirti; e se tu, figlio mio, quasi con rammarico mi chiedi
perché ti sto ripetendo le stesse cose da anni,
quasi con tristezza mi chiedi perché non ti ho dato nulla di nuovo,
io non posso dare una risposta al tuo chiedere se non rivoltando la domanda;
infatti, figlio mio, io qui ed ora ti chiedo:
e tu, da queste mie parole, da secoli ripetute, quanto sei riuscito a cambiare?
Per quanto sia vero che da anni ripeto le stesse cose,
per quanto sia vero che da secoli si ripete lo stesso insegnamento,
è vero che tu oggi come oggi, così come eri ieri,
e così come probabilmente sarai domani,
ancora non hai imparato – solo per fare un esempio – ad avere rispetto
per te stesso, per i tuoi compagni di viaggio, per i tuoi fratelli,
ad un punto tale affinché tu ti possa chiamare veramente
Uomo.
Viola


 

 


Se io potessi ascoltarti, Padre mio,
se io non fossi così pronto a tapparmi le orecchie
per non udire ciò che, in mille modi diversi, Tu fai arrivare fino a me,
se io non fossi così intento a perseguire i miei fini egoistici
da non porre attenzione alle tante voci che mi parlano in Tuo nome,
se io non fossi così intento a captare i rumori del mondo materiale
da non porgere ascolto alla Tua voce che parla ininterrottamente
anche attraverso i palpiti della mia coscienza,
cosa Ti udrei dire per rammentarmi i miei doveri
nel percorrere questa strada inusuale che cerco di seguire
per
ricongiungermi a Te?
Moti

Dal momento stesso che tu ti fermi ad ascoltare, figlio mio,
è tuo dovere cercare di capire fino in fondo;
è tuo dovere ascoltare non solo ciò che ti gratifica
ma anche ciò che ti colpisce perché se
!a freccia giunge al tuo cuore
ciò accade perché hai lasciato i! tuo cuore dove non dovevi lasciarlo;
è tuo dovere esprimere il tuo pensiero su ciò che ti viene detto
dimostrando a te e agli altri 
che non partecipi solo per fare atto di presenza,
o per non sentirti escluso da qualcosa che, in qualche modo, sembra elevare dalla massa;
è tuo dovere confrontarti con le parole che ti vengono rivolte e,
ove tu le ritenga giuste e
giustificate, cercare di correggere te stesso
facendole diventare un tuo sentire;
è tuo dovere prendere g!i insegnamenti che ricevi e cercare di applicarli
prima di tutto su te stesso, perché solo così darai mostra a chi non riesce ad accettarli
che essi, se vissuti giustamente, hanno il potere di mutare l’individuo e,
attraverso di lui, il mondo
intero;
è tuo dovere essere condiscendente verso chi non la pensa come te
e non voler imporre ciò che credi giusto, perché le parole giuste sono Mie parole,
e le Mie parole non hanno bisogno di apostoli ma entrano e si fermano nell’animo
di colui che è pronto a riceverle e a farne buon uso;
è tuo dovere accettare !e critiche e non criticare ricordando che il tuo diritto
ha gli stessi confini dei diritti altrui e, se Mi ami davvero,
devi saper accettare con un sorriso che da
altri venga varcato il tuo confine
senza avere l’idea di varcare tu, a viva forza, il confine
altrui;
è tuo dovere dare spazio agli altri senza imporre !a tua presenza
e senza pretendere attenzione per te stesso invece che per altri,
perché come puoi giudicare e comprendere se una parola,
una carezza o un’azione sono più urgenti per te o per un tuo fratello?
È tuo dovere rispettare chi parla e chi ascolta
senza impedirgli di parlare o di ascoltare,
così come vorresti che a te fosse permesso di parlare e di ascoltare
quando è il tuo momento di farlo;
è tuo dovere essere sincero con chi ti sta a fianco
senza mascherarti con falsi sorrisi o con voluta indifferenza
perché sai bene quanto male faccia scorgere un falso sorriso
o sentirsi ignorati volutamente;
è tuo dovere non fare delle parole che ti vengono rivolte una scusa
per un tuo agire sbagliato, per un nascondere il braccio dopo aver scagliato la pietra,
attribuendo ad altri la responsabilità di un’azione che appartiene solamente a te;
è tuo dovere non fare delle parole dei Miei figli l’unico scopo della tua vita,
dimenticando che per quanto importanti esse siano non lo sono a tal punto
da farti trascurare i tuoi doveri di uomo, di sposo, di figlio e, soprattutto, di genitore;
è tuo dovere non fare delle parole dei Miei figli un testo sacro
senza il quale non avere il coraggio di agire e di pensare,
un oracolo al quale ricorrere per non prendere da te solo la responsabilità delle tue azioni,
perché questo farebbe di esse non solo una cosa priva di vero valore
ma addirittura una causa di inibizione del tuo sviluppo;
è tuo dovere accettare e vivere ciò che ritieni giusto,
ma rifiutare e chiedere spiegazioni su ciò che ti sembra errato,
partecipare attivamente e non estraniarti,
essere, insomma, caldo o freddo ma non essere tepido
perché la tepidezza non porta al tuo intimo e,
quindi, a Me;
è tuo dovere, figlio Mio, osservarti come sei e modificarti, dopo esserti compreso,
perché dal tuo lavoro su te stesso dipende non soltanto la tua vita e quella dei tuoi cari,
ma la vita di ogni Mia creatura;
è tuo dovere dare agli altri anche il poco che ti è possibile donare
ma è anche tuo dovere accettare con gioia dagli altri ciò che gli altri ti donano,
senza pensare a doverlo restituire un giorno,
senza la paura di restare obbligato e condizionato,
perché quanto ricevi in dono è sempre un Mio dono
e Io non mi attendo da te alcuna ricompensa.
Se sei qui per imparare come dici, figlio Mio, sforzati di farlo,
se sei qui per cambiare te stesso cerca in tutti i modi di non ristagnare,
se sei qui per comprendere approfitta delle possibilità che ti vengono offerte,
se sei qui per conoscere non imporre limite e direzione alla tua conoscenza,
se sei qui per dare agli altri abbandonati alla gioia di dare
senza distinguere tra giovane e vecchio, simpatico e antipatico,
intelligente e sciocco, buono e cattivo,
perché ricorda,
figlio Mio, che in ogni creatura Io sono
e ciò che dai ti verrà reso in misura maggiore.
Figlio Mio, i tuoi doveri non li scrivo a lettere di fuoco sulla lapide
perché nessuna lapide può conservarli così a fungo
quanto lo fa la Mia voce che parla dentro di te;
e non ho posto angeli caduti sul tuo cammino per punire i tuoi errori,
né giudici per decidere le tue pene o per emettere giudizi sul tuo operato:
per te non ho posto altro carceriere, altro giudice e altro aguzzino che te stesso.
Sii ciò che sei il più profondamente possibile, figlio Mio,
e scoprirai che le voci dei fratelli che vivono con te nel mondo della materia,
e la tua stessa voce, non sono, in verità, che un’unica voce, la Mia,
e allora niente e nessuno dovrà rammentarti i tuoi doveri
perché tu stesso sarai !a luce che li sussurra all’universo.
Viola


 

 


Quando comprenderò con tutto me stesso che «Tutto È Uno»
che sarà di me, Padre?
Moti

Tu non avrai più la tua famiglia,
ma ogni uomo, animale, pianta, cristallo
sarà un membro della fratellanza universale.
Non ti vedrò più lavorare al fine di raggiungere
maggior prestigio e maggior guadagno,
ma il tuo lavoro sarà eseguito nella coscienza
di contribuire nel tuo possibile a creare un mondo
in cui la Mia voce sarà la voce del Tutto.
Non avrai più amici perché non considererai più alcun nemico:
e quando darai, lo farai 
senza bisogno che il dare ti venga richiesto
e senza che esso venga dettato dai tuoi bisogni personali.
Non avrai più padroni, dipendenti, superiori e inferiori,
ma in ogni altro tuo simile tu vedrai te stesso in una delle tante tappe
che avrai percorso o che dovrai ancora percorrere.
Le tue preghiere non avranno più un indirizzo e una forma,
ma la tua vita, i tuoi pensieri, le tue parole e i tuoi sentimenti
diverranno essi stessi, senza intenzione, preghiere.
Perderai la passione, l’orgoglio, l’invidia,
tutto quello che hai o che desideri avere.
Il desiderio, la presunzione non ti spingeranno confusamente
verso la ricerca di Me 
perché Io ti apparirò presente in tutto ciò che ti circonda
e ciò che Io ad ogni istante ti donerò ti basterà per sentirti appagato,
unito e inscindibile da ogni creatura che Io ho posto per te sulla tua via.
Non avrai più bisogno di chiamarmi,
di cercarmi, di adularmi, di combattermi,
di rifiutarmi, di accettarmi, di capirmi,
perché Io sarò te e tu sarai Me in un modo così profondo
che di nient’altro avrai bisogno 
che di questa consapevolezza.
Se sorriderai diventerai il Mio sorriso,
se porgerai aiuto sarai la Mia mano,
se consolerai sarai una Mia carezza,
se accetterai un’offesa sarai la Mia carità,
se parlerai sarai la Mia voce,
se abbraccerai sarai la Mia dolcezza,
se sopporterai sarai la Mia pazienza,
se perdonerai sarai la Mia pietà,
se amerai sarai il Mio amore
e ciò che darai ad ogni Mio atomo
Ci apparterrà per sempre, figlio Mio.
Viola

Meditazioni quotidiane 2.2

 

 


A te, Padre mio, con tutto l’amore che conosco,
io rivolgo 
il mio ringraziamento.
Certo non tutto ciò che Tu mi invii
è
facile da affrontare,
certo alla mia mente
avventata
sembrano molti di più i momenti di dolore,
di sofferenza che i momenti di gioia e di felicità,
ma, quando il vento che mi ha portato con sé
smette di soffiare ed io riesco a trovare in me
un attimo per guardare indietro,
mi accorgo che, alla fin
fine, gioia e dolore,
finiscono per equivalersi e sono stato io, soltanto io,
nella mia avventatezza, che non ho saputo vivere intensamente
la gioia tanto quanto ho  vissuto intensamente il dolore,
che non ho saputo assaporare ogni aspetto della mia vita,
che pure esiste per me, è così per me,
per farmi crescere, non per punirmi o per altre motivazioni.
Con quelle poche parole, Padre mio,
che io riesco a trovare faticosamente nella mia mente,
Ti ringrazio comunque e sempre
per avermi dato quel dono che è la vita,
che così spesso io non riesco a riconoscere come tale.
Grazie, Padre mio, comunque e sempre.

Moti


 

 


Grande Spirito che tutto circondi,
io mi riconosco nelle tue creature,
siano esse una pianta,
siano esse un animale,
siano esse un essere umano,
ma questo purtroppo accade soltanto a tratti,
perché se davvero io mi 
riconoscessi in Te,
attraverso la 
mediazione di tutto ciò che mi circonda,
in quell’attimo non avrei più bisogno di tornare a vivere.
Eppure sono proprio quei momenti,
Grande Spirito, Padre mio,
che mi spingono e mi danno la forza
per andare avanti.

