Un approccio semplice, forse troppo, al tema del giudizio e della punizione

Vito Mancuso si chiede se esiste l’inferno in questo bell’articolo che, ahimè, nonostante l’apertura filosofica dell’autore rimane nelle sabbie di un pensiero che non osa abbastanza.
Per esistere una punizione deve esistere un giudizio; per esistere un giudizio deve esistere un criterio che individui e definisca cosa sia apprezzabile e cosa deprecabile.
La funzione giudicante deve essere assolta da qualcuno che è diverso e separato dal giudicato.
Confesso che ragionare al modo dei cristiani mi costa fatica.
Proverò a guardare all’argomento dal punto di vista del Sentiero.
(Userò i termini assoluto e divino come sinonimi di dio, tutti con l’iniziale minuscola per non creare differenze di valore)
La realtà di umano e divino è una: sebbene nel divenire appaia separata, mai umano e divino sono divenuti due.
L’umano è aspetto del divino; aspetto della consapevolezza e del sentire di questo.
Il cammino dell’umano da ego ad amore è l’illusorio scorrere della consapevolezza/sentire dell’assoluto.
Chi dunque giudica chi? E su quale base il giudizio dovrebbe appoggiare se tutto il dispiegarsi dell’umano non è altro che lo spettro della consapevolezza/sentire dell’assoluto?
Esiste dunque un giudizio e un giudicante dal nostro punto di vista? Esiste l’amore che regge tutte le cose e tutte porta a compimento.
Esiste la colpa nell’umano? Si, solo quando l’umano sa e non ottempera a quel sapere. Dunque viene punito?
Solo i bambini possono pensarlo. Se non attua ciò che ha compreso significa che la comprensione non è completa, se lo fosse non avrebbe altra scelta che praticarla.
Per completare la comprensione proverà e riproverà quell’esperienza, finché l’apprendimento non sarà completo.
Tutti i nostri ragli sono dunque riconducibili all’ignoranza. Saremo puniti perché siamo ignoranti?
Chi pensa questo forse non ha indagato a sufficienza la natura dell’amore, di quella spinta che sempre offre possibilità e che mai nega ad alcuno la propria, aldilà del tempo.
Compassione senza fine.
Il problema dell’umano è che cerca risposte con la mente a questioni che solo nel sentire possono essere comprese e contemplate.

Immagine da : http://goo.gl/cN4kXe Dante si ferma a parlare con Niccolò III. Inferno, canto XIX (Divina Commedia). Illustrazione di Gustave Doré


 

La compassione è la sfida più grande quando in noi il bisogno di giustizia è urgente

Questa discussione in Comunità del Sentiero mi induce ad alcune riflessioni.
In alcuni di noi il bisogno di giustizia, di pulizia, di rispetto bussa con urgenza e produce, non di rado, una frustrazione interiore, una ribellione, una protesta colorata spesso di rabbia.
Reazioni molto umane, comprensibili, condivisibili.
Inutili.
Parlano di noi e del nostro non compreso, del non avere ancora interiorizzato un principio di base: il mondo è quello che le coscienze dei suoi abitanti creano.
Quelle reazioni parlano della nostra lettura duale della realtà: ci sono i carnefici e ci sono le vittime.
Denunciano il cammino che ci separa dalla compassione.
Che cos’è l’esperienza della compassione?
L’aver compreso che nessuno è vittima;
l’aver chiaro che ciò che accade è specchio del sentire personale e collettivo;
il testimoniare una vicinanza al cammino delle persone e al loro faticare o gioire;
l’inchinarsi ai loro processi interiori (che si manifestano negli accadimenti esteriori);
l’essere fattori e agenti attivi di cambiamento per sé, per l’altro, per la società;
tutto questo insieme è la compassione.
La frustrazione e la rabbia quando maturano, quando non sono più la manifestazione della ribellione che sorge dalla non comprensione dell’essere della vita, germogliano in compassione, il lievito che tutte le cose cambia.
Dal moto egoico colorato di frustrazione e rabbia, passiamo alla presa d’atto di quel che è e alla testimonianza attiva di un vivere non condizionato.

