Un’ amica scrive: “E” un periodo per me (apparentemente) pieno di preoccupazioni e allora mi si presenta una frase proposta da Vasco:
“Quando sono sopraffatto dalle preoccupazioni, ripenso a un uomo che, sul suo letto di morte, disse che tutta la sua vita era stata piena di preoccupazioni, la maggior parte delle quali per cose che mai accaddero (Winston Churchill).
conoscenza
Chi sono io?
Veronica ci manda questa metafora che ci serve da stimolo per precisare qualcosa:
Chi sono io?
Chiese un giorno un giovane a un aziano. Sei quello che pensi, rispose l’anziano, te lo spiego con una piccola storia:
Un giorno, dalle mura di una città, verso il tramonto si videro sulla linea dell’orizzonte due persone che si abbracciavano.
“Sono una papà e una mamma” pensò una bambina innocente.
La debolezza è la mia forza
Non ciò che conosco ma ciò che mi rimane difficile, ciò su cui cado, ciò che non so discernere.
Dalla mia ignoranza sorge la direzione della mia vita. L’ignoranza mi conduce a cercare, a indagare senza fine; mi impedisce di fermarmi e mi accompagna di errore in errore, di limite in limite, di parzialità in parzialità, di stoltezza in stoltezza, di fatica in fatica.
La Sala di Meditazione, Ancona
L’indagine sul sé e sulla nostra “natura originaria”
(secondo la tradizione dell’Advaita Vedanta e dello Zen)
e la pratica dell’abbandono delle nostre identificazioni personali
e degli attaccamenti (ispirata anche alla tradizione mistica
cristiana), sono il fulcro dei nostri incontri
e del nostro impegno nella vita.
La Sala di Meditazione, via Dalmazia 21, Ancona
Telefono 071.2803716
e-mail: bolrob13@libero.it, panda14@alice.it
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Settembre/dicembre 2012
Info. tel.071-2803716,
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panda14@alice.it ( Daniela).
Osservarsi e nient’altro
“Non c’è bisogno di stare continuamente ad analizzarsi sul perchè e sul percome fate le cose. Cercate semplicemente di fare quello che dicono i maestri orientali ed occidentali, cioè di stare costantemente attenti a voi stessi. Fate attenzione a quello che fate e a quello che dite. Non c’è neanche bisogno di scervellarvi tanto sul perchè fate o dite, ma state attenti.
L’altro da sé, capitolo 9 del libro Conoscenza di sé, meditazione, contemplazione
G: Ho pensato molto a quello che hai detto l’altra volta, che in fondo abbiamo sempre un occhio alla relazione con l’altro, è verissimo; inoltre sull’altro proiettiamo sempre, non lo vediamo mai per quel che è.
R: Dovessi dire qual è il vero maestro della via interiore, senza dubbio direi che è l’altro da noi.
G: Anche un altro inconsapevole?
R: Un altro qualsiasi. Non tutti hanno la possibilità di incontrare un cosiddetto maestro, non tutti possono entrare in una dinamica cosciente con il maestro interiore, la maggior parte impara attraverso il maestro esteriore che è l’altro, indipendentemente dal fatto che sia consapevole del proprio ruolo.
L’altro porta due cose nella nostra esistenza: innanzitutto porta se stesso, in secondo luogo porta lo specchio di noi. Ripeto, qui parliamo di una persona della via interiore avvezza a vedersi e ad interrogarsi; in quest’ottica, quando l’altro si presenta porta sempre un elemento di crisi, l’ingresso in una instabilità di qualche natura: la mente emette dei giudizi – il primo dei quali è relativo ad un moto di simpatia o di antipatia – ed altri derivanti dalle esperienze che abbiamo vissuto nel passato con quella o con altre persone; a questo si aggiungono le aspettative che si hanno in relazione a quell’incontro.
Innanzitutto l’altro porta se stesso e questo è un aspetto tutt’altro che scontato: l’altro si presenta a te, tu lo vedi, lo osservi in relazione a tutto il tuo mondo interiore e che cosa vedi davanti a te?
Quanto è vasta la tua comprensione della sua rappresentazione? L’altro si presenta e noi abbiamo una pretesa, quale?
Quella di saperlo leggere, quella di comprendere chi è. Questa è la prima delle pretese, ma quello che abbiamo davanti e che si presenta con quella rappresentazione tenera, o aggressiva, o ambigua, quanto di quello che lui è, possiamo effettivamente conoscere?
G: Quello che ci siamo permessi di conoscere di noi, e poi quello che riusciamo a vedere da un lato non giudicante.
R: Tu vedi la piccola rappresentazione che l’altro sta mettendo in atto di fronte a te, e cosa ne sai di tutte le altre rappresentazioni che mette in atto di fronte a soggetti diversi, e cosa ne sai delle rappresentazioni di quando è solo, e cosa sai di tutto quello, vastissimo, che non giunge nemmeno a rappresentazione, ma rimane nel subconscio o addirittura nell’inconscio?
G: Non conosciamo noi stessi fino in fondo, potremo conoscere l’altro?
R: Ma tu guarda invece la pretesa, guarda come sentenziamo: “Ma perché sei così, ma perché sei cosà!” Ci vengono mostrati alcuni aspetti e la nostra mente li cataloga, li organizza e si forma una immagine; su quella mette una bella etichetta e dice: “Tu sei così”. Se ho la possibilità di vederti più volte, ti osservo in diverse manifestazioni e ho già il mio piccolo scaffale dedicato a te, dove c’è quel modo, quell’altro modo, e il tutto compone un puzzle che mi rivela la tua immagine: nella mia visione tu sei così.
In verità noi non sappiamo quasi niente dell’altro, come non sappiamo quasi niente di noi stessi. Abbiamo detto, nelle sedute passate, che l’identità non è altro che una costruzione arbitraria dove vengono assemblati pensiero, emozione ed azione e ricondotti ad un filo di coerenza, in realtà inesistente.
Come lo facciamo per noi, allo stesso modo lo facciamo per l’altro, lo riduciamo ad una certa interpretazione; in verità non sappiamo quasi niente ma lo interpretiamo sulla base dei nostri paradigmi interiori, lo etichettiamo e lo fissiamo in un’immagine.
G: E’ chiaro che lo possiamo fare con delle persone che non si permettono di essere fuori da una omologazione..
R: Guarda, io sono con mia moglie da trentaquattro anni e devo ammettere che per me è un mistero; quello che vedo è la superficie, la crosta; io vedo comportamenti, modi, pensieri che mi possono piacere o mi possono disturbare, ma se debbo essere impietoso nella valutazione del mio sguardo, nell’ammettere quello che conosco, debbo arrendermi al mistero, perché quello che so è come l’ultima neve caduta sulla banchisa polare. Quel che vedo è trascurabile, ho la forte, irriducibile sensazione del mistero che mi si presenta e che mi chiede di piegarmi, non di spiegare, non di capire, ma di piegarmi.
Quando io non la guardo più con gli occhi della mente, del giudizio, della simpatia o dell’antipatia, di quello che mi racconto, non rimane niente e affiora il mistero. Questa è l’incredibile e irriducibile realtà dell’altro e di noi. Noi non sappiamo niente, proferiamo sciocchezze, banalità, superficialità che, quando la mente tace, ci producono solo vergogna del nostro sproloquiare e vorremmo sotterrarci perché abbiamo detto questo e quello, ma nel farlo abbiamo parlato di noi, non dell’altro.
Chi è questa persona, oltre la piccola rappresentazione che accade davanti a me e che interpreto? Chi è? Un mondo sconfinato di cui non ho la minima idea. Adesso, alla luce di quello che ho compreso in questi anni, se mai mi ponessi la domanda sul chi è questa persona, dovrei rispondere: nessuno, è un non-essere.
Come quando guardo me e dico: “Chi è questo?” Siamo seri, non c’è nessun “chi”!
A questo livello, dunque, una risposta ce l’ho, ma se mi debbo fermare prima di questa comprensione, debbo riconoscere che quest’altro da me è un mistero; ti guardo, posso tentare delle approssimazioni, ma mi fanno sorridere rispetto alla complessità, alla vastità, alla coerenza e all’incoerenza, al guazzabuglio e al giardino fiorito: che cosa ne so?
Se tu sei niente altro che interpretazione di te, se io sono niente altro che interpretazione di me se, dal mio punto di vista, tu non sei niente altro che mia interpretazione, se tutto non è niente altro che interpretazione, di che cosa parliamo! C’è solo mistero, c’è solo non sapere, c’è solo una grande incognita che domina tutto quanto.
Fino a qui mi interessava sottolineare il limite del primo approccio con l’altro da sé, ora andiamo più a fondo. L’altro con la sua modalità, abbiamo detto, non corrisponde mai alla mia aspettativa ma non solo, mentre si presenta, in me scattano tutta una serie di giudizi e di meccanismi che mi svelano, che parlano di me; quindi il solo presentarsi dell’altro sulla scena rompe un equilibrio, perché invece di confermarmi, mi attiva processi che conducono, attraverso la consapevolezza che ho di me, a subire uno scacco.