Hiaiuatha


 

 


Padre mio se quanto accade,
accade per il 
nostro bene,
perché è necessario che accada,
fa sì che io, comunque, non resti insensibile
ciò che avviene, ma trovi in me un motivo in più
per proiettare al mio interno l’esperienza 
di chi sta soffrendo
così da arrivare a comprendere ciò che io devo comprendere,
in modo tale che, un domani, altre persone non debbano soffrire
altrettanto per aiutare la mia comprensione.
Padre mio, aiutami ad essere d’esempio agli altri
affinché chi, per cattiva comprensione, cerca di prevaricare gli altri,
riesca, osservandosi, anche magari soltanto per un momento,
a fermare il suo agire e a rendersi conto di quanto sta facendo.
Padre mio fa sì che io non sia passivo di fronte alla Realtà,
ma collabori con essa, 
affinché il fine ultimo
venga raggiunto in 
armonia, da tutti.

Moti


 

 


Padre mio, nella mia vita di tutti i giorni,
a volte riesco anche a trovare un momento
per
distogliermi dal mondo e cercare la Verità.
I miei occhi, allora, si volgono intorno,
osservano ciò che li circonda;
le mie orecchie 
si tendono ad ascoltare
anche il più piccolo 
suono alla ricerca di una parola di Verità;
la mia mente analizza, esamina, critica, giudica;
tutto il mio essere, in fondo, è teso verso la ricerca,
eppure, Padre mio, la verità sembra allontanarsi sempre di più da me,
e come un fantasma malizioso mi sfugge tra le dita
non appena sembra che io stia per afferrarla,
e mi schernisce, mi deride e sparisce dietro 
all’angolo della mia mente.
Padre mio, aiutami, Ti prego:
se io sento 
interiormente questo bisogno di Verità,
se io sento che conoscere la Verità può darmi pace,
può farmi essere diverso,
fa qualche 
cosa Tu, Tu che tutto puoi,
per aiutarmi in 
questa mia ricerca affannosa
e così spesso 
disperata!

Moti


 

 


Padre mio, io non riesco ad accettare le persone intorno a me,
questa mia difficoltà ad accettare mi sembra che punti il dito accusatore
verso di me per dirmi: «Tu, che non
accetti gli altri,
è semplicemente perché non accetti te stesso».
È facile dire così, certamente sono lontano dall’accettare veramente me stesso,
così
come sono lontano dall’accettare veramente gli altri,
ma questa «accettazione» che io
cerco, so davvero, sento davvero che cosa è?
È una cosa dettata dalle leggi del vivere comune,
è una cosa dettata dagli archetipi sociali,
è una cosa dettata dai dogmi della
religione o è qualcosa di diverso,
qualcosa che devo sentire nascere e premere,
e crearsi e crescere dentro di me,
come se fosse
un  «mio» archetipo personale che, solo,
indica quello che io devo fare, raggiungere, sentire?
Forse, Padre mio, se io mi preoccupassi meno di quello che gli altri pensano di me
e di più di ciò che io penso di me stesso,
gran parte dei miei problemi avrebbero un altro significato e un altro senso.

Rodolfo


 

 


Padre mio, lo so che tutto quello che mi accade ha una sua ragione di esistere,
sono consapevole del fatto che ogni esperienza nel corso della mia vita
si presenta per aiutarmi a comprendere, a migliorare, ad avvicinarmi a Te passo a passo;
io cerco con tutta la mia forza, con le possibilità che ho per poterlo fare,
di rivolgermi verso di Te, a volte scegliendomi dei modelli da seguire
per poter riuscire – attraverso questi modelli – ad arrivare a identificarmi
sempre di più con l’idea che ho di Te, Padre mio.
Ma ahimè, io sono soltanto un pover’uomo, sono un figlio della realtà fisica,
con i legami, i condizionamenti, le strategie del mio Io che mi rendono ciò che sono
e ciò che manifesto all’interno della realtà fisica in cui mi trovo a fare esperienza;
e così accade spesso che persino la scelta dei miei modelli non sia la migliore che io potessi fare.
E poi perché scegliere un modello quando esisti Tu, Padre mio,
unico e vero – anche se inesprimibile modello – che parli dentro di me?
L’ascoltarti potrebbe rendere la Tua voce così forte e così limpida,
così pura da permettermi – se riuscissi ad ascoltarla con attenzione,
ad osservarla con attenzione – da modificare veramente il mio essere,
senza per questo arrivare ad accomodamenti o a compromessi
con quella che è la realtà esterna?
Questa realtà esterna che è fatta di continue maschere che io devo calare su ciò che sono;
questa realtà esterna che mi impone delle scelte che a volte preferirei non fare;
questa realtà esterna che mi presenta un mondo governato da individui
che non hanno una consapevolezza di se stessi ma sono, in realtà, guidati soltanto,
accecati sempre, da ciò che il loro Io reclama a gran voce per la sua volontà di potenza.
Padre mio, che vita difficile quella in cui sono immerso!
Eppure sarebbe tutto così semplice,
se io riuscissi a comprendere veramente chi sono e cosa sono.

Moti


 

 


Padre mio, com’è difficile questa vita che Tu mi hai donato!
Com’è difficile percorrere la strada che Tu hai tracciato
e che con tanta facilità io perdo di vista nel mio affannoso,
faticoso andare avanti!
Molte sono le cose che mi distolgono dal sentiero,
tante sono le paure che rendono
incerto il mio camminare;
tanti, tantissimi
sono i desideri che mi fanno perdere di vista
per un attimo, o per intere vite, qual è la
direzione giusta che stavo percorrendo.
Eppure, alla fine, Padre mio, so che la strada è sempre lì,
e sono certo che non la perderò mai veramente
perché la Tua voce mi chiama comunque in continuazione,
senza sosta, con amoroso e sollecito affetto,
ed è a questo
amoroso e sollecito affetto che io affido la mia vita,
la mia esistenza,
i miei dubbi, le mie paure, i miei desideri,
le mie fatiche, le mie ore, i miei giorni,
il mio essere qui, in Te e con Te.

Rodolfo


 

 


Padre mio, oggi, nel corso della mia vita, ho fatto una scoperta
e, per un momento, mi son sentito Cristoforo Colombo che scopriva l’America:
ho scoperto che sono capace di
aprirmi agli altri,
che sono capace di mostrare agli altri quello che ho dentro,
frapponendo un’infima parte delle barriere
che sono così bravo ad esibire normalmente.
E allora – mi sono chiesto – perché non l’ho mai fatto?
Perché, con tutte le possibilità che l’esistenza mi ha presentato,
ho preferito selezionare il mio darmi agli altri,
ho preferito negarmi a volte, ho preferito ammantarmi di tristezza,
o di delusione, o di vittimismo, allontanando gli altri da me,
invece di andare col cuore in mano e vedere se qualcuno lo poteva prendere?
Qual è la ferita che avevo paura di mostrare?
E ancora: “Ma c’era davvero questa ferita o, ancora una volta,
era una mia illusione, era un mio modo sbagliato, un mio timore,
una mia emozione fuori luogo?”
Questi saranno gli ultimi interrogativi che accompagneranno la mia esistenza
e ai quali dovrò dare una risposta che mi permetta di non ricominciare da capo
con gli stessi errori e le stesse sofferenze la prossima vita.
Magari adesso che, dopo essermi donato agli altri,
ho scoperto che si può stare meglio anche con un piccolo atto come questo,
forse riuscirò a farlo ancora con maggiore facilità
e questo già potrà essere un aiuto, Padre mio.

Scifo


 

 


Padre mio, io mi guardo attorno ad ogni istante
che passo lungo la mia strada faticosa e resto colpito,
emozionato, frastornato da ogni cosa nuova che incontro
e che mi fa comprendere quanto poco, in realtà, io conosca
e sappia.
In quei momenti, in quei rari, rarissimi momenti,
io riesco per un attimo a trovare veramente in me il senso dell’umiltà:
allorché mi sento sperduto, piccola goccia di colore anonima
– ma non per questo meno importante – sulla grande tela che Tu,
con
infinita pazienza, costanza e bontà hai creato.
Eppure, tendo l’attimo successivo a dimenticarmi
di quel senso di piccolezza di cui mi ero impadronito,
tendo a pensare a me stesso come se fossi il centro intero dell’universo
e non soltanto il piccolo centro del mio universo personale
del quale io sono abituato a considerarmi signore onnipotente e padrone;
perdo il senso della vastità del Tuo «Disegno»,
perdo il senso della grandezza, delle sfumature,
delle variazioni che Tu hai saputo creare,
perdo il senso della realtà delle altre gocce che sono sulla tela assieme a me
e me ne sto nel mio angolo, rappresentazione spesso statica
di qualcosa che possiede in se stesso, per sua stessa concezione,
una dinamicità estrema che permea tutto il Disegno
pur
rendendolo apparentemente fermo.
Eppure, Padre mio, non è che non desideri essere umile,
non è che io voglia con tutto me stesso cercare di essere migliore di come sono,
e allora arrivo a chiedermi:
«Ma sarà davvero, poi, colpa mia, responsabilità mia se io sono ciò che sono,
o non sarà semplicemente che io sono così perché così è stato dipinto nel Tuo Disegno
e, per non scombussolare tutto il Tuo lavoro, io devo per forza di cose adeguarmi ad esso?».
E allora, a questo punto, mi chiedo ancora:
«Ma quale è, in fondo, la mia vera responsabilità?
Di quanto o di cosa io posso essere responsabile? Di ciò che faccio?
Ma ciò che faccio è scritto, è dipinto, Tu l’hai dipinto;
quindi – semmai – Padre mio, la responsabilità non può essere che Tua!
Di ciò che dico?
Ma ciò che dico io lo dico perché Tu, Padre mio,
hai scritto che io lo dica, e allora come posso essere responsabile di questo?».
Tutto ciò che io sono, in fondo, risponde a queste caratteristiche
e tutto questo sembra riportarmi allora a considerare la responsabilità
sotto un altro punto di vista, finendo poi col portarmi a concepire
una responsabilità infinita che non mi appartiene
ma che appartiene soltanto a Te;
e anche se io non comprendo la necessità del Disegno,
anche se io non comprendo la necessità della sofferenza,
anche se io non comprendo la necessità della morte, del
dolore,
delle disgrazie, della solitudine, della disperazione,
allora, malgrado questo, io non posso far altro che dire:
«Sia fatta la Tua volontà» perché la responsabilità, Padre mio,
non può essere che Tua.
Tutto ciò che posso fare, o cercare, o illudermi di cercare qualcosa di più,
è cercare, o illudermi di cercare di conoscere più di quello
che un attimo prima conoscevo;
cercare, o illudermi di cercare di aiutare le altre persone;
cercare, o illudermi di cercare di essere migliore;
ma quell’immagine sulla tela, Padre mio,
esiste davvero, o anch’essa è soltanto un’illusione nella Tua Realtà?