Immagine da: http://eccoavoigrc.wordpress.com/


 

Dalla consapevolezza alla compassione

Cerco di aggiungere degli elementi a questa discussione in “Comunità del Sentiero” nata dal tema del prossimo intensivo del 6-8 giugno.
La consapevolezza non è la fine del cammino: coltivare e lasciare che in sé maturi una consapevolezza diffusa che tutto abbraccia e tutto compenetra è un passaggio importante, ma indicativo di poco.
La consapevolezza apre la persona alla realtà dell’accadere nell’adesso; lo sguardo penetrante dell’osservatore, di una meta-osservazione, crea una connessione con l’osservato fondata sulla sospensione: di identificazione, di pensiero, di emozione, di tempo.
Quella sospensione pone l’osservatore nella neutralità, non nell’indifferenza, nell’alterità: è lo sguardo della coscienza oltre l’identificazione del soggetto percepente.
Se tutto finisse qui sarebbe un vivere nella lucidità estrema e nella lontananza senza fine.
La consapevolezza in sé è niente se, nel cammino incontro ad essa, non sorge anche la compassione che è la possibilità di comprendere l’accadere associata al rispetto, alla deferenza, alla dedizione.
La compassione è comprensione dei processi nostri e altrui;
è rispetto per la fatica, il dolore, l’inciampo che il procedere comporta;
è deferenza, inchino profondo al processo in atto;
è dedizione, presenza reiterata se necessaria, a fianco dell’altro, della sua solitudine, del suo passaggio esistenziale, della sua fatica.
L’infinita lontananza generata dalla consapevolezza cammina assieme alla comprensione profonda della compassione che conduce alla presenza neutrale eppure calda, discreta, delicata, tenera.
Là dove la consapevolezza lascerebbe l’altro al suo processo, la compassione lo accompagna per un tratto di strada : “E se uno ti costringe a fare un miglio, fanne con lui due”. (Mt. 5,41)

Immagine da: http://goo.gl/W4GUz3

Nel mondo ma non del mondo (1)

Non voglio essere io ad amare, mi dispongo affinché l’amore sia

C’è un protagonista nell’esperienza dell’amore?
Un soggetto che ama? Un oggetto dell’amore? Se si, non stiamo parlando dell’amore ma di altro, forse di un innamoramento, di una infatuazione, di un racconto della mente.
L’amore non contempla né l’amato né l’amante: proviene dal deserto di sé, dalla scomparsa del proprio esserci e sfocia nell’essere senza attribuzione.
Nella condizione d’essere, nella pienezza della neutralità affiorano le molte declinazioni dell’amore: l’accoglienza, la gratuità, la semplicità, la giocosità, la compassione, l’unitarietà di visione.
Questo affiorare non è frutto della volontà, non c’è un soggetto che può dire: “Voglio amare!”.
Sorge come un vento e non risponde ad alcuno della sua direzione.
L’amore è, non diviene, non conosce il tempo né le leggi della mente.
Lo si incontra lì, un passo oltre il proprio esserci, oltre la declinazione di sé.
Nell’assenza della propria presenza, nella marginalità del proprio nome, nell’irrilevanza del proprio punto di vista, oltre le emozioni, oltre i pensieri.
L’amore non è un’emozione, non è il pensiero sull’amore, è l’essere che canta l’Essere, non altro.

Immagine da: http://goo.gl/ERfU7Q


Quello che insegniamo qui

Non tanto a vivere spiragli di libertà, quanto a costruire le fondamenta della libertà.
Che cos’è la libertà? Vivere senza il condizionamento dell’identità, potendo sperimentarla quale semplice espressione della coscienza.

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La responsabilità leggera

Dati come esistenti questi postulati:
– consapevolezza della propria ignoranza
– consapevolezza dell’aleatorietà del proprio essere persona/identità
– consapevolezza della dimensione soggettiva della realtà
riuscire a prendersi sul serio nell’ampio caleidoscopio delle manifestazioni, interiori ed esteriori, è un’avventura.

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La compassione

Non dallo sguardo del lupo, né da quello del bisonte, non da questi sorge la compassione, ma dallo sguardo dell’osservatore neutrale, oltre l’identificazione con il sentire del lupo e del bisonte. La scena contemplata è quel che, senza aggiunta.

continua..