La struttura della terra, della persona, della vita, del cammino interiore

Sono giorni di vanga, di forca per la precisione. Quando il terreno dell’orto non è bagnato, e accade di rado, cerco di vangarlo per arieggiarlo e per far sì che l’acqua possa penetrare in profondità. Nella foto vedete la struttura di un terreno argilloso, la parte superiore più porosa e vitale, quella inferiore più compatta e portante.
Le persone, le loro vite, il cammino interiore non sono diversi: tutti hanno struttura, e se non l’hanno è bene che la formino; tutti hanno necessità di arieggiare e di lasciare che i vissuti penetrino in profondità attraverso il processo di conoscenza-consapevolezza-comprensione.
Vivere è come il processo del vangare: si rompe un equilibrio consolidato, si introducono fattori ed elementi nuovi, si sedimenta attraverso i processi, si forma nuova struttura che sarà stabile per un po’ di tempo finché le radici di una pianta, l’azione di una talpa, ed infine una nuova vangatura non la modificheranno.
La vanga è assimilabile alla crisi, alle innumerevoli crisi che accompagnano il nostro cammino esistenziale: il ciclo stabilità-crisi-nuova stabilità è la struttura portante delle nostre vite, il modo attraverso il quale impariamo.
Non esistono solo crisi e non esiste solo stabilità: la vita è processo, il vivere la capacità di sprofondare in esso leggendone il portato simbolico ed imparando ciò che è necessario alla trasformazione del sentire personale.


 

Abbiamo perso il silenzio, o non lo abbiamo ancora scoperto?

Se potete, leggete questo bell’articolo apparso su “comune info”.
La prima parte parla della situazione, del silenzio perduto, della fretta, del scivolare sulla vita.
La seconda, della necessità di insegnare ai nostri figli a vivere sottovoce.
Vorrei fare delle considerazioni sulla prima parte: abbiamo perso il silenzio, o non lo abbiamo ancora scoperto?
La mia tesi, molto semplice, è che l’umano vive ciò che ha compreso; ciò che non vive non è perché non lo vuole vivere, ma perché non ha compreso che esiste come possibilità per sé; lo vede magari vivere dagli altri, ma non lo sente adatto a sé, praticabile per sé: nei fatti, non lo considera perché non lo comprende.
Il bel brano di Orso parla di un’altra cultura, di altre priorità esistenziali, forse di un altro sentire: il nostro mondo ha ciò che crea e questo sorge dal suo sentire, da ciò che ha compreso attraverso le esperienze e la macerazione che queste producono.
Sorge anche dalla sua cultura? Certamente, ma questa non è che il riflesso del compreso e del non compreso dei singoli e dell’insieme.
Cosa dunque possiamo fare? Vivere il compreso, testimoniarlo con grande discrezione, operare nel piccolo come nel grande perché elementi di autenticità vengano inseriti in un impianto culturale ed esistenziale caratterizzato dalla futilità.
Quello che l’autrice dice nella seconda parte dell’articolo è veramente importante, da lì si può partire sapendo che nessuno aderisce a ciò che non ha compreso, ma il proporre modelli, stimoli, pratiche, abitudini attiva processi profondi e facilita il percorso delle comprensioni in maturazione.
Se comprendiamo che ciò che l’umano vive non è il frutto della malafede  – la quale, anche quando è presente, è conseguenza, non origine – ma solo della non conoscenza, della non consapevolezza, della non comprensione, allora il nostro sguardo sul mondo diviene intriso di compassione e questa è un fattore determinante nel produrre il cambiamento dei sentire, prima e ultima sorgente di ogni cambiamento.

Immagine da: http://goo.gl/51KNUk


 

Chi cambia la realtà?

Tutti coloro che hanno in sé comprensioni nuove.
Come si formano le comprensioni? Attraverso le esperienze e l’acquisizione di un nuovo sguardo che da queste germoglia fino a maturare in comprensione.
Le comprensioni acquisite genereranno nuove esperienze e nuovi punti di vista e questi ancora nuove comprensioni.
Dunque la realtà non è cambiata da coloro che hanno capito qualcosa: filosofi, politici, uomini di cultura, economisti; il loro aver capito può generare cambiamenti transitori ma non il cambiamento del paradigma.
Qual’è la differenza tra capito e compreso? Il capito è iscritto nella mente/identità, il compreso nella coscienza. Il compreso produce coerenze personali, il capito no.
La natura di una società predatrice (di persone, di risorse, di relazioni) cambia perchè nell’intimo di un numero rilevante di persone avviene un mutamento nel loro paradigma personale, nel modo in cui si rapportano con sé, con l’altro, con l’ambiente, con la tecnologia.
Il cambiamento intimo è la conseguenza del compreso, di ciò che si è iscritto in modo indelebile nel sentire; il compreso è preceduto dal capito e questo è generato dalle esperienze.
Il cambiamento nelle persone avviene nel silenzio e nella riservatezza, comunque in un ambito che non ha risonanza sociale. Nessun giornale titolerà mai: “Il Tale ha compreso che non può più considerarsi vittima!”
Il cambiamento indotto dalle comprensioni è come il lievito nella massa: apparentemente immobile, nel tempo cambia la natura degli elementi di cui è parte e introduce nell’ambiente l’evidenza della sua presenza.
Discreta e silenziosa è la presenza delle persone che hanno comprensioni nuove, privo di desiderio di mostrarsi il loro cammino.
Nell’intimo esse sanno che cambiando il proprio sguardo tutto il mondo diviene nuovo; cambiando il proprio modo di relazionarsi, ognuna delle loro relazioni cambia; cambiando le proprie domande e le proprie risposte, anche le domande e le risposte degli altri cambiano.
Le comprensioni nuove sono dunque il nucleo saldo di ogni cambiamento personale e sociale e sono precedute dalla conoscenza e dalla consapevolezza:
persone con nuove comprensioni, persone con nuova conoscenza, persone con nuova consapevolezza possono far fiorire una nuova stagione per tutti.