Scifo


 

 


A Te Padre mio, ancora una volta mi rivolgo,
ma questa volta non per porti delle domande,
bensì per rivolgerTi certi pensieri che sono, spero, delle mie acquisizioni.
Io, Padre mio, sono immerso in questa materia che Tu, con una fantasia inimitabile,
hai saputo plasmare, creare, modificare, rendere sempre diversa attimo dopo attimo,
e con la mia consapevolezza, con la mia coscienza
sospesa tra cielo e terra,
sospesa tra la realtà fisica e la mia parte spirituale,
io mi trovo a dover affrontare giorno dopo giorno l’incontro
con gli avvenimenti che nella Tua materia fisica si svolgono.
Com’è facile, Padre mio,
com’è facile – per me e anche per tutte le Tue creature – arrivare a considerare
questa vita che Tu ci hai donato come se fosse continuamente una fonte
di
inesauribile e inevitabile sofferenza;
eppure, Padre mio, io sento che così non è, così non può essere,
perché questo non rientrerebbe nella logica della Tua essenza,
non potrebbe rientrare nel Tuo modo di essere il voler far soffrire
in continuazione coloro che da Te stesso sono scaturiti.
Questo – al di là di ogni discorso filosofico, al di là di ogni ragionamento mentale,
al di là di ogni insegnamento che io possa affrontare –
e solo questo pensiero mi basta per comprendere che la sofferenza che incontro
è una sofferenza che esiste soltanto perché in tal modo io la vivo.
Oh, certo, tra i miei compagni di viaggio c’è chi può aver perso
improvvisamente un
amore, che, inaspettatamente, ha visto spezzarsi quel filo,
quel legame che univa due persone e che sembrava essere indissolubile,
e questa persona certamente mi dirà che la sofferenza non è solo sua,
che in fondo colui o colei che ama o che ha amato,
e che amerà probabilmente per tutta la vita, non esiste più
e, quindi, la sofferenza non può essere soltanto una cosa sua.
Eppure io penso che quando sono nato, Padre mio,
nel momento stesso in cui ho cominciato ad aprire gli occhi alla vita,
in quello stesso momento ho incominciato a morire
e l’idea della morte mi ha accompagnato per tutta la vita.
Fin dai primi anni ho compreso che, prima o poi, non soltanto gli altri individui
ma anche lo stesso Io che sperimenta la materia in questo momento
abbandonerà il piano fisico.
Ecco così che l’idea della morte è diventata per me
– che io lo volessi o meno – familiare.
Certamente, posso non avervi posto molta attenzione,
come sempre accade quando le cose sembra che succedano agli altri
e che siano così lontane, ma col passare degli anni,
con i giorni che hanno portato via a poco a poco molte persone care,
ecco che quest’idea si è fatta sempre più vicina a me e, quindi, non mi sembra giusto
né logico pensare che io non potessi veramente essermi quasi arreso,
abituato all’idea che la morte prima o poi mi avrebbe toccato molto più da vicino
di quanto potessi pensare e che quindi, conoscendo questo fatto come una cosa vera,
la sofferenza sarebbe stata per me certamente non annullata,
ma quanto meno compensata dalla comprensione di un fatto che comunque,
prima o poi, sarebbe accaduto.
Certo, l’essere immerso nella materia costituisce uno dei miei più grandi limiti,
ma è soltanto un limite apparente, Padre mio,
io lo so;
io lo so, per aver sentito le voci dei Tuoi figli, che ciò che osservo non è la Realtà,
la Realtà più grande, definitiva, ma è soltanto la copertura di una realtà immensa
di cui io conosco solamente una piccola porzione e forse, Padre mio,
forse ho anche compreso il perché di questa limitazione,
forse sono arrivato a comprendere che se davvero non avessi questa limitazione
e potessi vedere tutta la realtà fin dal mio primo incarnarmi,
resterei talmente annichilito da ciò che potrei vedere e conoscere
da trovarmi completamente bloccato nella mia evoluzione.
E poiché, Padre mio, l’idea di Te, che mi accompagni con la Tua bontà
lungo il cammino per condurmi per mano fino a congiungermi,
a diventare una vera parte di Te, mi appartiene e non mi lascia mai
anche quando io da essa distolgo l’anima,
proprio per questo motivo, Padre mio,
io sono convinto, sono certo e so, sento, comprendo,
che tutto ciò che mi accade non può accadermi altro che per il mio bene
e la mia crescita, e per questo,
Padre mio,
ti son grato e ti ringrazio.

Moti


 

 


Padre mio, quante volte io mi osservo nelle mie giornate,
guardo i miei comportamenti,
i miei atteggiamenti,
osservo ciò che io sono, ciò che mi sforzo di essere,
ciò che voglio apparire di essere,
e quante volte – nel corso di questa mia osservazione interiore –
scopro in me stesso cose di cui non sospettavo neppure minimamente la presenza.
E  allora, come tutte le creature ferite nelle proprie aspettative,
la scoperta di come veramente sono porta con sé la sofferenza;
e l’incontro con la sofferenza,
Padre mio,
mi porta quasi inevitabilmente
a reagire ad essa
mettendomi, di fronte
al mondo che mi sta dinanzi,
una maschera dopo l’altra per non apparire come colui che soffre,
per apparire come colui che è sicuro
di sé, come colui che sa,
come colui che può, come colui che ha capito,
come colui che ha compreso la vita e guarda talvolta da un gradino più alto
i propri fratelli a voler significare, quasi con una certa sufficienza,
che comprende i loro problemi perché egli li ha già ormai superati.
Poi, altrettanto inevitabilmente, qualcosa scatta al mio interno
e allora finisco col ritrovare quel minimo di umiltà
che è necessaria per andare oltre a tutto questo,
e allora mi
osservo con maggior attenzione
e le mie maschere cadono ai miei piedi una dopo l’altra
come fittizie creature che non hanno alcuna vera ragione di esistere,
e il mio mostrarmi agli altri diventa un essere me stesso
consapevole dei difetti e anche dei pregi derivanti dalle comprensioni raggiunte;
e l’umiltà che sgorga dentro di me come un piccolo timido fiume
riesce a farmi restare in secondo piano
anche quando mi rendo conto che sarebbe molto facile ergermi
a protagonista della scena se soltanto lo facessi
e se soltanto un attimo prima l’avessi voluto fare.

Anonimo


 

 


Una cosa mi chiedo, Padre mio:
io mi guardo nel mio essere in contrasto con gli altri;
io mi guardo nel mio voler essere più degli altri;
io mi guardo nel mio lottare con gli altri e con me stesso;
io mi guardo nel mio essere io tutti i giorni,
un giorno dopo l’altro, e mi chiedo:
«Ma se davvero voglio cambiare la mia vita,
allora perché non la cambio?»

Moti


 

 


Quante volte Padre mio,
quante volte io potevo comprendere
e non ho compreso.
Quante volte Padre mio,
potevo fare e non ho fatto.
Quante volte Padre mio,
io potevo aiutare eppure non ho aiutato.
Quante volte Padre mio,
ho proiettato me stesso lontano
quando c’era bisogno di me vicino.
Quante volte Padre mio,
mi sono dimenticato della Tua esistenza
per cercare soltanto ciò di cui avevo bisogno,
senza rendermi conto che c’erano altri bisogni
di cui ero responsabile.
Cosa devo fare, Padre mio,
sentirmi in colpa per questo?
Proprio tu mi hai insegnato
che sentirsi in colpa non serve a nulla.
Tutto ciò che posso fare, Padre,
è cercare da domani di essere diverso.

Moti


 

 


Padre, perdonami l’orgoglio
che mi impedisce di chiedere scusa per un mio errore,
quello stesso orgoglio che non mi fa piegare di fronte all’altrui ragione,
quello stesso orgoglio che mi fa incrinare un matrimonio,
rovinare un rapporto, sciupare un’amicizia,
piuttosto che chinare il capo ed ammettere
di avere errato.
Ti prego, Padre mio, perdonami anche per quell’orgoglio
che non mi fa accettare le idee degli altri,
che mi impedisce di sentirli miei fratelli
anche nei momenti in cui mi rivolgono delle critiche
– giuste o sbagliate che esse siano –
che non mi fa comprendere che un rimprovero, una opposizione,
possono anche essere segno di aggressività repressa
ma sempre sono segno di non indifferenza,
cioè d’amore nei miei confronti.
Concedimi il Tuo perdono, Padre mio,
per tutte le lacrime che, per orgoglio,
non ho
lasciato sgorgare dai miei occhi.
Tu lo sai che c’erano, ed erano copiose dentro di me,
ma sai anche quanta fatica mi costa mantenere integra
la mia immagine di essere orgoglioso, forte,
invulnerabile alle avversità, intoccabile dal dolore.
Aiutami, Ti prego, Padre mio,
a trovare l’unico orgoglio che veramente valga la pena di possedere:
quello di sentirmi una Tua creatura
e di poterTi chiamare Padre.

Viola

Il piano e il corpo mentale, il cervello, il linguaggio, l’intelligenza, la memoria