L’altro non sta mai dentro al riquadro che io gli ho tracciato, non corrisponde mai alla mia aspettativa, né si lascia inquadrare dal mio giudizio; l’altro introduce sempre una variabile che esce fuori dagli schemi e costantemente mi spiazza: dimmi se non è vero? Tutti i giorni: dal giornalaio che ti risponde così piuttosto che cosà, al tuo compagno che nei piccoli, mille momenti della routine domestica ti spiazza e non è come tu lo avresti voluto. Naturalmente l’altro ti sorprende anche in tanti modi che ti piacciono o ti seducono ma, invariabilmente, la sua presenza introduce la rottura di un equilibrio e questo per la semplice ragione che il cosiddetto equilibrio comunemente sperimentato non è che un artefatto della mente.
Per la persona della via l’altro è qualcuno che ti costringe costantemente a vederti e ti dice: “Ti vedi nel tuo giudizio? Ti vedi nella tua aspettativa? Ti vedi in quell’etichetta, in quella pretesa?” Formidabile, sfibrante.
G: Insopportabile.
R: Dalla mattina alla sera, l’altro è lì come un tarlo che ti rode e non ti lascia mai in pace; ma, attenta, è l’altro o è quello che la tua mente recita sull’altro che ti si ritorce contro, se sai vederti? Se tu sei consapevole vedi come la tua mente ronza, come mastica sassi, come sferraglia, la vedi e dici: “Dio mio, guarda come in continuazione questa si eccita e in che incubo finisco!”
Quindi l’altro è un pretesto perché la mente si ecciti e faccia tutto il suo lavoro di macinatrice di sassi; sei mai stata in un frantoio, hai sentito il rumore?
Per una persona della via la cosa fondamentale è vedere i propri meccanismi; non possiamo cambiare la mente se non in modo relativo, ma possiamo vederla e dubitare, non accreditarla e disconnettere. Non possiamo cambiarla attivamente perché più ci sforziamo e più l’accreditiamo, più le prestiamo attenzione e più la legittimiamo, anche sofisticandola la confermiamo: possiamo vederla e pian piano imparare a non darle peso.
In quest’ottica ecco la funzione dell’altro come colui che ti scatena la mente; più è prossimo, più c’è un rapporto complice e più te la scatena; più è lontano e meno efficace è la sua azione. Più è genitore, figlio, compagno, amante e più te la scatena, ecco perché è importante un rapporto stretto, che abbia delle complicità, una condivisione del tempo routinario, un orizzonte su cui misurarsi.
G: Il fatto che io abbia chiuso questo rapporto in fondo è perché non sopporto la prossimità.
R: Bisogna vedere tante cose perché non è che si possa stare con tutti quanti, né siamo così masochisti da reggere situazioni distorte che ci fanno male o ci fanno veramente sbarellare. Come principio noi sappiamo che l’altro introduce nella nostra esistenza un elemento di crisi e qui dobbiamo ancora una volta sottolineare l’importanza fondamentale della crisi: la crisi che cos’è?
G: E’ un qualcosa che rompe la maglia della mente: ti vedi o fai finta che sia colpa sempre dell’altro?
R: La pratica nostra, corrente, è di puntare il dito sull’altro e di metterci nel ruolo di vittima, invece si tratta di sviluppare questa disponibilità ad entrare in crisi, a dire: “Ma non posso continuare questo gioco di puntare il dito sull’altro e di piangermi addosso!” Questo lo può fare uno che non ha nemmeno i rudimenti della via, ma io posso dirmi: “Tu che cosa porti nella mia esistenza? Perché mi dai tanto fastidio, mi irriti così tanto? La sola tua presenza parla di me, della mia intolleranza, della mia arroganza, della mia fragilità.”
La persona questo lo vede e può dire: “Perbacco, nel momento in cui ti presenti a me veramente mi metti in scacco!”
L’altro parla di te per un lunghissimo tratto di strada poi, ad un certo punto del cammino, non è più così, dopo ne parleremo, ma fino a quel punto è un pungiglione che non ti dà pace. Ti è mai capitato che quando esci di qui, magari dopo aver discusso un certo argomento, ti capitano delle scene che esplicitano l’argomento trattato? Ti si presenta una specie di laboratorio dove hai la possibilità di vivere il processo che hai affrontato concettualmente; la vita costantemente ci presenta laboratori dove possiamo lavorare noi stessi e le scene che accadono sono funzionali a processi interiori di trasformazione, ma ogni trasformazione può avvenire solo grazie all’incontro con l’altro da sé.
Noi siamo nel lamento continuo, tutto va storto o non va nel senso da noi desiderato, e abbiamo da ridire dalla mattina alla sera di ogni aspetto della vita che si presenta; osserva come ciascuno di noi costruisce una piccola torre dentro cui si arrocca, ed edifica un equilibrio fragilissimo che sembra minacciato dal mondo carogna che incombe e, in questo, temiamo l’incontro con l’altro come uno dei maggiori fattori di destabilizzazione.
G: Se posso fare un esempio, ieri nel treno, quasi vuoto, ero in uno scompartimento con altre persone; una donna molto bella, una insegnante universitaria credo, si mette davanti al nostro scompartimento, con la porta aperta, davanti a queste persone che stavano in silenzio o leggevano e comincia una telefonata senza fine, ad alta voce, in cui raccontava banalità. Dopo di un po’ abbiamo cominciato a scalpitare e io sinceramente ho sbuffato; avevo a fianco un signore simpaticissimo di una sessantina d’anni, che ha detto: “Ma non la trova divertente?” Lì ho capito, ho cominciato a rilassarmi e ho detto: “No, non la trovo divertente”.
Lui ha cominciato un discorso bellissimo, per cui ci siamo divertiti un sacco per un’ora, lei ha continuato a urlare, ma noi semplicemente ci siamo focalizzati su altro senza alimentare la protesta delle nostre menti.
R: Allora, tu hai avuto due “altri” da te: hai avuto lei che con il suo comportamento ha parlato di te. Perché ha parlato di te? Perché ha provocato la protesta e l’identificazione conseguente della tua mente, anche legittima, perché una così è difficile reggerla. Poi c’è il sessantenne che ti ha proposto una lettura diversa in modo che tu potessi disconnettere da quello che sorgeva nella tua mente e ti ha detto: “Stai prendendo sul serio la reazione della tua mente, non ci stai ridendo, perché non ci ridi invece di ingrugnirti?” Lui in realtà t’ha detto di sorridere di lei ma noi nel nostro linguaggio sappiamo che quello di cui dobbiamo sorridere è della reazione della nostra mente che finisce per enfatizzare il dato che la disturba. E’ un po’ come quando è caldo, se cominci a lamentarti e a protestare il caldo ti diventa insopportabile; se posi l’attenzione altrove, rimane caldo, ma non più di tanto.
Se vedi il movimento della mente puoi dire: “Sto dando craniate contro la realtà invece di danzarci assieme! Se mi oppongo l’intensità della scena aumenta perché è maggiore la credibilità che do al recitato della mente, quindi la scena non può che amplificarsi; in alternativa posso imparare a sorridere della sua reazione, questo la svelerà, la metterà in brache di tela e perderà significato”.
Tu pensa, ad esempio, quante volte ti trovi di fronte una persona che ti suscita antipatia e rimani ferma a quella prima impressione e non lasci che la situazione evolva e che quella persona ti possa mostrare altri volti di sé; se noi vedessimo il giudizio che la mente esprime e lo lasciassimo andare permetteremmo alla realtà di svilupparsi diversamente, lasciando che possano manifestarsi dei fotogrammi diversi o alternativi.
Quando l’altro si presenta la mente si attiva: riceve uno stimolo e sulla base di quello inizia a vibrare e più lo stimolo è forte più la vibrazione è forte; quindi si tratta di riconoscerla nel suo essere meccanismo eccitatorio, non un tempio, solo un banalissimo meccanismo eccitatorio, e dirle: “Che cosa stai facendo? Non mi interessa quello che stai facendo, dell’altro sottolinei l’antipatia che suscita ma con questo veli il tanto altro che può essere!”
Nel momento in cui mi pongo queste domande, dubito della mente. Allora, è vero che il primo moto è di antipatia, ma dopo averne preso atto – perché non è che debbo respingerlo, debbo accoglierlo – se vedo ciò che sta accadendo alzo lo sguardo su altre visioni e su ben più complesse comprensioni.
L’osservazione di quell’uomo di fianco a te ti ha permesso di distoglierti da quel battere a martello della tua mente; lui ti ha permesso di guardare alla scena da un altro punto di vista.
Tu dimmi se è possibile conoscere se stessi senza l’altro, intendendo per l’altro non soltanto l’umano ma anche l’animale, la natura, il tempo atmosferico, tutto ciò che si presenta alla nostra attenzione. Il nostro corpo è l’altro: pensa quanto ci spiazzano tutta la dimensione del corpo e dell’energia nella loro manifestazione sessuale, quale disorientamento producono nelle nostre menti e quanto è importante quel disorientamento, quanti paletti abbatte.