Immagine tratta da: http://www.goodwillteam.it/whats-up/makers/


Le nostre vite parlano

Forse mai come in questa epoca il sapere è stato a disposizione di molti. Le fonti della conoscenza essoterica ed esoterica sono facilmente accessibili nel web, nelle librerie, nelle conferenze.
Per chi ha maturato delle esperienze e delle comprensioni è evidente che questa disponibilità di materiali e di informazioni non risponde che in minima parte alle domande di fondo che l’umano sente bussare nel proprio intimo: questa abbondanza può placare transitoriamente le ansie, può nutrire le menti, può consolare e gratificare ma non può nutrire l’interiore con quel cibo che unico placa la fame.
Qual’è questo cibo? Il senso della vita.
Come si placa questa fame, dove si trova quel cibo? Nelle esperienze, nel quotidiano, nel minuto, nel feriale.
Si può trovare forse anche da soli ma, il più delle volte, lo si trova grazie a qualcuno che con la sua vita testimonia l’averlo trovato: incontrando qualcuno la cui vita testimonia un senso cosciente, consapevole, compreso, manifestato.
Coloro che scendono nella profondità dell’esistere, dei fatti che costituiscono la natura dell’esistere, prima o poi incontrano il senso più profondo di ogni fatto, di ogni accadere: incontrano l’essere.
Alla luce di questa esperienza interiore le loro vite cambiano, divengono semplici, essenziali.
Chi entra in contatto con quelle persone, con quella essenzialità, coglie la differenza tra il sapere e il comprendere, tra il conoscere e il vivere: se vuole può allora indirizzare la propria vita, il proprio cammino esistenziale, in quella direzione.

L’immagine è tratta da: http://www.tralci-niklima.com/2013/03/26/una-storia-le-tre-domande/


 

J.Krishnamurti, l’atto di imparare non è l’atto di conoscere (con commento)

La saggezza non è il prodotto della conoscenza: è qualcosa che ognuno deve scoprire.
Conoscenza e saggezza non procedono insieme. La saggezza affiora col maturare della conoscenza di noi stessi. Senza conoscere noi stessi non avremo alcuna possibilità di vivere nell’ordine e nella virtù.
Imparare su noi stessi non significa affatto accumulare conoscenza su quello che siamo. La mente che accumula conoscenza non sta imparando: sta raccogliendo delle informazioni e facendo esperienza. E basandosi sulla conoscenza che ha acquisito, continua a fare esperienza; quindi non sta veramente imparando, sta solo accumulando ulteriore conoscenza.
Il vero imparare avviene nel presente, non ha passato. Quando dite: “Ho imparato”, avete a che fare con la conoscenza che avete accumulato e questo significa che ormai avete smesso di imparare.
Una mente che non pretende di accumulare nulla impara in continuazione, e solo una mente simile può capire a fondo quell’entità che noi chiamiamo il “me”, il sé. Io devo conoscere me stesso, la struttura, la natura, il significato di quell’entità che chiamo “me”. Ma non posso farlo se continuo a portarmi dietro tutto il carico di conoscenza legata al passato, alle mie precedenti esperienze, ai miei condizionamenti.
Finché mi tengo tutto questo non posso imparare, posso solo interpretare a modo mio quello che vedo con occhi annebbiati dal passato.

Commento

“Il vero imparare avviene nel presente”.
La questione è complessa e, come spesso accade, Krishnamurti ci vola sopra e non necessariamente è efficace.
Imparare è comprendere, ampliare il sentire di coscienza: qualcosa è imparato/compreso quando è iscritto nel corpo della coscienza alla stesso modo di un cibo che non basta mangiarlo, deve essere assimilato dal corpo, solo allora diviene nutrimento.
Quello che Krishnamurti non dice è che non si impara/comprende in un attimo, in un’esperienza: imparare è un processo che richiede molte esperienze, spesso ripetute nelle loro modalità di fondo.
Conoscere non è imparare/comprendere è vero, ma senza conoscenza non si addiviene ad alcuna comprensione.
Che cos’è la conoscenza? Nella metafora del mangiare e del nutrirsi equivale all’assumere cibo: da ogni esperienza acquisiamo dati, tasselli di realtà; di esperienza in esperienza il puzzle si compone di molti tasselli e questi iniziano a combinarsi armoniosamente; infine il puzzle è completo e la risultante di quel processo di accumulazione e strutturazione dei dati si iscrive nel corpo della coscienza dando luogo ad una comprensione.
Quella data cosa quando è compresa lo è per sempre, aldilà del tempo, su quel fronte la coscienza non guiderà più l’identità in nessuna sperimentazione particolare.

L’immagine è tratta da: http://blog.brockwood.org.uk/category/writings/

L’avanzare delle dimensione contemplativa del vivere

Il post di Alessandro di ieri parla di questo. Più si comprende il vivere, il suo senso profondo, più si entra nella dimensione del quotidiano, del feriale, del piccolo fatto che invece di perdersi tra mille altri piccoli fatti insignificanti e anonimi, assume rilevanza e centralità.

continua..