d-30x30Il piano e il corpo mentale. Dizionario del

Formato per la stampa, A4, 16 pagine

Il piano mentale, il suo corpo
Lingua e linguaggio
L’intelligenza
La memoria

[…] Anche il piano mentale è costituito di materia che si va formando grazie all’aggregazione di quell’unità materiale di base della materia mentale che abbiamo definito in passato unità elementare mentale.
La materia del piano mentale – analogamente a quanto avevamo detto per il piano astrale – è suddivisibile (per comodità teorica) in sette sottopiani classificabili in base alla densità della materia mentale che li compone. Si va così dal sottopiano di materia più densa (oltre il quale si arriva alla materia astrale) a quello meno denso (oltre il quale si arriva alla materia akasica).
Come la materia del piano astrale possiede la capacità di mutare e trasformarsi sotto la spinta dei desideri e delle emozioni rispondendo alle sollecitazioni emotive che provengono dall’esperienza vissuta sul piano fisico, altrettanto accade per il piano mentale. In questo caso, però, è il pensiero a indurre trasformazioni nella materia mentale che risponderà sollecitamente ad ogni pensiero emesso da un corpo mentale, mettendo in essere particolari caratteristiche come, ad esempio, la possibilità, per chi è disincarnato e consapevole sul piano mentale, di poter arrivare a conoscere tutto quello che nel passato dell’uomo è stato conosciuto con l’ausilio della sola spinta del desiderio di conoscere.
E’ evidente che anche su questo piano la spinta ad agire è fornita dal desiderio e, quindi, dai bisogni del corpo akasico: senza di essa l’individuo non si muoverebbe e la vita dei suoi corpi sui vari piani sarebbe estremamente statica.
Ritornando un attimo alla suddivisione in sottopiani del piano mentale, possiamo sostenere che i piani inferiori, quelli più densi, hanno influenza principalmente sulle funzioni fisiche e fisiologiche (nonché su quelle astrali) del corpo dell’individuo oltre che sull’uso del linguaggio e delle parole, mentre quelli più sottili forniscono all’individuo le capacità di pensiero, ovvero le capacità di elaborazione, di sintesi, di correlazione e via dicendo, tutte quelle capacità, insomma, che solitamente – per chi non è addentro come voi all’insegnamento esoterico – vengono erratamente attribuite al cervello.
Il cervello, invece, non è il produttore del pensiero: esso costituisce il principale punto di contatto del corpo fisico con il corpo mentale, è una sorta di ricettore, di traduttore di ciò che il corpo mentale elabora, ed ha il fine di rendere possibile all’individuo incarnato di esternarsi sul piano fisico e di relazionarsi sia con la complessità esterna che con la personale complessità interiore. E’ attraverso il cervello (ma non solo, perché la materia mentale contatta anche direttamente tutti i punti del corpo fisico mettendo in atto meccanismi locali di autodifesa fisiologica, per esempio) che il corpo mentale influisce sul corpo fisico, lo fa muovere e agire per seguire ciò che i pensieri che il corpo mentale ha elaborato lo inducono a sperimentare nel corso della vita.
Se vi chiedessi a cosa serve il corpo mentale sono certo che tutti voi rispondereste che serve per pensare ed io non potrei che assentire, tuttavia il corpo mentale è più complesso e ha altre importanti funzioni oltre a quella di elaborare il pensiero, funzioni che osserveremo più avanti. D’altra parte per quanto riguarda il pensiero potreste commettere l’errore che esso abbia la sua nascita, la sua genesi, all’interno del corpo mentale, mentre in realtà non è così: il pensiero nasce e viene a formarsi sotto la spinta dei bisogni di comprensione dell’akasico e, ancora più precisamente, sono le vibrazioni akasiche che, interagendo con la materia mentale, mettono in moto all’interno di essa quell’insieme di vibrazioni che porta la materia mentale ad elaborare quella forma di dati concatenati che costituisce quello che comunemente viene definito pensiero.
Ma vedremo in seguito di fornirvi un quadro un po’ meno approssimativo di come e perché ciò avvenga, sperando di riuscire ad essere il più chiaro possibile in un campo difficile da spiegare mettendolo alla portata di individui incatenati alla fisicità.
Naturalmente anche per il corpo mentale è valido quanto detto per il corpo astrale: esiste un’atmosfera mentale ed esiste un ambiente mentale; le loro caratteristiche generali sono rapportabili a quanto detto per il corpo astrale e fisico (Ndr: vedere il volume «La fonte del desiderio e delle emozioni «) e su di esse non ha molta importanza soffermarci più che tanto, se non per sottolineare che l’ampiezza e la forza di quest’ambiente e di questa atmosfera sono direttamente riferibili alla qualità e alla forza delle vibrazioni emesse dalle materie che compongono il corpo mentale dell’individuo incarnato.
Ascoltando le vostre discussioni mi sembra di aver individuato un fraintendimento delle parole dell’insegnamento o, quanto meno, una non perfetta comprensione di quale sia il rapporto tra il corpo mentale dell’individuo ed il suo essere vivo all’interno del piano fisico. Vediamo se riesco a riassumere uno dei luoghi comuni a cui siete fortemente attaccati e dal quale voglio cercare di farvi un poco discostare.
Voi dite: «L’organo che manifesta il corpo mentale è il cervello».
Bene, fratelli miei, non è esattamente così: come al solito la Verità è più ampia di quanto solitamente la mente umana riesca a immaginare, anche nei suoi momenti di più sfrenata inventiva! Per farvi comprendere dove voglio arrivare devo, purtroppo, tornare un attimo indietro a concetti ormai lasciati alle spalle però necessari per portarvi a comprendere.
Avevamo detto spesso che le materie dei vari corpi dell’individuo non sono (come può apparire a prima vista a causa della catalogazione usata per fornirvi le nozioni dei piani di esistenza) una sopra l’altra ma, più giustamente, esse si compenetrano, cosicché delimitando una qualsiasi porzione del corpo dell’essere incarnato, si individua non soltanto una porzione di corpo fisico ma, anche, una porzione di corpo astrale e una di corpo mentale. Questo significa che un’esperienza che interessa una certa porzione del corpo fisico, interessa contemporaneamente una porzione del corpo astrale e una del corpo mentale.
Per fare un esempio pratico: state raccogliendo delle rose dal vostro giardino quando una delle sue spine vi punge un dito.
Cosa si può presumere che accada ai vostri corpi inferiori in concomitanza con la puntura di quella spina?
Come conseguenza della lacerazione della pelle del vostro dito vi sarà la reazione da parte del vostro corpo fisico, reazione che porterà, per esempio, alla fuoriuscita di sangue o all’arrossamento della parte ferita.
Contemporaneamente la spina avrà provocato al vostro dito una sensazione di dolore e questa sensazione di dolore si trasforma, all’interno del vostro corpo astrale, in un’emozione: vuoi una semplice emozione di risposta alla sensazione fisica del dolore subito vuoi, per fornirvi un esempio, la stizza per non essere stati abbastanza attenti nel cogliere la rosa.
La vostra reazione irata giunge al vostro corpo mentale che, sfrondandola dalle emozioni avvertite, la analizza e deduce da quell’esperienza le conseguenze logiche che può trarre da quel piccolo incidente, ad esempio la necessità di prestare una maggiore attenzione alle proprie azioni.
Quello che voglio sottolineare è che tutto questo lavorio può avvenire completamente al di fuori del vostro cervello: la materia mentale collegata al dito ferito porta al corpo mentale i risultati di quell’esperienza senza necessariamente passare per il cervello.
Penso che voi non sarete completamente d’accordo con le mie parole o, quanto meno, che nutrirete dei forti dubbi: forse che, obietterete, il dolore sentito non passa per il cervello? Non posso che essere d’accordo con voi su questo punto, tuttavia le cose non stanno propriamente come pensate voi.
Per prima cosa vorrei ricordarvi che l’organo che voi definite cervello è un insieme di materia fisica al quale, come dicevo poco prima, è collegata sia una porzione di materia astrale che una porzione di materia mentale. Se siamo d’accordo (e penso di sì) che ogni materia interagisce con le altre nei corpi dell’individuo, allora dobbiamo arrivare a dedurre che il cervello è comunque sottoposto direttamente anche alle influenze del corpo fisico e a quelle del corpo astrale, e non solo a quelle del corpo mentale. Tant’è vero che un forte trauma fisico può provocare, per fare un esempio, una totale amnesia, così come una forte emozione può ripercuotersi sui centri del linguaggio siti nel cervello provocando un’improvvisa balbuzie o un’incapacità a profferire alcunché.
Allora, in che senso è stato detto, in passato, che il cervello è la centralina del corpo mentale?
Nel senso che il cervello è costituito in maniera tale da fare da raccolta per la maggior parte dei dati provenienti dalle sensazioni e dalle emozioni che provengono dall’esperienza sul piano fisico (attenzione: solo la maggior parte, però, e più avanti vi spiegherò cosa resta fuori) radunandoli in maniera compatta per favorirne la ricezione da parte del corpo mentale il quale, in risposta, attraverso il cervello stesso, diramerà gli aggiustamenti che riterrà necessari (sia alla materia astrale che a quella fisica) in base ai dati ricevuti.
In altre parole, se non vi fosse il corpo mentale a sovrintendere il cervello, la nostra puntura al dito potrebbe avere come conseguenza, per esempio, uno sgorgare del sangue molto più protratto nel tempo di quanto accade in realtà, perché le difese automatiche del corpo fisico non garantirebbero il pressoché immediato attivarsi del lavorio fisico che permette di accelerare il processo di arresto del sangue.
Allo stesso modo il dolore provato sarebbe più duraturo nel tempo, di conseguenza l’emozione del corpo astrale più intensa e prolungata con le ovvie conseguenze che ciò potrebbe portare. Ecco, quindi, che il cervello può essere senza dubbio visto anche come l’organo a cui è collegato il corpo mentale ma, principalmente, va immaginato come l’organo usato dal corpo mentale per diramare nel corpo astrale e nel corpo fisico le direttive che da lui provengono.
Avevo affermato in precedenza che il cervello raccoglie le risultanze della maggior parte delle percezioni, delle sensazioni e delle emozioni che provengono dall’esperienza fatta sul piano fisico, lasciando così intendere che vi è una parte di queste percezioni, sensazioni ed emozioni che possono non arrivare al cervello.
Così è, infatti: esiste una grande quantità di piccole sensazioni e percezioni fisiche, oltre che di emozioni astrali, che possiamo definire localizzate in una determinata area fisica o astrale, le quali perdono velocemente la loro valenza di disturbo, cosicché le reazioni che provocano non arrivano al cervello ma vengono in qualche maniera gestite e sistemate, direi quasi automaticamente, da quella porzione del corpo mentale collegato alle parti in questione. Accade cioè che determinate porzioni di materia del corpo mentale, senza passare per il flusso e riflusso tra cervello e corpo mentale, mettono in atto e coadiuvano le leggi naturali che, spontaneamente, tendono a riportare tutta la materia di tutti i piani ad una condizione di stabilità e di equilibrio.
E’ chiaro, ad esempio, che un piccolo e trascurabile foruncolo cutaneo non viene aiutato a risolversi direttamente dal cervello o dal corpo mentale nel suo insieme, bensì dalla parte di materia del corpo mentale ad essa collegata, la quale metterà in azione localmente quell’attività biologica e fisiologica che porterà gradatamente alla guarigione del foruncolo in questione.
Quello che mi premeva farvi capire con questi miei ragionamenti, era che il cervello, di per se stesso non è autonomo se non nella misura in cui mette in atto le leggi della natura all’interno del corpo fisico, e anche in questo caso è comunque costretto a incanalarsi e a muoversi lungo i binari che le leggi naturali gli hanno messo a disposizione..
Volevo, inoltre, farvi rendere conto che il corpo mentale influisce su ogni individuo anche al di là del suo cervello… se così non fosse non avrebbero senso, ad esempio, i lunghi anni di vita dei cerebrolesi, e la loro esistenza potrebbe soltanto sembrare una prova evidente dell’inesistenza di Dio o, quanto meno, della sua indifferenza – se non addirittura ostilità – verso l’essere umano.
Le Guide, nel corso degli anni, hanno tolto a quest’organo del corpo umano molta della sua importanza (pur non potendone certamente negare l’assoluta necessità e insostituibilità) asserendo, ad esempio, che la concezione comune che sia il nostro cervello a pensare sia sbagliata e che, in realtà, colui che pensa è il corpo mentale, cosicché il cervello obbligatoriamente deve essere identificato più come l’organo del corpo fisico che riflette sul piano fisico i pensieri emessi dal corpo mentale che come il rappresentante principe dell’individuo stesso. A mia volta io vorrei togliere al cervello un’altra ipotetica funzione che la mitologia del paranormale gli attribuisce: quella di essere l’organo che trasmette telepaticamente.
La telepatia avviene non da cervello a cervello come solitamente viene ritenuto, bensì da corpo mentale a corpo mentale, attraverso le energie e le materie proprie del piano mentale. Nelle comunicazioni telepatiche non si può trovare, quindi, nulla che possa venire misurato con l’ausilio di una strumentazione fisica, e questo dà ragione ai detrattori del paranormale che affermano di non aver riscontrato emissioni cerebrali particolari che possano dare ragione di un passaggio di informazioni telepatiche da un individuo ad un altro.
Naturalmente ciò non prova che costoro abbiano ragione, ma semplicemente che essi – con la presunzione e la mancanza di umiltà che spesso accompagna la scienza – presumono e teorizzano sulla base di informazioni altamente deficitarie che, in quanto tali, non consentono loro una visione adeguata della realtà, quanto meno per l’argomento in questione.
Dal canto mio sorge spontaneo il chiedermi: è poi davvero così importante ed essenziale provare l’esistenza della telepatia o dimostrarne l’inesistenza?
Esistono senza alcun dubbio altre cose ben più importanti ed essenziali (oltretutto già ben più che provate) a cui dedicare le proprie energie. E’ provata l’esistenza di milioni di persone che non hanno di che cibarsi o che muoiono per le strade durante l’inverno perché non hanno una casa in cui vivere.
Ma, purtroppo, è tipico di una certa categoria di esseri umani preoccuparsi più di dimostrare l’esistenza o l’inesistenza della telepatia che, magari, di far crescere in maniera sana – interiormente ed esteriormente – i propri figli.