Guarda cosa la mente recita in merito alla sessualità e come poi il corpo e l’energia abbattono le barriere e come l’altro con la sua presenza, con la sua sensualità, collabora all’abbattimento dei paletti e conduce ad una messa in crisi della mente e del suo modo di interpretare la realtà, di raffigurarsi la realtà: la sessualità è questo, il corpo è questo, l’amore è questo. Poi, invece, arriva l’altro e il tuo corpo si muove e esce dagli argini e la mente viene scompaginata; guarda all’importanza fondamentale del corpo e della sessualità come a quel qualcosa che crea veramente un disordine, una perdita di riferimento.
Oppure il corpo che parla attraverso la malattia, quanto ci mette in crisi?
Tu prova a considerare il corpo come l’altro che non fa il giudizioso, che rompe le regole perché magari ha delle esigenze che ritiene impellenti e richiede soddisfazione.
G: Non gli frega di quello che dice la mente.
R: Dietro c’è sempre la mente però ad un certo punto lei diventa tangibilmente corpo e dice: “Qui bisogna soddisfare una certa cosa e quindi per piacere vediamo un po’!”
G: Che sei fidanzata o no..
R: Comprendi quanto è interessante questa cosa? Poi una cosa è essere in balia di questo e un’altra è vederlo e ricondurlo ad una gestione, in mancanza della quale le cose possono complicarsi, a volte; inoltre considera che il corpo ha un’autonomia relativa rispetto alla mente perché non è altro che una sua rappresentazione.
Tu pensa al corpo che si ammala; la mente ha la pretesa di una vita serena, senza scossoni, e invece ad un certo punto il veicolo gli si ammala, pensa quanto la mette in crisi. Pensa alla persona che viene colpita da un tumore e che ad un certo punto vede che la possibilità di sopravvivere è messa in dubbio, pensa quanto la mente viene scardinata.
Oppure la persona che viene colpita da un lutto, la morte di qualcuno vicino, pensa quanto viene provata.
Il singolo evento è il comparire dell’altro sulla scena della tua vita, l’altro che chiamiamo tumore, o perdita o altro; nel momento in cui compare inizia un processo, dobbiamo essere attenti a leggere il processo, non il singolo fatto avulso dal processo, perché se leggiamo il singolo fatto non possiamo comprendere che cosa sta accadendo nelle nostre esistenze. Se leggiamo il processo quei fatti acquisiscono un altro significato: l’altro nella forma del tumore, della malattia, della perdita, si presenta e rompe un ordine; ti costringe in una strettoia che è caos e crisi.
Sempre la crisi rompe un ordine e da questa sorgerà un nuovo ordine più sofisticato che verrà a sua volta rotto. L’ammalarsi del corpo, per tutte le implicazioni che comporta, è veramente formidabile come messa in scacco della persona.
G: Ma perché la necessità dello scacco? Più rifiuti di vederti e più sopraggiunge lo scacco?
R: Quella messa in scacco è vero o no che produce uno sguardo differente da quello che avevi prima? E’ vero o no che attiva un processo di interrogazione, di revisione, di trasformazione, di comprensione?
G: Racconta di suoi amici che hanno avuto una figlia disabile: gente di successo che gira il mondo, molto attenta alla affermazione di sé..
R: Nella vita di queste persone ad un certo punto arriva uno stop, nella forma di quest’esserino che si presenta e dice: “Io ho un problema”, e loro sono costretti a fare i conti, non solo col problema dell’esserino, ma con tutto ciò che avevano pensato di sé e della loro esistenza; loro sono messi con le spalle al muro, questo è molto interessante. Può nascere qualcosa o non può nascere niente, a noi non ci riguarda perché questa è la loro storia, quello che invece ci riguarda è l’insegnamento in merito a ciò che l’altro porta nelle nostre vite.
L’altro è veramente collaboratore efficace in tutte le sue manifestazioni di conferma o di smentita, ma quando, in vari modi ci manda in crisi, la sua funzione assume una pregnanza particolare; allora, quel bel partner lì, che ti accarezza, che dice sempre di sì, che è sempre presente e confermante non è detto che sia il migliore dei collaboratori possibili; forse quell’altro che è come carta vetrata..
Guarda la via interiore e la figura del “buon amico”, chi è costui? E’ qualcuno che ti mette di fronte a te stessa, è colui che ti aiuta nel lavoro di svelamento; è colui che non te la racconta, ti rimanda l’immagine di te. Nell’impatto con questa figura tu entri inevitabilmente in crisi.
Rispetto all’altro qualsiasi, che può anche essere inconsapevole, il buon amico è perfettamente consapevole del gioco che sta mettendo in atto e del fatto che si espone per te, non per sé; nell’esporsi sa che ti può fare male, e sa anche che tu puoi provare forti moti di avversione e antipatia che possono condurti a ritrarti dal rapporto: lo sa, ma non ha niente da perdere. Non lo fa per sé, lo fa perché in qualche modo qualcosa lo spinge a farlo, ma lui non è in gioco.
Allora vedi che c’è l’altro consapevole e l’altro inconsapevole, ovviamente l’altro consapevole gioca a tutto campo nello svelamento con una efficacia e una penetrazione che, da un lato ti svela fin nelle midolla, dall’altro ti aiuta a sviluppare gli strumenti per comprendere e per gestire la situazione.
Qui tu acquisisci degli strumenti in maniera diretta, nella vita gli acquisisci indirettamente; qui noi concettualizziamo anche, non facciamo solo l’esperienza dello svelamento, il tutto diventa afferrabile e gestibile dalla tua mente.
G: Velocizziamo i processi.
R: Perché c’è una messa in luce dei meccanismi, è il rapporto stesso tra di noi che ti rende inequivocabile ciò che ti attraversa, è come vedersi in uno specchio tirato a lucido. Subito dopo questo tu puoi realizzare una concettualizzazione appropriata di ciò che hai vissuto: è fondamentale, nella via interiore, poter interpretare in modo adeguato ciò che viviamo.
Se una cosa la vivi e ti vedi in un certo tuo meccanismo, ma non riesci a interpretarla, il processo è più lento; se invece ciò che hai vissuto lo inquadri, te lo spieghi, lo situi in un contesto originale, la mente evolve, diventa uno strumento sempre più duttile e sofisticato.
Naturalmente questo non significa che la mente cambia nelle sue leggi di fondo ma, pur rimanendo se stessa, cambia modalità.
Come tu sai il nostro tentativo non è quello di cambiare la mente, ma di andare oltre la mente, faccenda molto differente. Per andare oltre è condizione importante che questo attrezzo sia affilato: diciamo che utilizziamo la mente come grimaldello, scalziamo la mente con la mente. Questo fino ad un certo livello, poi la cosa si presenta in termini differenti.
Questo è tutto ciò che l’altro produce, consapevole o inconsapevole che sia.
G: Quando l’altro non è consapevole è molto più difficile.
R: E’ chiaro che tra due che utilizzano gli stessi criteri interpretativi e che hanno un buon livello di consapevolezza il lavoro è più semplice; tu sai che di fronte a qualsiasi tua reazione o azione l’altro mette in atto atteggiamenti che obbediscono ad una logica che conosci, sai il lavoro che l’altro fa e lui sa quello che fai tu. Di certo c’è che, consapevole o inconsapevole che l’altro sia, ti mette di fronte a te stessa e tu devi fare i conti con lo sballottamento che ti produce.
Adesso andiamo all’ultimo aspetto della seduta di oggi e che prepara anche il discorso sull’amore che faremo tra due sedute.
Allora tutto questo è vero, ma lo è fino ad un certo punto: cosa significa? Lungo il cammino fino ad un certo punto l’altro ti parla di te, da un certo punto in poi è semplicemente se stesso e non dice più niente di rilevante su di te.
Giunge una stagione della vita in cui sei sempre meno interessata a te, all’analisi e all’investigazione su di te; sorge uno sguardo che sempre di più si compenetra della comprensione che la mente è la mente che tu non sei la mente e quell’interesse per te con quel nome, con quelle sembianze, con quella certa manifestazione, con quel certo ruolo, in te pian piano va morendo e, nel momento in cui questo accade, muore anche l’altro in relazione a te.
Muore l’altro come quel qualcuno che ti mangi a tuo uso e consumo per i tuoi scopi, e si afferma l’altro come presenza che compare nella tua vita ma che parla soltanto di sé. Non parla più di te, non racconta più niente di te, per la semplice ragione che tu hai perso interesse per te e non hai più alcuno stimolo particolare ad interrogarti su di te.
Allora l’altro è quel qualcuno che si presenta ora in un modo, ora in un altro, ora con una modalità che ti può suscitare simpatia, ora con una che ti suscita antipatia, ma tu vedi la reazione della mente, in un verso o nell’altro, prendi atto che è la mente e lasci che l’altro sia quel che è.
L’altro è quel che è, parla di sé, parla del suo essere altro da te e parla del tuo non conoscerlo, non poterlo ricondurre ai tuoi schemi, parla del suo essere mistero.
Un qualcuno che la vita ti ha presentato e di cui non sai dire. Questo accade perché tu non hai più interesse per te: ti si presenta quella persona, quella situazione esistenziale, quel fiore lungo il sentiero che stai percorrendo; ti si presenta quel vento, quel cielo azzurro o quelle sferzate di bora, tu prendi atto. Non dici: “Povero me come ho freddo, o come ho caldo o come sono a disagio”, prendi atto che sta accadendo quello, non lo riconduci a te, ad un tuo giudizio, ad un tuo bisogno, ad un sentirti vittima, ad una mancanza: prendi atto.