* * *

Parola, lingua, linguaggio

Tra i doni che il Grande Architetto ha elargito a quella fase dell’evoluzione che è rappresentata dall’essere umano, ve n’è uno che può essere considerato lo strumento principale per il rapportarsi dell’uomo non soltanto con se stesso ma, specialmente, con ciò che gli è esterno.
Questo dono è la parola.
La parola fornisce all’uomo i mezzi per esprimere ciò che prova interiormente, per attuare i dettami della sua evoluzione o dei suoi bisogni di comprensione all’interno del piano fisico.
Certamente anche un muto può rapportarsi con la realtà a lui esterna e con quella interiore ma, certamente, rapportarsi agli altri attraverso il linguaggio dei gesti o, magari, la scrittura, non offre le stesse possibilità di evidenziare le sfumature del proprio essere che offre l’uso del linguaggio, né la stessa velocità di esternazione di se stessi.
Il linguaggio dell’uomo è strettamente correlato all’evoluzione dell’essere umano; come disse una volta il fratello Scifo: il linguaggio di una popolazione è andato differenziandosi da quello di un’altra non soltanto per ragioni «filologiche «, ma anche per consonanza di tipo di vibrazione ai bisogni evolutivi di una certa popolazione.
Se ci pensate un attimo con attenzione potrete facilmente rendervi conto da soli che le varie lingue sono associate a particolari caratteristiche generali delle popolazioni che le usano; basti pensare alla lingua italiana che con la sua complessità, la sua vivacità, il suo fluire un po’ fracassone identifica abbastanza precisamente quali sono le peculiarità caratteriali della popolazione italiana… fornendo, ovviamente, non un’immagine del singolo individuo, bensì quella della popolazione nel suo complesso.
«All’inizio era la Parola» viene detto negli antichi testi sacri».
Avete mai provato a pensare a questa frase rapportandola all’insegnamento che vi abbiamo proposto in questi anni?
Come la si può tradurre nell’ottica del nostro insegnamento filosofico?
E’ sufficiente pensare che la parola è un suono, quindi un’emissione di vibrazioni, per trovarsi la soluzione a portata di mano: gli antichi saggi (che avevano afferrato la Verità ma potevano soltanto offrirla in maniera che si svelasse solo a chi era pronto a recepirla) sapevano, evidentemente, quanto da noi detto, ovvero che la creazione della Realtà, la formazione dei Cosmi, il Grande Disegno, hanno avuto origine da una vibrazione Prima che ha indotto nelle materie che attraversava quel soffio – ancora una vibrazione, a ben vedere, e il Soffio è l’analogo orientale del termine Parola (o Verbo) usato dagli occidentali – che vivificava e differenziava la materia dando il via alla creazione della Realtà.
Non è mia intenzione addentrarmi in questioni filosofiche troppo profonde e complesse che possono magari soddisfare il palato di alcuni di voi ma che risultano certamente noiose e troppo rarefatte per la maggior parte degli altri possibili lettori di questi miei discorsi..
Voglio invece arrivare ai rapporti tra il cervello e il corpo mentale per quello che riguarda la parola.
E’ evidente che il cervello è strettamente legato alla parola: il semplice fatto che la medicina abbia accertato la presenza nel cervello di particolari aree che permettono lo sviluppo e la produzione del linguaggio da parte dell’individuo ne è una prova decisamente incontestabile.
Se il cervello non ha quelle aree integre all’individuo non è possibile parlare.
Ma è possibile che, anche in quelle condizioni menomate, egli possa pensare? Certamente sì: anche questo, dall’osservazione dei fatti della vita, risulta incontestabile.
Ma il pensiero del muto è fatto di parole?
Ancora una volta bisogna rispondere di sì, anche se la conseguenza logica di quanto stavamo dicendo potrebbe aver fatto supporre una risposta negativa a questa domanda. Vediamo di arrivare a questo punto partendo da un’altra angolazione.
Il corpo mentale, abbiamo detto, è il vero «pensatore «, è colui che pensa, mentre il cervello è soltanto l’organo attraverso il quale i pensieri del corpo mentale si «fisicizzano» per espletarsi nella realtà fisica dell’individuo.
Tuttavia il corpo mentale non pensa necessariamente solo attraverso parole: usa simboli, concetti, condensazioni di dati, vibrazioni complesse propri della materia mentale che, comunque, non sarebbero riconoscibili come parole così come siete abituati ad ascoltarle voi.
Due entità consapevoli sul piano mentale possono comunicare tra di loro, ma la loro comunicazione può non avvenire attraverso le parole bensì attraverso l’uso di vibrazioni che hanno la stessa funzione della parola per l’uomo incarnato, ma che portano in sé una massa molto più complessa di dati e di elementi rispetto alla parola, cosicché la comunicazione risulta più completa e ricca di informazioni.
Com’è, allora, che viene a formarsi la parola quale risultato della trasmissione dei pensieri del corpo mentale verso il fisico?
Ciò avviene attraverso la decodifica delle vibrazioni del pensiero del corpo mentale attuata spontaneamente da certe zone del cervello che ricevono le vibrazioni mentali e, per approssimazione o similitudine, le associano a quegli schemi vibratori che, al suo interno, sono associati alle varie parole.
Se si considera il fatto che la creazione cerebrale delle parole del linguaggio dell’individuo è subordinata alle cose apprese nel corso dell’esistenza (dalle voci degli altri – i genitori in particolare – a ciò che l’individuo impara studiando, leggendo, comunicando e via dicendo) ci si può rendere facilmente conto che la traduzione del pensiero del corpo mentale in parola all’interno del cervello è, ovviamente, condizionata dagli schemi di linguaggio presenti nel cervello in questione, schemi che gli permetteranno di esprimere in maniera esatta solo una parte dei reali pensieri del corpo mentale.
Per farvi un esempio di ciò che potrebbe accadere, il corpo mentale di un pigmeo potrebbe meditare sulla fisica quantistica ma il pigmeo non potrebbe mai tradurre in comunicazione comprensibile agli altri pigmei intorno a lui questi pensieri perché non ha assimilato nel proprio cervello gli schemi vibratori necessari per esprimere concetti di quella portata e di quella complessità.
Ciò non significa (e qua torniamo all’impossibilità di giudicare gli altri) che il pigmeo in questione non abbia magari in sé, e anche compresi, quei concetti.
Né tanto meno, ovviamente, che tale impossibilità lo possa far classificare inferiore rispetto ad un fisico quantistico che, molto spesso, per fare un esempio, perde più facilmente contatto con la realtà e con ciò che è importante nella vita di quanto accade al più ignorante e incolto dei pigmei! Ne consegue, a questo punto, la funzione e l’utilità della cosiddetta «cultura «: attraverso di essa vengono forniti al corpo mentale degli schemi e delle associazioni cerebrali più complesse e diversificate che gli offrono la possibilità di trasmettere all’esterno di se stesso, durante la comunicazione fisica, una maggiore quantità di sfumature e di concetti.
Come sempre esiste il rovescio della medaglia che, nel caso dell’uomo colto, è costituita dalla presunzione che può permeare chi possiede una certa cultura o l’incapacità, fra la diversificazione estrema delle sfumature, di perdere di vista quelle che sono le linee logiche e più importanti del pensiero trasmesso dal corpo mentale (che, non dimentichiamolo, ha la funzione di avviare verso la comprensione) caricandolo di sovrastrutture spesso superflue che offrono spunti e occasioni all’Io per mascherare meglio ciò che non vuole conoscere, riconoscere o affrontare.