Allora finalmente l’altro è l’altro e basta, e qui veramente inizia ad aprirsi un mondo sconfinato che è tutto quello che noi affronteremo nella seconda parte del nostro lavoro.
Conoscenza di sé, meditazione, contemplazione: introduzione
R[1]: Cominciamo questo viaggio che ci condurrà ad indagare il cammino dell’uomo incontro a se stesso; nell’avviare i nostri passi definiamo anche che siamo due persone della via che in un qualche modo dedicano la loro esistenza a questo percorso, le cui giornate sono permeate di questa ricerca e che interpretano la vita come processo senza fine di conoscenza, consapevolezza e comprensione.
Questa discussione introduttiva sarà una rapida escursione all’interno dei temi della via interiore; adesso ci interessa creare un clima, un ambiente, un contesto che disponga la mente del lettore ad essere macerata da questi argomenti. Nelle discussioni seguenti approfondiremo alcuni aspetti, altri rimarranno sospesi o inevasi, non ha importanza.
Perché abbiamo chiamato questo ciclo di conversazioni “La scomparsa dell’orizzonte”? [2]
Che cos’è la perdita dell’orizzonte per un umano?
L’uomo si muove dentro un orizzonte spaziale e temporale e, dentro quell’orizzonte, realizza la rappresentazione che chiama vita: se guarda davanti ha l’orizzonte di ciò che diverrà, se guarda indietro vede ciò da cui proviene. Ovunque l’uomo guardi la sua vita ha un orizzonte, è tesa nella ricerca di uno scopo, sente di essere all’interno di uno slancio, di un divenire esistenziale.
Ma quando l’uomo, per le ragioni che poi vedremo, si impatta con la via interiore, con il percorso spirituale, va incontro ad una esperienza che lo disorienta nel profondo: la via interiore non conduce ad essere migliori, ad un arricchimento di sé, ma ad un perdersi e ad un lasciar andare, ad un arrendersi e divenire piccoli e insignificanti; conduce oltre le categorie di migliore o peggiore, evoluto o limitato, adeguato o inadeguato.
La via interiore ha bisogno che l’uomo manifesti e porti a compimento la propria umanità, poggia sulle salde radici che l’umano ha costruito nel suo percorso esistenziale, ma edifica l’umano solo in una prima fase, in seguito lo svuota.
La via interiore conduce una persona oltre la propria umanità, oltre l’essere una identità, un nome; la conduce verso territori sconosciuti, privi di riferimenti, dove ciò che si è conosciuto nell’umano non ha più valore, dove la condivisione con l’altro del pensiero, dell’emozione, dell’azione, perde la sua rilevanza.
La via interiore è andare incontro ad un non sapere fondato sulla perdita di tutto ciò che si sapeva; è andare verso un non sentire se raffrontato a ciò che si sentiva; è andare verso un rapporto con la volontà completamente differente da quello conosciuto.
La via interiore non è la via verso la spiritualità, la santità, l’illuminazione, è la via verso la perdita di sé, del proprio essere individui; chi ritiene che la via sia il luogo dove si fanno esperienze straordinarie, dove il proprio essere, in virtù della pratica e della comprensione raggiunte, si perfeziona e vede superarsi il proprio limite, quel limite che tanto angustia l’umano, questa persona è destinata ad un amaro risveglio. Non c’è liberazione dal limite per volontà propria; non c’è miglioramento per volontà propria; non c’è libertà che poggi sul proprio sforzo. La persona della via sperimenta sulla propria pelle che non si migliora, non si cambia nei meccanismi più profondi, non si ottiene la libertà perché la si desidera: si viene liberati, è molto diverso. Il cammino spirituale conduce nell’intimo della propria natura, nell’intimo del limite, nella radice delle forze creative e distruttive che sostengono l’esperienza umana.
Se si crede che la via sia l’incontro con tutto ciò che di bene esiste nel creato, bisognerà ricredersi: la via conduce in faccia alle forze che governano la rappresentazione ed è impietosa nel mostrarle nella loro nudità; non c’è edulcorazione, ma nemmeno durezza nella via: c’è l’esperienza dell’uomo vissuta nella consapevolezza che il bene e il male sono solo bastioni della mente dell’uomo, la vita è oltre l’opposizione bene-male, la vita canta se stessa e non sa che farsene degli schemi duali dell’uomo.
La vita non consola e non punisce, accade, e lì, in quell’accadere, chiede un’attenzione, un disporsi, una resa.
La via interiore chiama l’uomo alla vita: che questi abbia scelto un monte per abitare, un appartamento in città, una barca su un fiume, una comunità o la solitudine di un eremo, non può fuggire alla vita; la via interiore è il canto della vita, non è una filosofia, non una morale, non un’etica, non una pratica, non un ruolo o una funzione, non una sapienza o un’ignoranza.
La via è l’essere piegati alla vita che giunge e sempre ti spiazza, che non bussa, non chiede permesso: irrompe e nel farlo devi fare i conti con lei, sei costretto a vederla; puoi opporti, puoi lottare, ma alla fine devi piegarti.
Piegarsi. Perdere. Venire svuotati: queste sono le esperienze con cui si confronta la persona nella via. Piegare la mente e la sua opposizione. Perdere l’identificazione con il pensiero, con l’emozione, con l’azione. Venire svuotati di tutto ciò che sentivamo come nostra ricchezza.
Queste conversazioni, questo libro parlano di questo e si rivolgono a coloro che non cercano una consolazione o una esperienza significante: queste parole sono rivolte al cuore e alla mente di chi è sufficientemente stanco di sé e ha compreso che un circo non va sostituito con un altro circo, magari profumato d’incenso. Il cammino spirituale è uno spogliarsi, indumento dopo indumento finché non sorge la propria nudità difficile, a volte, da reggere allo sguardo; il cammino è un lento incedere dentro ad un morire della parola, della pretesa di dire, di spiegare, ed infine conduce alla morte di tutte le domande, di tutto l’investigare, del principio stesso del provare interesse per qualcosa.
La via comporta un disimparare tutto ciò che si è appreso sulla via stessa, porta nel suo grembo il processo dell’abortire se stessa.
La via comporta un perdersi, uno smarrire i riferimenti, un sentirsi sospinti senza conoscere la direzione, senza avere volontà propria nel procedere.
La via è il luogo dell’incertezza, della non risposta, del dubbio, dell’osservazione perplessa. Di fronte all’esistenza che mostra il suo campionario, per lungo tempo, l’unico sentimento persistente è la perplessità.
La via ti butta nell’esistenza e ti sradica dall’esistente, ti conferisce l’intima gioia del nascere a te stesso e, un attimo dopo, ti fa sorgere un sorriso beffardo su quello che credi di aver raggiunto.
La via è una madre con gli occhi strabici, non hai mai la certezza che si occupi di te.
La via è in gran parte mistificazione della mente: da un punto di vista veramente neutrale, direi che non esiste alcuna via, ma sola la rappresentazione della via dentro al divenire, dentro alla mente. Fuori dal divenire non c’è via.
Fuori dalla mente non c’è via.
Dentro le logiche della mente c’è qualcuno che diviene da ottusità a libertà e il film che sta guardando parla di una via, di un processo, di un divenire: se è identificato, il film è la sua vita, ma se non è identificato il film è solo un film e la vita vera è nelle pieghe del film, oltre ciò che appare.
Nella vita vera nulla diviene, tutto è, nessuno passa da ottusità a libertà, ogni cosa, ogni stato è perfetto così come è. Noi parliamo della via ed usiamo questa mistificazione, questa rappresentazione della realtà, per farci comprendere dalle menti ma dal nostro punto di vista non c’è via, c’è la vita che è così come è e non chiede a nessuno di essere diverso da quel che è.
Non chiediamo al lettore di comprendere ora, quel che diciamo: se queste parole non l’hanno scandalizzato scoprirà, più avanti, che queste affermazioni non sono paradossi ma rappresentano la visione feriale di un viandante che non si racconta favole, ma guarda alla realtà per quello che essa è. In un tempo in cui tutto è consumo era inevitabile che anche la via fosse oggetto di consumo, luogo dove cercare l’emozione piuttosto che la resa; sono alcuni decenni che questa parodia è in scena e non sembra che gli spettatori abbiano ancora compreso l’inganno: non importa, non ci riguarda.
Non abbiamo niente in comune con il percorso interiore ridotto a circo, ma non vogliamo nemmeno trasmettere l’idea di una via che è solo fatica, difficoltà, solitudine.
Dal nostro punto di vista l’interrogazione su di sé e sulla vita, il coltivare la consapevolezza e la disconnessione sono la dignità dell’uomo, ciò che rende delle vite degne di chiamarsi tali, sono la fioritura dell’umano e dell’avventura nel tempo e nello spazio; ciascuno, nel proprio intimo può scoprire che non parliamo di lacrime e sangue, ma dell’esistenza nella sua dignità.