* * *

Intelligenza

Definire cosa sia l’intelligenza è sempre stato alquanto ostico per tutti coloro che, nei millenni, si sono provati a farlo.
Nella maggioranza dei casi essa ha finito con l’essere definita rapportandola a particolari qualità dell’individuo, rendendo quindi la definizione, già di per sé, soggettiva e relativa al punto di vista di chi ha tentato di definirla.
Ancora oggi non vi è una definizione unanime: chi la definisce come capacità di risolvere problemi, chi la teorizza come capacità di adattarsi alle situazioni nuove, chi la divide in settori cercando di isolarne i vari fattori, arrivando, così, a parlare di intelligenza motoria o verbale o attitudinale… e via dicendo.
In tutti i casi, però, la conseguenza sembra essere stata quasi sempre questa: l’intelligenza dell’individuo è stata vista, nei secoli, come qualcosa di strettamente legato a ciò che egli esplica sul piano fisico, nel suo rapportarsi quotidiano con ciò che la vita di ogni giorno, di volta in volta, gli presenta.
Io ritengo che tutti questi criteri (anche se utili per cercare di quantizzare qualche aspetto particolare dell’individuo) hanno il difetto di cercare di voler dimostrare qualche cosa senza avere una vera idea di partenza di che cosa sia, realmente, ciò che si desidera misurare, ed hanno nella loro relatività i limiti stessi della loro capacità di definire univocamente cosa sia l’intelligenza.
Facciamo alcuni esempi per cercare di chiarire cosa intendo dire.
Se l’intelligenza potesse essere definita, come sostengono alcuni, come la «capacità di risolvere problemi» questo dovrebbe significare, per assurdo, che un bravo falegname è senza ombra di dubbio più intelligente che so io, di un Einstein per il quale piantare nel modo giusto un chiodo era qualcosa che andava al di là delle sue possibilità manuali (o, forse, del suo interesse).
Se l’intelligenza potesse essere definita come «capacità di adattarsi alle situazioni nuove «, invece, la maggioranza di voi potrebbe essere facilmente etichettata come «idiota» dal momento che non riuscirebbe a fare ciò che riesce a fare, egregiamente e senza grosse difficoltà, una qualunque scimmia nelle foreste indiane, cioè sopravvivere.
Se vogliamo, perciò, trovare una definizione di intelligenza che sia adattabile ad ogni creatura, bisogna trovare un metro uniforme, che valga per chiunque e in qualunque condizione quotidiana egli possa trovarsi… e non vi può essere che un elemento che soddisfi pienamente queste condizioni a cui poter fare riferimento: l’evoluzione.
Tenendo, quindi, come punto di partenza l’evoluzione, secondo me si potrebbe definire l’intelligenza come la capacità di trarre elementi utili per la propria comprensione (e quindi per la propria evoluzione) riuscendo a non farsi fuorviare da ciò che si sta vivendo.
Non ha più alcun senso, usando quest’ottica, parlare di persone più intelligenti o meno intelligenti: ha maggiore intelligenza chi ha compreso più elementi della Verità e più facilmente riesce ad attenersi ad essa, e questo accade come semplice conseguenza derivante dal fatto di aver più elementi compresi e quindi maggiore possibilità di intrecci e di connessioni tra di essi.
Questo non significa che chi è più intelligente sia più bravo, oppure che sia migliore, né, tanto meno, che di fronte ad un’avversità non soffra.
Significa solamente che, con tutta probabilità, la sua sofferenza sarà limitata, nel tempo e nell’intensità, dalla comprensione della Verità.
Significa che cercherà non di prevaricare chi appare meno intelligente di lui ma di apprendere da costui quelle sfumature che egli stesso, magari non ha ancora appreso.
Significa essere consapevoli di aver imparato molto ma, anche, di aver ancora molto da imparare, con l’enorme senso di umiltà che, inevitabilmente, ciò porta con sé.
Voi, da bravi scolari che hanno assimilato l’insegnamento rileverete che avevamo detto che nessuno, quando è incarnato, esprime realmente, fino in fondo, l’evoluzione che possiede, essendo soggetto alle limitazioni espressive dei corpi transitori che di volta in volta possiede e che, essendo mirati a conseguire essenzialmente, nel corso di quella vita, solo definite porzioni di comprensione, non sono strutturati in maniera tale che le comprensioni accantonate nel corpo akasico (e quindi l’evoluzione raggiunta) possa fluire in maniera soddisfacente e manifestarsi nell’individuo nel corso della sua esperienza sul piano fisico.
Questo non invalida il rapporto che abbiamo cercato di definire tra evoluzione e intelligenza dell’individuo, ma pone semplicemente dei limiti alla sua espressione, portando con sé l’ovvia conseguenza che, comunque, dal comportamento che tiene l’individuo nel corso della sua vita non è possibile (specialmente osservandolo dall’esterno) risalire alla sua intelligenza reale, né, tanto meno, arrivare a quantificare l’evoluzione che egli possiede.
Lasciando l’Assoluto fuori concorso perché con Lui, com’è ovvio, non esiste possibilità alcuna di gareggiare, volete sapere chi, secondo me, è l’individuo più intelligente di chiunque altro? E’ quell’individuo che è capace di seguire in maniera spontanea il Grande Disegno, sorretto dalla consapevolezza che ciò che accade accade perché è necessario che accada e che, comunque, niente di meglio per sé potrebbe mai auspicare che accadesse.
«Comportamento passivo alla orientale» sentenzierete voi, ma non vi è nulla di passivo in quanto ho affermato: non ho detto che il Grande Disegno va subito passivamente anzi, l’intelligenza viene messa in atto e dimostrata nel momento stesso in cui l’individuo riesce a seguire (oppure, al limite, cerca di opporsi ad esso) andando contro ciò che il suo Io transitorio gli detterebbe di fare e riesce a rendere utile per una sua ulteriore crescita proprio la constatazione della differenza tra ciò che il suo Io vorrebbe che fosse e ciò che, invece, nella realtà quotidiana dei fatti, è.
L’intelligenza, quindi, fratelli miei, non è un attributo del corpo fisico, né del cervello, né del corpo mentale.
E’, invece, un attributo dell’intero individuo con tutti i suoi corpi e nasce e si struttura – parallelamente a quanto accade per la comprensione – proprio a seguito di come egli riesce ad usare nella maniera migliore tutti quei corpi, tutti quegli strumenti che gli sono stati forniti per aiutarlo ad avvicinarsi, passo dopo passo, alla Verità.
Da quello che ho detto in precedenza sembra che io attribuisca un ruolo di poca importanza alla cultura.
Non potreste pensare niente di più sbagliato: la cultura è un’acquisizione importante per ogni essere umano perché gli fornisce gli strumenti per comprendere meglio, attraverso l’uso appropriato del suo corpo mentale, ciò che vive. Inoltre, come ho accennato in precedenza, fornisce catene logiche, addentellati, possibilità di paragone, di connessione, di confronto con ciò che altri hanno detto o fatto nei secoli e che, magari, lui non ha mai esperito.
Se prendessimo un evoluto e gli facessimo vivere una vita situata in un ambiente culturalmente molto povero, teoricamente sarebbe un individuo che vive una vita tra le più infelici ed inutili perché gli verrebbero a mancare i mezzi per esprimere il suo livello evolutivo (anche se, come sempre accade in ogni incarnazione, l’evoluzione personale viene espressa soltanto in maniera limitata rispetto all’evoluzione reale posseduta). Questo è vero solo teoricamente, però, e vorrei spiegarvene i motivi.
Innanzi tutto ogni individuo che si incarna lo fa nel tempo e nel luogo più adatti ad esprimere il proprio livello evolutivo.
In secondo luogo non dovete pensare che la vostra cultura sia data soltanto da ciò che avete appreso nel corso della vita corrente: il concetto di cultura andrebbe considerato, in realtà, molto più vasto e complesso, e dovrebbe abbracciare tutto quello che l’individuo ha imparato e conosciuto nel corso delle sue varie vite.
Infatti, ciò che è stato sperimentato e che si ha imparato durante le varie reincarnazioni non è andato perduto ma ha lasciato, all’interno del corpo akasico dell’individuo, quelle tracce importanti e insostituibili che noi abbiamo definito comprensioni e che sono essenziali alla costituzione e a all’allargamento della coscienza, del sentire dell’individuo e, di conseguenza della sua evoluzione..
In altri termini: se si può affermare che il cervello del neonato, nei primi momenti di vita può essere considerato una «tabula rasa» (cioè privo di cognizioni), lo stesso non non si può affermare per il corpo mentale che, per la sua vicinanza al corpo akasico che «gestisce» la sua costituzione, ritrova facilmente gli allacciamenti con ciò che ha appreso e compreso nelle vite precedenti, dando luogo ad una base su cui il nuovo individuo incarnato andrà ad aggiungere le nuove conoscenze e comprensioni che incontrerà nel corso della vita che si troverà a dover vivere.
Questo spiega determinate «inclinazioni» dell’individuo: per esempio chi ha trascorso una vita studiando musica può, nelle vite successive, mostrare una particolare facilità per tutto quello che riguarda la musica, trovando in sé capacità insospettate o particolare velocità di apprendimento (sarebbe meglio dire di riapprendimento!) in quell’ambito.
Non dimentichiamo che il corpo mentale si costituisce certamente in base alle necessità evolutive dell’individuo nel corso della vita che va a vivere, tuttavia raccogliendo il tipo di materia mentale che l’evoluzione raggiunta (e quindi anche la conoscenza) gli permette di attrarre a sé.
Dire – come talvolta viene detto – che il corpo akasico «ordina» la costituzione di un particolare corpo mentale può, forse, trarre in inganno: è probabilmente più esatto dire che il corpo mentale si costituisce, ad ogni incarnazione, grazie alle sollecitazioni vibratorie dei bisogni di comprensione dell’akasico in maniera tale che viene data preminenza alla raccolta di quel tipo di materia mentale che può essere più valida nell’aiutare, appunto, a raggiungere le comprensioni di cui l’akasico sente la mancanza.
Vediamo di fare un esempio pratico. Supponiamo che l’individuo che si deve incarnare abbia necessità di comprendere che non è la cultura la cosa più importante della vita.
Sotto la spinta delle vibrazioni akasiche possono esservi – per non complicarci troppo le cose – almeno due diverse possibilità (ricordate, naturalmente, che stiamo semplificando molto le cose: non vi è mai un solo fattore vibratorio di richiesta akasica, ma molteplici, ed essi si combinano dando vita a un corpo akasico che risponde a tutti questi molteplici fattori a seconda dell’urgenza o dell’importanza delle cose da comprendere).
In un primo caso il corpo mentale raccoglie in sé principalmente materia dei sottopiani mentali superiori, quelli più rarefatti e preposti al ragionamento, fornendo così, all’uomo che nasce, un corpo mentale portato a conoscere, a correlare, a paragonare; portato, cioè, a fare della cosiddetta «intelligenza umana» il perno, il motore della propria esistenza. E’ evidente che, possedendo con un corpo mentale di tale genere, la sua vita sarà portata verso la sperimentazione delle proprie capacità mentali con la tentazione di considerarle il mezzo principe per agire nelle giornate. Ciò lo potrebbe portare alla comprensione che il ragionamento, la cultura, la conoscenza da soli non bastano a rendere l’individuo migliore.
In un secondo caso potrebbe accadere, invece, esattamente l’opposto: il corpo mentale si costituisce (sotto la spinta di altre necessità ritenute dall’akasico probabilmente primarie) raccogliendo materia dai sottopiani più densi del mentale, quelli a cui fanno capo la vita istintiva e la reattività fisiologica e fisica.
In questo caso l’individuo non avrebbe «l’intelligenza» adatta per occuparsi più che tanto della cultura e della conoscenza, ma potrebbe arrivare a comprenderne l’utilità e la necessità in determinati aspetti della vita; ecco che così potrebbe arrivare a rendersi conto – come nell’altra ipotesi che abbiamo fatto – che l’individuo ha necessità di tutte le sue componenti e che nel momento in cui ne adopera una sola a scapito delle altre crea una disarmonia e, quindi, una maggiore difficoltà di comprensione per l’akasico che riceve dati parziali, poco collegabili agli altri che gli giungono inducendolo a rinviare le vibrazioni di richiesta di maggiori informazioni utili ad una vita successiva.
Tutto questo sta a significare che può accadere, per assurdo, che l’individuo di ottima evoluzione non abbia un corpo mentale tale da brillare per «intelligenza» agli occhi degli altri uomini che l’osservano.
Questo significa ancora che (lo abbiamo già accennato in precedenza, ma essendo un elemento la cui comprensione è basilare ci tengo a ripeterlo) è difficile giudicare l’evoluzione di un individuo incarnato sulla scorta di come si comporta nel corso della vita perché, certamente, non mostra tutta l’evoluzione che possiede ma soltanto quella che riesce a farsi strada nelle materie che compongono, in quel momento, i suoi corpi transitori.
Ai fautori della conoscenza non posso che rivolgermi ricordando loro che, come dicono sovente le Guide, conoscere non significa aver compreso. Se così fosse la via verso la Verità sarebbe semplicissima e ben delineata: basterebbe leggere per tutta la vita immagazzinando dati su dati.
Certamente avere una base ben articolata di conoscenza aiuta il corpo mentale a ben strutturare, a sua volta, i dati che gli provengono dall’esperienza fisica ma non bastano a dargli la comprensione di quello che sta vivendo. E ne è dimostrazione la vita «sconsiderata» o poco «intelligente» di molti dei cosiddetti «geni» della scienza.
A coloro che si dimostrano ansiosi di conoscere, nella speranza di fare più presto a comprendere, dico invece che la comprensione non è una formula matematica: inserisco una conoscenza e da essa ricavo una comprensione! Molte volte le conoscenze sono errate, sono incomplete, sono illusorie, si contrastano tra di loro, cosicché è lecito affermare che è meglio conoscere poco e ottenere da questo poco una piccola ma sentita comprensione, piuttosto che conoscere molto e, magari, non ottenerne alcuna.
A chi cerca, invece, di conoscere la Verità suprema ricordo che la strada verso di essa è costruita sui mattoni costituiti dalle piccole comprensioni di tutti i giorni e che ogni piccola comprensione quotidiana dimenticata alle spalle nella ricerca della Verità suprema non fa altro che rendere questa Verità più lontana, irraggiungibile e impossibile da comprendere anche se non da conoscere.
Ma la conoscenza – e questo lo ricordo a tutti – da sola non basta a dare evoluzione.
Da quanto vi ho esposto sino a questo punto si potrebbero dedurre abbastanza facilmente quali sono le varie funzioni del corpo mentale, tuttavia forse val la pena di fare su di esse un discorso un poco più strutturato, in modo da fornirvi un quadro complessivo e organico e facilitare così una visione più unitaria e logica di quanto ho detto frammentariamente.
Abbiamo osservato in precedenza cos’è il cervello in realtà e come, pur essendo un organo straordinariamente complesso e utile per l’individuo, non debba alla fin fine essere considerato che una sorta di centralina di smistamento dei vari segnali vibratori che provengono dagli altri corpi e, in particolare, dal corpo mentale. Già perché – e forse dalle mie parole non risultava abbastanza chiaro – al cervello pervengono anche le vibrazioni provenienti dal corpo astrale ed esso, adoperandole in concomitanza con quelle che gli vengono dal corpo mentale, provvede a modularle e articolarle in maniera da riuscire a farle affiorare nel modo in cui l’individuo affronta le esperienze che gli si presentano nel corso della vita.
Risulta evidente, da quest’analisi, che il cervello diventa una sorta di interfaccia tra ciò che è interiore nell’individuo e ciò che di sé appare all’esterno dell’individuo stesso. Possiamo perciò vederlo come un traduttore di stimoli interni in reazioni esterne e, in ultima analisi, come lo strumento che permette alle vibrazioni degli altri corpi di arrivare a manifestarsi sul piano fisico nella vita di relazione con gli altri, dando una forma rappresentabile a se stesso e agli altri di quello che abbiamo definito col termine «Io».
«Io» che è certamente illusorio, perché nessuna delle persone incarnate è veramente ciò che dall’Io viene manifestato ma che, comunque, offre la rappresentazione di come ciò che serve al corpo akasico per raggiungere elementi di comprensione, influenza il modo di agire dell’individuo e interpreta nell’esperienza pratica quotidiana i bisogni della coscienza.
In rapporto al cervello, dunque, la funzione del corpo mentale è quella di fornirgli la decodificazione di ciò che riceve dall’akasico in una forma tale che esso possa a sua volta renderla adatta a interagire con ciò che l’individuo sta attraversando sul piano fisico.
Se è vero che l’individuo può raggiungere delle comprensioni anche se è solo, in cima alla più alta delle montagne, è anche vero che ha maggiore possibilità di comprendere nei momenti in cui, invece, si trova a contatto con le altre persone, con le quali può condividere le esperienze che fa, confrontando le proprie reazioni, i propri ragionamenti, le proprie deduzioni con quelli altrui.
Nel primo caso la comprensione raggiunta sarà meno complessa e avrà, comunque bisogno di una verifica in cui ciò che si ha compreso viene applicato nel rapporto con gli altri individui. Infatti uno degli aspetti fondamentali che caratterizza l’essere umano e la sua evoluzione è dato dall’essere egli un uomo «sociale» e costituito in maniera tale che la vita di relazione gli è necessaria e indispensabile per comprendere tutte quelle sfumature, piccole ma importanti, che precisano e chiariscono la comprensione, rendendola completa.
E’ ovvio che per poter sfruttare al massimo la vita di relazione diventa estremamente necessario poter comunicare in qualche maniera con gli altri esseri umani, e poterlo fare in una maniera tale che la comunicazione non si limiti a risposte categoriche (sì-no) ma fornisca un quadro più completo agli interlocutori. E’ necessario, cioè, avere una piattaforma comune sulla quale poter interagire e sulla quale inserire gli elementi personali dell’individuo in modo da poter cercare una condivisione dei tratti in comune dell’esperienza o di poter offrire una pluralità di possibilità l’uno all’altro per far sì che vi sia veramente uno scambio e non soltanto una constatazione del modo di essere dell’altro.
Questo è reso possibile dalla presenza del linguaggio. Senza dubbio una porzione di comunicazione avviene anche attraverso quel linguaggio non corporeo che è fatto di gestualità, espressioni fisiche, mimica facciale, ma questo tipo di linguaggio non verbale può mettere in mostra quelli che sono i bisogni del momento dell’individuo, senza fornire però, a lui stesso o a chi lo osserva, alcun elemento aggiuntivo che serva a comprendere la complessa realtà interiore della persona.
Il linguaggio offre, invece, una possibilità ben più strutturata e completa perché presenta una miriade di dati aggiuntivi e, se ci si sofferma con attenzione ad ascoltare una persona che parla, si possono intanto dedurre degli elementi importanti della persona stessa: la cultura che possiede, l’ambiente sociale di appartenenza, la capacità di esprimere se stesso e via dicendo, tutte nozioni di base che danno già da subito una prima visione di ciò che è, in quella vita, quella persona. Si possono intravedere quali sono i suoi interessi, qual è la sua capacità di costituire delle relazioni, di compiere delle analisi, quali sono i suoi limiti mentali e così via rendendo ancora più definito il quadro che ci si costruisce dell’altra persona.
Certo, non bisogna dimenticare che spesso, nell’osservare gli altri, si vede solo ciò che, per qualche motivo personale, ci colpisce in maniera particolare, magari perché appaga qualcosa in noi stessi, e si trascurano o non si vedono cose che per noi sarebbero scomode da accettare; ciò non toglie che si agisce, comunque, su una base comune, perché comuni sono i punti di partenza e le meccaniche che ci spingono: dal bisogno di raggiungere la comprensione all’andare incontro alla sofferenza quando non si riesce a fare quell’ultimo piccolo passo che porterebbe alla visione di una porzione più reale di noi stessi, perché magari abbiamo paura di rendercene conto, senza accorgerci che l’unico modo per modificarla e renderla indolore è proprio quello di guardarla, riconoscerla e accettarla, inducendola così a trasformarsi.
Su questo tessuto comune si inserisce il linguaggio vero e proprio, meraviglioso strumento di comunicazione e interazione evolutiva: è principalmente attraverso il linguaggio che si definisce se stessi non solo agli occhi degli altri ma anche ai propri: il pensiero individuale arriva alla coscienza dell’essere incarnato principalmente sotto forma di parole (in maniera minore sotto forma di immagini o altro). Volete trovare una maniera per nascondere chi siete agli occhi vostri o altrui? Niente di più facile, il linguaggio vi offre due possibilità estreme, due maschere che solitamente sapete usare in maniera istintiva con invidiabile destrezza: non parlare o parlare troppo; nel primo caso non si offre il supporto del linguaggio nascondendosi dietro l’impenetrabilità, nel secondo caso si sommerge se stessi sotto una massa di parole col risultato di fornire così tanti elementi in così poco tempo da rendere impossibile ricavarne la realtà di chi sta parlando che si trova ad essere così, anche in questo caso, impenetrabile.
Una delle funzioni del corpo mentale è anche quella di fornire all’individuo la capacità di ragionare, ovvero di trarre deduzioni, compiere delle analisi, estrarre delle sintesi da quanto l’individuo sta sperimentando.
Ripetiamo quanto già è stato detto altre volte: il corpo mentale è costituito da materie provenienti da tutti i sottopiani del piano mentale che possono essere, per comodità, immaginati divisi in due grandi sezioni: il mentale inferiore e il mentale superiore.
Il mentale inferiore (non in senso spaziale né di qualità) è quello composto dalla materia più grossolana, più vicina a al limite in cui si passa da materia mentale a materia astrale. Esso fornisce, fra l’altro, le vibrazioni collegate al linguaggio vero e proprio, quello composto dalle parole e dagli schemi linguistici appresi nel corso dell’incarnazione.
Il mentale superiore, invece, con la sua materia più sottile, dà la possibilità all’individuo di compiere ragionamenti astratti, meno collegati al linguaggio dell’individuo ma più collegati ai bisogni di comprensione e, quindi, alle vibrazioni che provengono al mentale dal corpo akasico.
Come e su che basi viene operata questa analisi e sintesi, purtroppo, non mi è possibile spiegarlo in questo contesto, in quanto non vi sono ancora state date le basi necessarie per poter attuare un ragionamento accettabile.
Per appagare la vostra ovvia curiosità, comunque, vi posso anticipare che il tessuto su cui viene compiuto il lavoro di analisi e sintesi da parte del corpo mentale nel corso dell’evoluzione dell’individuo incarnato è costituito da ciò che proviene da quegli elementi della realtà che abbiamo denominato archetipi. In particolare, per quanto riguarda ad esempio il linguaggio, dagli archetipi transitori.
Un’altra funzione non trascurabile del corpo mentale può essere individuata nel suo interagire e alimentare i desideri e le emozioni che attraversano il corpo astrale alla ricerca di uno sbocco, di una manifestazione sul piano fisico attraverso il corpo fisico dell’individuo.
Per quanto le emozioni siano un’espressione del corpo astrale è indubbio che il loro manifestarsi non sia casuale ma segua una logica rapportabile all’interiorità dell’individuo e, avendo una loro base logica, appare ovvio che abbiano un collegamento anche piuttosto forte con il corpo mentale dell’individuo, anche se, apparentemente, molto spesso può sembrare che le reazioni emotive siano quasi completamente prive di logica nel loro manifestarsi.
In realtà ad ogni emozione (e anche ad ogni desiderio) è collegato un ragionamento del corpo mentale, composto da più elementi: in primo luogo dal tentativo di comprendere qualcosa richiesto dal corpo akasico, in secondo luogo dalla ricerca di tradurre questa spinta in maniera utile all’individuo per sintetizzare nuovi dati sulla base di analisi e deduzioni fatte all’interno del corpo mentale sulla scorta delle spinte akasiche, in terzo luogo inviando segnali verso la realtà fisica in maniera da poter ricevere risposte dall’esperienza.
Attraversando il corpo astrale queste richieste provocano reazioni nella materia astrale, reazioni più o meno violente o complesse in accordo con l’intensità del bisogno di comprendere o con la complessità della comprensione richiesta ed è proprio in particolare dall’intensità del bisogno di comprendere che scaturiscono dal corpo astrale le emozioni arrivando a manifestarsi, nella maniera che tutti voi ben conoscete per esperienza diretta, sul piano fisico.
Quando l’intensità emotiva raggiunge una soglia che può essere dannosa per l’individuo (il quale magari non è ancora pronto per affrontare una certa comprensione) scatta una reazione automatica indotta dal corpo mentale nel rendersi conto del livello di pericolo ed è così che l’individuo raggiunge una sorta di black-out sia emotivo che mentale: il mentale interrompe le sue vibrazioni per dare tempo all’astrale di mettere ordine nel caos vibratorio venutosi a creare e, sulla scorta di quel dato, il corpo mentale tenterà un approccio diverso o meno intenso al problema che sente di dover risolvere per le richieste dell’akasico.
Mi rendo conto che quanto detto in questo paragrafo andrebbe analizzato ancora più profondamente perché reca con sé delle implicazioni non di poco conto.
Ma ciò esula dal mio compito (e probabilmente anche dalle mie capacità) per cui mi accontento di avervi dato questa visione generale delle molteplici funzioni del corpo mentale.