La via interiore passa dalla porta stretta della conoscenza di sé e dei meccanismi, dei modi, delle particolarità che compongono quel sé così reale, così presente, al quale siamo così attaccati, senza il quale sprofondiamo nella dissociazione schizoide; quel sé in realtà non esiste, se non come artifizio prodotto dalla mente. Nella realtà, evidente alla persona che osserva la vita attraverso gli occhi della contemplazione, non c’è alcun portatore di nome; la vita, in quest’ottica, non è l’edificazione di sé, ma lo svelamento del meccanismo che porta alla costruzione di sé come portatore di un nome.
La via interiore non può non passare attraverso la conoscenza della mente[3]: tutte le vie, qualunque sia l’ambito che prediligono debbono confrontarsi con i contenuti della mente e tutte hanno elaborato approcci alle dinamiche mentali, più o meno sofisticati.
Ora posiamo lo sguardo sulla mente con rapidi passaggi, per sviluppare una prima confidenza; il discorso ha una sua complessità e il lettore che è essenzialmente focalizzato sul sentire può trovarsi in affanno, ma ricordiamo che ciò che non trova mutamento sul piano della mente non muta nemmeno sugli altri piani: se non cambiano le convinzioni, niente cambia.
La mente si costituisce nel tempo come sedimentazione: giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, struttura i suoi contenuti e li organizza in virtù delle facoltà della memoria e del giudizio.
Non è una stanza dove si buttano cose alla rinfusa, è un contenitore che nel tempo si stratifica secondo dei criteri di archiviazione, alcuni personali, altri propri alla struttura dell’organismo.
Quando è necessario, confronta ciò che accade nell’adesso, con ciò che c’è nei suoi archivi; qualunque cosa viva, la mente la paragona con ciò che già conosce. Quindi è un organismo che si sviluppa nel tempo e guarda al presente con gli occhi del passato.
Direi inoltre che la mente è un organismo energetico che ha bisogno di mantenere un certo livello di stabilità e per farlo deve operare ad un certo regime; chiaramente ogni mente è un mondo a sé, però tutte le menti hanno tratti in comune e tutte tendono ad un livello di stabilità che poggia su fonti continue di approvvigionamento e rinnovamento.
Credo potremmo dire che la mente è simile ad un ecosistema dove una serie di elementi cooperano per mantenere un equilibrio: ci sono elementi di crescita e di distruzione, c’è un continuo mutamento e rinnovamento ma nel complesso, tra il crescere e il distruggere c’è un fondamentale equilibrio.
A me non riesce di pensare che la mente sia un organismo nemico dell’uomo, come viene sostenuto direttamente e indirettamente in alcune scuole di pensiero spirituali, credo che ogni organo abbia la sua funzione: il fegato ha la sua funzione; i reni, gli organi genitali hanno la loro funzione; il corpo mentale e astrale hanno le loro funzioni: una via spirituale che consideri la mente come il problema credo che introduca una distorsione.
La questione riguarda il punto di vista da cui la guardiamo, ecco perché parliamo di mente come ecosistema: in essa ci sono crescita ed equilibrio, conflitto e distruzione ed è certo che questo organismo ha una struttura che credo sia la risultante dalla connessione che si stabilisce tra pensieri, emozioni ed azioni o, detto in altri termini, tra il pensare, il sentire ed il volere.
Sia i pensieri, che le emozioni, che le azioni, sono soggetti ad un’operazione incessante di etichettatura e di giudizio; il pensiero è etichettato, l’emozione è etichettata, l’azione è etichettata e tra essi si stabilisce una connessione la cui risultante è il senso di identità: la relazione tra questi tre agenti che portano a manifestazione gli impulsi della coscienza, genera l’ego.
Ogni pensiero porta con sé un’emozione e ogni emozione è legata ad un pensiero, ed ognuno di essi porta a manifestazione un determinato sentire, una richiesta di dati, un’intenzione che giunge dalla coscienza; da questa connessione tra molteplici fattori scaturisce l’identità: queste singole concatenazioni poste in relazione con altre concatenazioni danno luogo all’immagine di sé.
In questo percorso parleremo costantemente delle mente, qui tracciamo poche, sommarie pennellate di colore per inquadrare la questione; una trattazione completa non ci interessa, rimandiamo al formidabile lavoro compiuto dalla Via della Conoscenza e dal suo maestro, Soggetto.
Tutta la nostra vita, la nostra rappresentazione, è un muoverci tra pensiero, emozione, azione, alla ricerca di una significanza, di una densità, di una pregnanza, di una pienezza. É come se noi cercassimo, per tutta l’esistenza, la piena significanza del nostro pensiero, della nostra emozione, della nostra azione: uno splendore dentro questa concatenazione.
É un tentativo continuo di proiettare e assaporare una densità sempre maggiore, spinti dal bisogno di conferire un senso alle nostre esistenze.
Quand’è che una persona inizia a confrontarsi seriamente con le dinamiche della propria mente e si impatta nella via spirituale? Che cosa accade nella sua esistenza e nella sua mente?
G: Il quando secondo me è determinato da un fallimento profondo nella relazione con tutto ciò che c’era fuori di sé. Quando, per molti anni, c’è stato un impulso continuo a cercare fuori un obiettivo saliente o un significato consistente, quando tutto l’essere si è proteso verso quello, con tutta l’energia, lo sforzo, come un arco troppo tirato verso un obiettivo – che nel tempo è cambiato secondo le sfide che la mente imponeva – quando giunge all’ennesimo fallimento secondo me, allora lì, si chiudono le porte del fuori e si smette di cercare fuori. Si è sempre pensato che la risposta fosse fuori.
R: Quindi dipendesse dall’altro?
G: Dall’altro, dalla relazione, dal successo lavorativo, dalla posizione sociale.
R: Dalla vita che è ingiusta..
G: Dall’incolpare gli altri, dal karma.
R: D’accordo. Invece poi ad un certo punto c’è un riposizionamento e cosa inizia a fare quella persona?
G: Comincia a indagare dentro.
R: Cosa significa?
G: La prima cosa che si fa, è cercare le radici dei propri errori nel passato e lì, per molti versi, c’è un impaludamento.
R: Però è anche una necessità. Perché è necessaria, per tanti aspetti, l’indagine sul passato?
G: Perché si ha bisogno di una bussola, di una mappa logica, la mente chiede una logicità, un nesso di causa-effetto.
R: Ma anche perché, in un certo modo, quello che siamo oggi è il risultato di strati di sedimentazioni che nel tempo si sono accumulati e strutturati. Se vuoi capire molte cose di oggi, del tuo modo di funzionare, necessariamente devi andare a vedere come si sono formate nel tempo, come la mente funziona: come connette quel pensiero a quella emozione e a quella azione, come etichetta, come giudica, come si avvita ed entra in stallo.
Quindi lo sguardo rivolto verso il dentro è indirizzato alla comprensione della modalità di lavoro della propria mente, della propria identità. Questa è, in parte, la funzione di indagine svolta dalla psicologia.
Poi la persona, indagando sulla propria mente e sui propri meccanismi, che cosa scopre?
G: Scopre che se le va dietro è un gioco infinito, è come farsi prendere in giro da una giostra perpetua, un disco incantato, che vuole raccontare sempre la stessa storia trita e ritrita, finché non si accorge che in tutto questo c’è una forma di godimento.
R: Il godimento di chi?
G: Del riaprire la ferita, della vittima.
R: Ma, fammi capire, che cosa ne trae la persona, o la mente, dall’andare a mettere continuamente il dito nella ferita?
G: Cibo per se stessa.
R: Sì, eccitazione. Guarda il depresso nel suo dolore, dentro la cuccia del suo dolore: ad un certo punto il suo stare male – il suo essere devastato per tanti versi – quel risiedere nel dolore diventa un modo di nutrire la mente, un modo di alimentarla e di strutturare identità. Un modo di dare a quell’ecosistema un’energia che gli conferisce forma e sostanza. La mente, l’identità, ha una sua relativa autonomia, questo noi lo dimentichiamo sempre. É un organismo che esegue gli impulsi della coscienza ma è anche autoreferente: purtroppo noi ci identifichiamo con essa e con quell’apparenza di essere che genera.
G: Io penso, io ho un problema..
R: La mente pensa, la mente ha un problema. E’ qui che generiamo la nostra prigione, nella identificazione. La mente è un organismo a sé stante, con leggi sue, con dinamiche sue, noi la consideriamo noi stessi, perché è essa che genera il nostro nome, che ci genera come individui. Ovvio che diciamo: “Noi e la mente siamo la stessa cosa” e parliamo della mente come di noi stessi: siamo generati da essa.
In realtà, se tu guardi spassionatamente da fuori la mente, la vedi funzionare con la sua complessità ma come un organismo a sé; se invece partecipi al suo funzionare è lì che diventi un nome.
La speculazione senza fine, il rimuginare continuamente, non sono altro che una maniera di mantenere ad un determinato livello di eccitazione e di vitalità l’organo mente, attraverso l’identificazione con i processi che realizza.
Diamo energia al sistema senza sosta, ed il sistema è vorace e ha continuamente bisogno di stimoli: più lo solleciti, più ne vuole, più alza il livello del sua richiesta.
Tu guarda il sistema dell’informazione, guarda l’eccesso cui sono arrivati, dove tutto tende ad eccitare la mente dello spettatore, fino al paradosso che poi questa si anestetizza, si assuefa, e allora cosa fanno? Se prima ti eccitavo la mente facendoti vedere un cadavere per strada, adesso la eccito facendoti vedere un cadavere tutto sventrato. E poi ti faccio vedere il gesto dell’ uccidere e poi ancora di più, ancora di più.
Se prima le nostre menti arrossivano nel vedere la gamba di una donna fino al polpaccio, ora ti mostro la donna in posizione ginecologica perché la caviglia nemmeno la vedi; è così, perché la mente è un organismo fatto in questo modo: più tu alzi il livello, più lei si ristruttura e divora quel nuovo livello che sperimenta.
Poi, ad un certo punto, tutto questo non la nutre più e dice: “Oh, che noia! Ma qui non accade niente di significante; non ci sono pensieri, né emozioni, né azioni significanti!” É come un bambino o un adolescente alla ricerca di un qualcosa di nuovo, che le dia significato. E’ costantemente proiettata verso nuovi livelli di pregnanza e di senso, continuamente alla ricerca di uno stimolo che la qualifichi, le permetta di sentirsi d’essere attraverso la delimitazione di ciò che è di sua pertinenza e ciò che è altro da sé.
Questo è fisiologico, perché se così non fosse il bambino rimarrebbe bambino, non indagherebbe mai. La mente si struttura e diventa complessa e varia, proprio perché c’è questa spinta verso una complessità che giunge dalla coscienza[4]. C’è questa fame, questa sete di stimolazione e di esperienza nuova, di punti di vista nuovi: questo è fondamentale, altrimenti non esisterebbe questa rappresentazione che chiamiamo vita.
Questa persona che ha vissuto i moti eccitatori della mente, ad un certo punto arriva ad una perdita di senso, si trova costretta dall’insoddisfazione che la realtà le determina, a dirigere lo sguardo verso di sé; necessariamente deve rivolgere lo sguardo verso di sé e si rende conto che è intrappolata in una giostra; e quando si rende conto che è in una giostra?
G: Deve decidere se continuare a stare lì o scendere. Perché come dicevi tu è stata una tappa evolutiva quella della mente, perché la mente è processo; non saremmo nel 2008 con tutto quello che abbiamo realizzato in tanti campi. Soltanto che la mente legata all’emozionalità della persona è una trappola, bisognerebbe disinnescarla dal proprio processo affettivo-emozionale e usarla come un computer per fare delle cose meccaniche di sopravvivenza. Non bisognerebbe includerla nel processo vitale della persona..
R: Però non sarebbe più vita. La vita è tale perché c’è una connessione tra pensiero, emozione e azione. Allora, questa persona può dire: “Se continuo così sono in balia delle dinamiche della mia mente che ha necessità sempre più complesse, di eccitazione sempre più forte: la vita mi è diventata insopportabile, ho capito che è a causa della mente e di conseguenza devo disconnettere dai suoi processi”.
Su questa crisi della persona poggia tutto il nostro ragionare e il percorso che noi proponiamo: tutto ciò che abbiamo detto all’inizio preparava questo: ad un certo punto la persona si trova nella situazione che se non riesce a distaccarsi dai propri processi mentali non solo può soccombere, ma la propria vita rimane in un ambito di frustrazione e non può conseguire quella significanza cui aspira; allora disconnettere dai processi mentali diventa una questione veramente importante, la questione principale che la persona, nella crisi, si trova ad affrontare.
Abbiamo detto che il processo mentale è stabilito dalla connessione tra pensiero, emozione e azione. Se io ho un determinato pensiero, normalmente questo è associato anche ad un determinato stato emotivo. Se ho una emozione, normalmente è sostenuta da un pensiero. Se compio una certa azione, normalmente dietro c’è un pensiero e uno stato emozionale: i tre sono connessi.
La persona, stanca della sua frustrazione si rende conto che è prigioniera di un meccanismo che la sovrasta; se andiamo a guardare che cosa può fare, scopriamo che può distaccarsi dal pensiero, da quell’emozione legata a quel pensiero, e magari anche da quell’azione che sta compiendo.
Non solo, ma può dire: “Ho una certa emozione e devo imparare a viverla in quanto tale, non legata a nessun pensiero, e a nessuna azione cui può dar luogo. Devo vivere l’emozione in sé, o devo vivere il pensiero in sé, separati”.
Ad esempio se a me adesso, in questo preciso istante, passa per la mente un pensiero osceno, oppure uno terribile, vedo che quel pensiero porta con sé un contenuto emotivo e potrebbe condurre anche ad un’azione, ma posso viverlo a sé stante e basta, pensiero che attraversa la mente; vedo anche che è legato ad un’emozione, ed anch’essa attraversa la mente; sullo sfondo c’è una possibile azione ma io non connetto, non collego tra loro pensiero-emozione-azione, vivo il pensiero nella sua oscenità e nella sua violenza e lo lascio andare.
Riconosco il pensiero, ma non mi lego ad esso, perché se mi lego cosa faccio? Necessariamente mi porto dietro tutta l’emozione e forse anche tutta l’azione, questo secondo il principio che all’origine di tutto c’è sempre un pensiero, conscio o inconscio che sia; invece mi fermo a guardare il pensiero: ecco, c’è questo pensiero, e lo lascio andare.
Quando nella mia mente sorge un pensiero forte, cosa sorge insieme a quel pensiero?
G: Il giudizio.
R: Sorge una parte della mente, legata a tutto un sentire emotivo, che dice: “Ma cosa pensi?”
Questa è una faccenda complicata: ogni pensiero, emozione ed azione portano con sé un giudizio, come fai a distaccarti da qualcosa per cui ti colpevolizzi?
Se ogni pensiero, emozione, azione che sorge è etichettata e giudicata, di che disconnessione parliamo? Se c’è il giudizio, c’è qualcuno che lo emette e siamo legati a quella sentenza che emettiamo e sentiamo come ineluttabile, rispetto alla mostruosità che ci è transitata in testa.
Ciò che ci lega al pensiero è il giudizio sul pensiero stesso. L’identificazione poggia e si sviluppa sul giudizio: il giudicare qualifica come individuo il giudicante.
Il giudizio è il pilastro dell’identità e della mente.
L’identificazione non nasce dal fatto che nella mente possano scorrere pensieri, emozioni, azioni, nasce dal fatto che su ciò che sorge qualcuno esprime un giudizio. E quando lo esprime lo fa proprio, si identifica, è esso stesso quel giudizio.
E’ il giudizio che mette il mio nome su quell’azione.
G: Però estirpare la radice del giudizio, è un’impresa titanica perché è dalla primissima infanzia che viene sviluppata questa funzione. Appena nati non abbiamo il giudizio.
R: Certo, non abbiamo la mente ancora strutturata.
G: Infatti, vorrei chiederti se il giudizio è una funzione propria della mente..
R: Sì, intrinseca; è nella natura della mente definire in vari modi la realtà.
G: Però ogni vissuto individuale e personale dà un filtro a quel giudizio, un colore, chiamiamolo così.
R: Sì, certamente, però tutte le menti giudicano, è veramente nella natura della mente giudicare. Nel neonato questo non c’è perché non c’è l’esperienza; man mano che si struttura nasce l’organismo mente e assume sempre più connotazione questa qualità intrinseca del giudizio.
Il giudizio su cosa è fondato?
G: Sulla polarità.
R: Sì, dalle polarità elementari come il bene-male alle più sofisticate; poi man mano che la mente/identità cresce e si organizza, genera e struttura una visione morale.
Che cos’è la morale?
G: La morale, “istruzioni per l’uso”.
R: Come si forma la morale?
G: Secondo me si forma perché l’uomo ha paura della vita intesa come molteplicità delle possibilità. Allora la morale ti offre un modo per aggrapparti a qualche cosa e farti sentire al sicuro e meritevole di rispetto, di dignità e fiducia; all’interno di quella gabbietta uno sa come muoversi, altrimenti..
Io penso sempre al primo uomo, all’uomo preistorico, alla paura che deve aver avuto in un mondo che non conosceva e lui non aveva doti intellettive per capire come gestirla; la morale ti dà un controllo illusorio sulla vita e se tu ti attieni a quello, hai meno paura della tua vita, perché credi di poterla controllare in base a quei due principi manichei, il bene e il male, e sei come un burattino con dei fili: se vai di qua sei accettato, sei vai di là non lo sei.
R: Tu pensa al bambino che se fa una cosa è accettato, se ne fa un’altra non lo è. Pian piano, il tutto si sofistica, ma il principio rimane quello, il bisogno di un posto, di un’accoglienza.
G: Un riconoscimento; io sono qui per lo stesso motivo.
R: Fammi capire..
G: Voglio dire che ho riflettuto molto sulla tua proposta e chiaramente è una cosa che mi dà tanta gratitudine e riconoscimento per quello che mi stai offrendo, per il fatto di poter parlare con te, questo nutre una parte dentro di me che ha bisogno di essere riconosciuta; è di fondamentale importanza per me respirarci tranquillamente e non nascondermi dietro un capello, perché mi fa enormemente piacere.
R: Certo, la bambina è riconosciuta. L’uomo primitivo ha dovuto in un qualche modo imparare cosa scottava, cosa l’affogava, chi lo ammazzava; ha dovuto capire, ha creato quella piccola saggezza attraverso l’esperienza. Così nella mente del bambino si sviluppa quella piccola saggezza che gli consente di crearsi degli alleati.
G: Una strategia di sopravvivenza.
R: La cosa principale per il bambino è essere riconosciuto e questo ci porta al fatto che la cosa fondamentale nella vita di un umano è la realizzazione della propria identità; tutto è proteso a questo e la mente è un organismo efficace per questo, quella è la sua natura.
La mente è uno strumento formidabile, perché porta l’essere alla compiutezza della sua rappresentazione umana e, intrinsecamente a questo, della sua alienazione. L’umano è questo, ma l’essere in manifestazione non è solo umano che accade.
La mente è un fiore che deve essere aperto, utilizzato, dispiegato, accolto, conosciuto perché possa portare a splendore il principio dell’identità, la manifestazione del nome, la consapevolezza della separazione: questo va affermato in una via interiore, perché ci sono molti equivoci.
La mente, per sua intima struttura, porta l’uomo a separarsi da tutto il resto, a sentirsi a se stante, unico e, pian piano, lo modella e gli conferisce il senso di essere un individuo, con capacità proprie, con un valore e creatività proprie, caratteristiche uniche.
La mente è un organismo che secerne e genera l’identità e, per sua natura, da una massa estrae un componente che modella nel tempo fino a conferirgli una forma compiuta[5]. Come lo scultore che vede il blocco di marmo e comincia a lavorarselo finché non estrae la forma che aveva immaginato.
La vita diventa nient’altro che questa operazione governata dalla mente, dalle sue dinamiche, attraverso l’esperienza, la connessione pensiero – emozione – azione, l’interazione con l’altro, con l’ambiente, con le forze cosmiche; diventa la possibilità che quel piccolo bambino, senza nessun confine, acquisisca consapevolezza di sé e si sviluppi nei suoi processi e, nel suo divenire adulto, dica: “Perbacco, ho un nome!”. Essere portatori di un nome, è bella questa cosa, la trovo stupenda; il nome esprime la propria natura limitata.
Qualcuno capace finalmente di pronunciare il proprio nome, che liberazione! Non c’è niente, se non c’è questo diventare persona e poter pronunciare liberamente il proprio nome, perché questo è il gioco della vita, la prima metà del gioco della vita.
Questo è l’inspiro.
Ma dopo l’inspiro inizia l’espiro, l’inspiro prepara l’espiro, ed è qui l’interessante dal nostro punto di vista, la crisi che sopraggiunge quando l’uomo inspira e ad un certo punto non sa più cosa fare, e si perde: a quel punto deve espirare. In queste conversazioni parleremo soprattutto dell’espiro, della danza tra inspiro ed espiro, ma soprattutto del lasciar andare, perché la via interiore, la via spirituale, è innanzitutto questo svuotarsi.
Ma se quest’uomo non è capace di inspirare, se il suo respiro è corto, asmatico, se quando respira gli fanno male i polmoni, se non ce la fa, o sente che non c’è mai quella pienezza, che c’è sempre qualcosa che lo trattiene, diventa prigioniero della sua gabbia toracica, della sua vita, capisci?
Tutta la rappresentazione dell’uomo si svolge all’interno di questo movimento dell’inspiro; tutte le complicanze e le difficoltà si svolgono lì dentro. L’uomo è inserito in questo ritmo cosmico che è l’inspiro e l’espiro, ma soffoca, arranca e si arrende dentro all’inspiro.
Arranca nel pronunciare il proprio nome, nel pronunciare i propri diritti, nel rivendicare, nel mettere in atto una rappresentazione piena dove possa dire: “Io sono io. Questo è il mio spazio, quello è il tuo spazio”, arranca nell’affermazione di un suo diritto inalienabile, sentirsi individuo, delimitato e circoscritto; lì arranca.
É buffa questa cosa, perché non pongo l’accento sul fatto che l’uomo non sa relazionarsi all’altro, non sa amare; sto dicendo che non sa fino in fondo proclamarsi individuo. Non nel fatto che non sa condividere, non sa scambiare, non sa donarsi: il problema dell’uomo è che non sa dire “io” o, quando lo dice, non ci crede.
Non sa dire “io” pienamente, liberamente, fluidamente, sfacciatamente, non lo sa dire.
G: Perché c’è la censura..
R: L’uomo ha dovuto trovare un modo, una modulazione, nel dire “io”, per non sopraffare l’altro; tanti uomini che vivono assieme nella natura, se ciascuno avesse gridato il proprio io senza tenere conto dell’io dell’altro, a clavate sulla testa sarebbe finita!
Ha dovuto trovare un modo e ha posto tutti i paletti della morale, fino a che, ad un certo punto, questo impianto diventa una prigione, un soffocamento di sé.
Guarda dove siamo arrivati con il nostro ragionamento: l’uomo durante il suo percorso, ad un certo punto, non può che affrancarsi dalla morale perché altrimenti non fa l’ultimo passo, l’ultimo salto. Significa che l’uomo diventa senza morale? Non direi, è più complicato.
Stiamo dicendo che una mente che si forma e si struttura, ha bisogno evidentemente di regole, e non è che ogni volta uno può sperimentare tutto quanto da capo; c’è il genitore che ti dice: “Non toccare il fuoco, perché scotta”, non abbiamo bisogno di riprovare l’esperienza diretta, impariamo anche in un altro modo; però ad un certo punto la persona deve affrancarsi da questo impianto condizionante.
Questo significa che l’uomo al culmine del suo inspiro sente che il legame morale gli sta stretto, ma tu hai idea di quante implicazioni porta con sé questo stato interiore?
G: Tantissime, deve rompere tutte le catene. Agli occhi degli altri diventa un disadattato.
R: E agli occhi propri cosa diventa? Tu devi rompere le catene morali o ti si rompono? Sei portato a fare delle cose che ti disorientano, hai una visione delle cose che ti spiazza ma non l’hai scelta, ti è accaduta.
G: Non è una cosa che segue la volontà, accade e basta. Se posso dirti la mia esperienza, quando ho deciso di lasciare il lavoro, le notti precedenti alla scelta, ho sognato uno schiavo nero, africano, molto robusto, che nella stiva tirava le braccia con le catene ai polsi. Dopo la scelta, la notte ricompare lo schiavo nero, ma luminosissimo. Prima era tutto lividi e rattrappito, dopo mi veniva incontro libero, per ringraziarmi. Per me è stata una liberazione, io mi sentivo come lui. Anche se fuori vivevo una situazione apparentemente libera, mi sono tolta dei pesi enormi. Non è che uno diventa un ribelle forzatamente, è proprio un scegliere te stesso.
Sei unico al mondo, ci sei solo tu così e se sei così, ci sarà un motivo, vorrà dire che dovrai portare una differenza nel collettivo; vogliamo tutti essere uguali, in realtà Dio ci ha creato tutti diversi. Allora ho pensato: “Devo riprendermi il mio diritto di nascita”, perché alla fine è quello che viene calpestato nel tendere ad essere tutti uguali per sentirsi approvati e sentirsi mancanti quando stride questa omologazione; è lì il problema, è capire che se sei nato così, ci sarà un posto anche per te, magari in una maniera diversa.
R: Quindi ad un certo punto ti devi liberare dai condizionamenti e lasciare quella piccola nicchia che hai occupato fino a quel momento; questo processo lo chiamerei: lo splendere della propria umanità. Hai bisogno di rompere le catene per splendere nella tua umanità; o la persona compie questo gesto o è destinata ..
G: Ad una morte lenta.
R: L’umano al culmine del suo inspiro, pronuncia il suo nome, ma nel pronunciarlo è veramente differente da tutti gli altri, ed è veramente il “suo” nome; adesso può pronunciarlo pienamente, perché non corre più il rischio di essere di danno al proprio prossimo, nel momento in cui ha fatto le sue scelte, ormai riguardano solo lui ed è capace di assumersene la responsabilità. Molto del resto è ammaestrato, le spinte, le forze, sono sufficientemente domate e nella mente hanno un loro modo di funzionare automatico: la mente si è sofisticata, non è più un organismo elementare e la coscienza guida con più saldezza i processi avendo, di esperienza in esperienza, organizzato ed ampliato il suo sentire.
Finché c’è una spinta vitale, un istinto vitale non gestito, può produrre sull’altro un’offesa, ma quando la mente è evoluta attraverso l’esperienza e la sedimentazione, quella spinta vitale viene pienamente gestita dall’organismo mente. Quella spinta, di per sé, ha sempre una forza dirompente, una vitalità, sia nel troglodita con la clava, che nell’uomo evoluto, è sempre potenzialmente devastante, ma viene gestita nel troglodita da una mente rudimentale non ancora strutturata, e nell’uomo evoluto da una mente estremamente elaborata che, in vari modi, la ingloba, la trasforma, la direziona.
La persona pronuncia il proprio nome e sente che è un fiore in mezzo al prato, con tanti altri fiori, ma ha una connotazione particolare, un profumo e un colore particolari, diversi rispetto a tutti gli altri, distinti dagli altri, e per giungere a quello ha fatto mille piccole scelte di distinzione, differenziazione e, a volte, di rottura.
La morale tende a uniformarci, a piallarci. Ci riconduce a schemi di comportamento, necessari fino ad un certo punto perché la mente non è ancora giunta ad un livello di sofisticazione soddisfacente, ma da un certo livello in poi la mente non può che far esplodere quel contenitore, perché diventa un qualcosa che soffoca il pieno dispiegarsi del suo essere organismo.
Siccome non c’è più un pericolo derivante da un uso insulso degli istinti, allora l’operazione può avvenire e avviene: la persona alla fine del suo inspirare pronuncia il proprio nome, ed è una persona libera dal vincolo.
Questa è tutta la grande fatica dell’uomo: giungere a questo pieno inspiro, pieno pronunciare la parola e pieno essere libero dal vincolo.
Lì può cominciare a espirare. Naturalmente comincia anche prima; quando una persona entra nella via spirituale spesso non è arrivata a questo compimento della propria identità, a questa piena maturazione, a questo pieno splendore nell’umano e si trova a percorrere le due strade contemporaneamente: da un lato la via dell’imparare a mollare e ad arrendersi, dall’altro, nello stesso tempo, la strada dell’imparare a pronunciare il proprio nome senza più avere paura.
Ancora una parte del suo viaggio umano la deve fare, deve espirare; ha gettato le basi ed è sorta una quiete rispetto alla propria manifestazione.
Secondo me, gran parte di quelle persone che si affacciano alla via interiore hanno compiuto un lungo tratto di strada sulla via della propria manifestazione come individui, perché il poter dire: “Ma che mi importa?” e cominciare ad abbandonare, è un lusso che si può permettere chi già ha maturato una intima espressione di sé.
Chi non ha sperimentato compiutamente, ancora brama, ha desiderio, rincorre quella espressione piena. Che cosa porta un uomo a cominciare ad espirare?
G: Il dolore.
[1] R: Roberto, G: Giulia
[2] Nella prima edizione il libro è uscito con questo titolo.
[3] Con il termine mente si intende la capacità cognitiva dell’uomo ma anche, più estesamente, il suo corpo mentale; si intende anche l’ego, o io, o sé inferiore, o identità. La mente/identità è la risultante della relazione tra esperienza fisica, emotiva, cognitiva e viene concepita come espressione, veicolo della coscienza: ciò che sorge nella coscienza trova espressione nello spazio-tempo attraverso il veicolo dell’identità/mente. In alcuni passaggi del libro il termine mente diventa più estensivo: si intende con esso tutto ciò che è duale, non unitario; tutto ciò che viene vissuto ed interpretato come divenire che ottunde l’esperienza dell’essere.
[4] Più avanti descriveremo la funzione della coscienza e la sua relazione con la mente/ego/identità.
[5] Qui non entriamo nel merito di che cosa spinga la mente a compiere questo processo; è evidente, ai nostri occhi, che su qualunque piano della manifestazione ci si collochi, esistono dei processi che obbediscono a delle logiche intrinseche alla manifestazione stessa, esistono delle leggi insomma, un programma secondo cui tutto si svolge. Qui non interessa l’analisi del come ciò avvenga, ci rivolgiamo semmai, per comprendere, all’esperienza della natura intima della realtà sperimentata attraverso l’atto contemplativo.
La manifestazione della propria umanità
Nell’inverno del 2009-2010 abbiamo fatto un percorso con un gruppo di artisti ed educatori con lo scopo di gettare le basi di una pratica educativa che integrasse tutti gli elementi costitutivi dell’essere umano: fisico, emotivo, cognitivo, spirituale. In questa pagina trovi una successione di undici video con i passaggi più significativi dei primi due incontri.
Conoscenza di sé, meditazione, contemplazione: prefazione
Questo libro è stato pensato come una possibilità di interrogarsi, come un generatore di dubbi, come un piccolo grimaldello utile forse per scardinare, forse per costruire.
Quando ho proposto a Giulia queste sedute, la cui trascrizione costituisce il libro, avevo in mente che poteva essere utile a lei, alle persone che capitano qui e forse a qualcun altro, sparso chissà dove.
Utile a fare cosa? A creare una comprensione più vasta della realtà individuale e della vita, della via interiore, del cosiddetto cammino spirituale. Più vasta non significa migliore, significa semplicemente da punti di vista forse ancora non sufficientemente esplorati.
Nella primavera del 2008 qui, nel nostro eremo tra le colline, ci siamo incontrati, Giulia e io, ad un ritmo settimanale in sedute di un’ora circa; all’inizio avevo gli argomenti in testa e quindi, di volta in volta, trattavamo l’argomento che mi sembrava necessario; più avanti ho definito un percorso. Le singole sedute non avevano progetto, per non vincolarci.
In ogni seduta si intrecciavano elementi cognitivi ed altri meditativi; dall’argomentare si passava naturalmente ad una condizione di meditazione guidata, che lasciava il posto ad una pausa, poi ancora all’argomentazione e alla meditazione.
Per esprimere questi concetti ho scelto la forma della conversazione piuttosto che l’esposizione sistematica per una ragione molto semplice: se avessi puntato al “trattato” non lo avrei mai scritto perché mi avrebbe richiesto uno sistematicità che non ho. Queste conversazioni sono invece vita che accade e portano con sé quella freschezza e quel limite delle cose che accadono senza essere appesantite dalla mediazione mentale. Inoltre la presenza di una interlocutrice ha reso le sedute imprevedibili, come sempre lo è la vita.
La mancanza di completezza nella trattazione non mi preoccupa: un libro è sempre un piccolo strumento limitato che indica una direzione. Sta al lettore, se è interessato al punto di vista proposto, cercare il modo per approfondire.
In sede di trascrizione ho cambiato qualcosa della forma, niente della sostanza; sono rimaste diverse ripetizioni a mio parere necessarie perché nel lettore i concetti si sedimentino.
L’indice dei capitoli riflette la sequenza temporale delle sedute: i primi dieci trattano della mente e vanno considerati un corpo unico; il capitolo undici tratta dell’amore; dal dodicesimo alla fine si entra nello specifico della via contemplativa.
I concetti e le visioni trattate esprimono la sostanza di una piccola via alla libertà interiore che abbiamo chiamato “Il Sentiero contemplativo”.
Il Sentiero è un piccolo alberello le cui radici affondano nello zen; il suo tronco si è costituito nella via della Conoscenza, così come trasmessa dal suo maestro, Soggetto; i suoi rami, con i piccoli germogli, sono attraversati dal vento della vita che ora spira in una direzione, ora in un’altra, indifferente; sono ciò che abbiamo imparato dal nostro piccolo quotidiano.
Ci siamo disposti a tutto ciò che si è presentato sul nostro cammino: quello che proponiamo è il frutto di questa fecondazione.
Consegniamo queste parole al lettore senza pretesa alcuna; se sarà incuriosito, se vorrà capire meglio, potrà trovarci qui, tra le colline.
Equinozio d’autunno 2008
Nota alla seconda edizione
Il testo è stato completamente rivisto cercando di correggere la quantità innumerevole di errori di forma; la sostanza, rispetto alla prima edizione, è rimasta invariata.
Aprile 2011
Conoscenza di sé, meditazione, contemplazione: al lettore
Il libro è rivolto a coloro che hanno già compiuto dei passi nella via del conoscere se stessi; non fornisce le basi ma presuppone che il lettore abbia già una discreta capacità di osservarsi, una buona consapevolezza dei meccanismi che lo condizionano, una conoscenza almeno elementare delle problematiche di una via spirituale.
E’ quindi un libro rivolto a coloro che sono già nel cammino, non a coloro che iniziano; presuppone anche che il lettore abbia una visione di sé sufficientemente stabile: se il contatto con sé, con l’altro, con la realtà, è avvertito come precario e instabile, se il nucleo dell’identità non è vissuto come sufficientemente strutturato e su cui appoggiare nonostante la crisi, allora questo libro è da evitare con cura.
Il libro è rivolto a tutti coloro che cercano una libertà interiore dal dolore, dal condizionamento, dall’insoddisfazione; è rivolto a chi attraversa anche una profonda crisi esistenziale e sente vacillare le basi del proprio essere, ma avverte in sé la capacità e le condizioni per superarla perché, per quanto sia in crisi una visione di sé e del mondo, comunque quella visione esiste insieme ad una interpretazione di sé non turbata da meccanismi insistenti e destabilizzanti.
Nello scrivere questa avvertenza la nostra preoccupazione è di mettere in guardia coloro che debbono ricercare nella direzione di una edificazione di sé, non nel superamento di ogni stato di identità, come qui viene proposto.
Chi ha la necessità prioritaria di edificarsi come individuo deve ricercare altrove, su cammini più adatti alla propria esigenza.