* * *

Memoria

Avete mai pensato con una certa attenzione, fratelli miei, alla memoria e che cosa comporti per l’individuo la possibilità di ricordare?
Senza dubbio le cose che posso dirvi in proposito sono ovvie e possono apparire a prima vista banali, ma proprio l’ovvietà e l’apparente banalità delle cose vi induce spesso a non soffermarvi e a ragionare su di esse, dando tutto per scontato, senza magari accorgervi di cose che possono avere la loro importanza se comprese un po’ più profondamente ma che, invece, restano incomprese perché sottovalutate.
Vediamo di osservare alcune implicazione per la presenza o l’assenza della memoria facendo riferimento, com’è mio compito, all’insegnamento.
Per prima cosa è necessario sottolineare che, senza la possibilità di ricordare, andrebbe persa qualsiasi possibilità di poter evolvere. Infatti l’evoluzione procede per successive acquisizioni ed ampliamento di ciò che si è precedentemente acquisito e, se non si conservasse la traccia di quanto compreso in precedenza ad ogni incarnazione si dovrebbe ricominciare tutto da capo.
Questo concetto, tra l’altro, dà già la possibilità di comprendere che la funzione della memoria, pur essendo tipica per l’uomo incarnato del suo corpo mentale, è una funzione che deve in qualche modo anche essere collegata al corpo akasico, poiché è in esso che vengono fissate le comprensioni acquisite.
Ed è logico che debba essere così, dal momento che il corpo mentale, così come il fisico e l’astrale, sono corpi transitori il che sta a significare che alla fine dell’incarnazione vanno persi e, quindi, se la memoria fosse un’esclusiva di uno di questi corpi, essa andrebbe certamente persa con l’abbandono del corpo in questione.
Ma, vi chiederete allora, dov’è veramente situata la memoria? Che reale relazione c’è con quelle aree che i neuro fisiologici indicano esistere all’interno del cervello umano e che insegnano essere le aree del ricordo e, perciò, della memoria?
Vedete, fratelli miei, come appare evidente da quanto ho detto poc’anzi la memoria non può essere appannaggio di un solo corpo dell’individuo, ma è una funzione che si riscontra in tutti i corpi dell’individuo.
E’ ovvio che esiste una memoria che opera già a livello fisico: se così non fosse la catena genetica non avrebbe la possibilità di riformare le cellule distrutte perché non vi sarebbe il «ricordo» delle informazioni adatte.
E’ altrettanto ovvio che esista una memoria a livello di corpo astrale: se un’emozione di paura non restasse immagazzinata con la sua intensità emotiva questa intensità emotiva si presenterebbe sempre come una bomba sconosciuta ogni volta che la situazione emotivamente «forte» si ripresenta. Accade invece che l’emozione «forte» diventa sempre meno forte ogni volta che la situazione si ripete e, più volte si ripete, più debole diventa l’emozione.
Questa perdita di intensità dell’emozione sotto l’influenza di uno stimolo ripetuto avviene perché l’emozione è già conosciuto, ricordata e quindi, sempre di più ad ogni ripetizione dell’esperienza, sfrondata di intensità per focalizzarsi su altri aspetti emotivi dell’esperienza.
Per quanto riguarda il corpo mentale non vi sono dubbi che esista una memoria: basta pensare al fatto che se non esistesse la memoria di ciò che si fa, si dice o si pensa non sarebbe possibile condurre un ragionamento ed estrarre da esso deduzioni, ipotesi o anche solo semplici considerazioni. Ma allora, dov’è situata la sorgente della  memoria?
Certamente non nel cervello, come potrebbe pensare qualcuno di voi. Il cervello conserva in una sorta di «memoria» temporanea gli accadimenti della quotidianità in una sorta di memoria «tampone» che distribuisce le risultanze dell’esperienza vissuta ai corpi cui compete quel settore di esperienza: la parte emozionale al corpo astrale, la parte razionale al corpo mentale, affinché essi provvedano in qualche maniera a sottoporle a un primo ordine vibratorio da inviare poi, come dato utile per la comprensione dell’esperienza, al corpo akasico. Tuttavia questa memoria «tampone» posseduta dal cervello è evidente che viene annullata al momento della morte dell’individuo, anche solo per il fatto che l’organo cerebrale perde la sua funzionalità.
Risulta chiaramente che la memoria «permanente» non può che essere situata nel corpo che non è transitorio, ovvero nel corpo akasico.
Tutto ciò che viene vissuto, le emozioni, i ragionamenti, i fatti e tutto il complesso corredo che li accompagna si trascrive all’interno del corpo akasico dell’individuo, fissandosi definitivamente in esso allorché viene raggiunta una comprensione.
E’ a questo bagaglio di riferimenti che il corpo akasico fa riferimento per indurre i corpi inferiori a ricercare certe esperienze e non altre.
In parole povere il corpo akasico deve necessariamente possedere una memoria per poter correlare tra loro le esperienze e trarne quei collegamenti che lo inducono a muovere i corpi inferiori nel corso dell’incarnazione alla ricerca delle situazioni più adatte per appagare il suo desiderio di comprendere senza ombra di dubbio ciò che «sente di non aver compreso».
Volendo, si potrebbe arrivare persino a sostenere che il sentire è memoria, anche se una tale osservazione non sarebbe precisa: il sentire appartiene ai sottopiani più sottili del corpo akasico dell’individuo, mentre la memoria di ciò che ha vissuto nel corso delle varie vite è immagazzinato nei sottopiani più densi. certamente, comunque, le due situazioni (memoria e sentire) sono in collegamento tra di loro e interagiscono continuamente: per inviare le sue richieste di esperienza ai fini della comprensione il sentire deve necessariamente fare riferimento a quello che nella memoria del corpo akasico risulta che sia già stato sperimentato, in maniera tale da ampliare una certa esperienza o esplorare parti o sfumature di essa che non risultano ancora essere state esplorate nella maniera adeguata.
Per concludere questo discorso (per forza di cose approssimativo e certamente non esauriente in tutte le sue particolarità), volevo accennare a due elementi importanti che sono strettamente collegati alla memoria: il senso del tempo e la sensazione di esistere.
Il senso del tempo scaturisce dall’osservazione in successione degli avvenimenti compiuta dai corpi inferiori nel corso della vita. Ovvero: il corpo fisico stabilisce il tempo in base alla successione delle sensazioni che egli percepisce, in base alla sequenzialità delle emozioni che lo coinvolgono, in base ai ragionamenti che esse provocano nel corpo mentale. Senza la memoria e il ricordo questa successione non sarebbe percepibile: tutto apparirebbe contemporaneo.
Il tempo (sensazione, estremamente soggettiva, al di là delle convenzioni attuate dall’essere umano allorché è incarnato con la fittizia divisione in unità di tempo quali l’ora, i minuti o i secondi) esiste nella soggettività proprio grazie alla percezione soggettiva dell’Io, il quale tende a considerare se stesso come un punto fermo della realtà, al quale, seguendo la sua visione egocentrica, tutto va riferito.
Se esiste, ovviamente, deve avere una sua funzione, vero fratelli? Certamente ne ha più di una e quella che mi preme sottolinearvi in questo ambito è quella di dare un ordine di invio al corpo akasico dei dati dell’esperienza in forma via via più ampia, partendo dal semplice dato per arrivare all’articolazione più complessa che comprende ancora il dato semplice ma lo completa con dati aggiuntivi che possono fornire all’akasico una visione più completa dell’esperienza.
La successione delle comprensioni segue, passo passo, la successione delle esperienze fatte nella realtà soggettiva ed è ancora funzionante e percepita come una serie di raggiungimenti temporalmente successivi da parte del corpo akasico nel costruire il mosaico della sua comprensione: non può accadere, ad esempio che un individuo capisca una sfumatura di comprensione prima di aver capito la base della comprensione stessa.
Questo è valido per il corpo akasico fino a quando non si arriva alla parte di esso in cui viene scritto (o sarebbe meglio dire «riscritto») il sentire.
In questa zona dell’akasico non vi è più successione ma tutto è contemporaneo in una maniera tale che a me, in questa sede, è impossibile spiegarvi, anche perché lo so per averlo sentito dire dai Maestri e non per esperienza diretta. La memoria e il senso del tempo portano alla sensazione di essere un’entità che attraversa la realtà in un lungo peregrinare attraverso la vita, alla sensazione di essere «io» che mi riconosco nel tempo e che attraverso il tempo secondo un filo conduttore a cui sono sempre collegato e nel quale mi identifico.
Questo dà all’Io e alla consapevolezza individuale dell’uomo incarnato la sensazione di esistere. Ma è una sensazione fallace e transitoria perché basta uno squilibrio che provochi una forte perturbazione a livello fisico, astrale o mentale, per attraversare momenti in cui non si riconosce più se stessi e si ha la sensazione di non essere più la stessa persona.
La sensazione di esistere, l’illusione di esistere pur nell’apparente realtà e concretezza del mondo fisico, diventa alla fine coscienza di esistere allorché essa si confronta con il complesso dell’individualità all’interno del corpo akasico, laddove il contatto con la coscienza superiore dell’Assoluto rende inamovibile la certezza che ognuno di noi, malgrado la propria effimera esistenza, «è» ben al di là di quella che può essere l’illusoria esistenza individuale di un Tizio, di un Caio o di un Sempronio.
E in questa coscienza di esistere si annulla il tempo, perde importanza il ricordo e acquista preminenza il concetto che prima di tutto si «è», in maniera totale e definitiva.
Nel corso di una delle mie vite mi sono interessato di magia e di esoterismo e, nel percorrere la mia strada lungo la ricerca della conoscenza mi sono imbattuto in un’antica pergamena della quale non si sapeva la provenienza.
Essa diceva, in una scrittura rapportabile a quella usata dai sacerdoti egizi:

Padre mio,
ho cavalcato mille cavalli imbizzarriti
e da essi ho trovato in me le parole
e i suoni che li rendevano docili
e capaci di seguire i miei desideri,
conducendomi lungo le strade paurose
della mia interiorità.
Ho incontrato sul mio cammino orde di lupi ringhianti
dai denti snudati come barriere poste sulla mia strada
per fermare il mio avanzare verso di Te,
ma ho saputo tranquillizzarli con la luce di un mio sorriso,
con la forza della mia serenità.
Mi sono imbattuto in tempeste
che facevano rivoltare i mari,
portando in alto quello che era in basso
e ricacciando negli abissi più profondi
quello che era in superficie,
e sono rimasto a galla sopra il pelo delle acque turbolente
solo grazie alla convinzione 
che io,
qualunque cosa potesse accadere,
non sarei mai morto veramente.
Ho sfidato il fuoco più ardente,
il lampo più abbagliante,
la grandine più tambureggiante
riparandomi sotto la volontà 
di giungere indenne
nel porto della mia anima.
Ho attraversato momenti in cui il mio corpo
mi è sembrato un peso inutile ed ingombrante
di cui avrei voluto poter fare a meno.
Ho percorso ore interminabili in cui orgoglio, paure e rancori
cercavano di ridurmi come un fuscello in balia del vento,
pronto a spezzarsi frammento dopo frammento.
Ho vissuto periodi in cui i miei pensieri
sembravano essere pensati 
soltanto allo scopo
di ferire me stesso o, peggio ancora, di ferire gli altri.
Eppure, sempre, qualcosa dentro di me
è riuscito a modificare ciò che attraversavo
aggrappandosi con tutta la sua speranza
al piacevole soffio di un vento primaverile,
o alla risata senza imbarazzo di un bambino,
o all’incontro con una nuova, 
inaspettata, meravigliosa idea.
Infine, Padre mio, 
ti ho scorto…
e tutto ciò che ho vissuto
mi è apparso nella sua grandezza,
facendomi riconoscere 
che di tutto ciò, indubbiamente,
avevo bisogno per arrivare ad essere una parte cosciente di Te.
(Andrea)

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume terzo, parte prima, Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior