La stagione del mito e quella della coscienza

Si insegnano i fondamentali etici e morali ai bambini attraverso le fiabe.
Si insegnano le stesse cose e la via incontro a se stessi agli adulti, attraverso i miti.
Entrambi gli approcci vengono generati all’interno degli archetipi transitori, grazie alle figure, ai ruoli, ai processi di cui essi sono portatori.
Non c’è archetipo transitorio che non tragga la propria origine da uno o più archetipi permanenti.
Mentre gli archetipi transitori nascono e tramontano nel tempo, gli archetipi permanenti sono stabili e non condizionati dal divenire.
L’archetipo permanente dell’amore così è sempre stato e così sempre sarà; mutano invece gli archetipi transitori che da quello dell’amore derivano a seconda delle latitudini, delle epoche, delle culture.
Le menti e le identità sono informate, plasmate e strutturate dagli archetipi transitori e quindi dalle fiabe e dai miti.
Le coscienze sono sotto il diretto influsso degli archetipi permanenti, primo tra tutti quello dell’amore, e da questi sono condotte e guidate nelle esperienze che realizzano nel tempo e nello spazio attraverso le identità che da esse sono generate.
L’umano dominato dall’identificazione con i suoi processi, è raggiunto dalla fascinazione e dall’insegnamento delle fiabe e dei miti; l’umano che ha superato l’identificazione inconsapevole, sente consapevolmente operare su di sé in maniera diretta ed inequivocabile l’influsso e l’azione degli archetipi permanenti.
Questo umano non impara più attraverso le fiabe e i miti, ma impara in virtù della sua esposizione alla sorgente.

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irrealta

Quando finisce la stagione dell’apparire e c’è solo la vita della coscienza

Che cos’è l’apparire? L’identificazione con la rappresentazione della propria vita, del proprio esserci.
E’ evidente che tutto ciò che consideriamo il nostro esserci, fare, provare, pensare, sentire non è altro che rappresentazione, puro ologramma che assume consistenza per due ragioni:
– perché la coscienza ha necessità di creare situazioni dalle quali estrarre dati di comprensione;
– perché la nostra identificazione con le scene le rende reali.
Pura consapevolezza della irreale consistenza del reale, eppure pura disponibilità a viverne i processi esistenziali che porta perché, se accade, se è stata generata la scena, significa che essa ha una sua necessità che va assecondata.
Risaltano con evidenza le scene che marcano dei sentire incompleti, approssimativi, che richiedono approfondimento.
Si sta sospesi tra l’inconsistenza del vivere e la sua ineluttabilità derivata dalla necessità di condurre a compimento ciò che ancora nel sentire è incompiuto.
E’ finito l’interesse per sé e l’identificazione con i propri vissuti, ma non è finito il vivere che perdura nella neutralità: accada ciò che è necessario, asseconderemo il processo.
Ciò che accade non è nostro, è ciò che accade e plasma un sentire che, anch’esso, non è nostro, è solo un sentire.
Tutti i processi accadono e non riguardano più un soggetto, non riguardano nessuno.

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Mancuso e Veronesi su Dio e il male: i limiti di un’analisi

Le fonti: l’ultimo libro di Umberto Veronesi “Il mestiere di uomo, Einaudi”; Vito Mancuso, Repubblica 18.11.2014.
Dice Veronesi: “Allo stesso modo di Auschwitz, per me il cancro è diventato la prova della non esistenza di Dio”.
Afferma chiudendo il suo articolo Mancuso: “La prospettiva più plausibile con cui rispondere alla domanda sull’origine del male è la medesima che sa rispondere all’origine del bene, cioè quella che rimanda all’impasto originario di logos + caos che costituisce il mondo nella sua concreta effettualità e che impone un modo nuovo di pensare Dio.”
Dal ragionare di Veronesi è evidente che la sua esperienza della fede è stata vissuta attraverso la ragione: adesione dunque ad un sistema di valori che è crollata non appena ha aperto gli occhi sulla natura complessa della realtà e si è impattata con la dimensione della distruttività, della malattia, del male inteso secondo il pensiero comune.
Veronesi vede i bambini invasi da cellule cancerogene e afferma: “Dov’è Dio?”. Non trovando una risposta nella mente propria e in quella degli altri, arriva alla conclusione che Dio non c’è perché se ci fosse non potrebbe ammettere un simile assurdo.
Nella sua vita di chirurgo e ricercatore oncologico ha sempre cercato l’origine del cancro nella dimensione biologica dell’individuo e in quella direzione ha speso le sue energie e la sua dedizione: non so se Veronesi ha mai posto in dubbio che il cancro non è solo fenomeno distruttivo che assale il corpo fisico umano, ma è processo che ha anche altra natura ed altra genesi; non lo so, non conosco il suo pensiero , prendo atto di ciò che afferma.
Prendo atto anche che sia Veronesi che Mancuso considerano il male una sciagura: Mancuso afferma che la sua origine va ricercata nelle forze del caos cosmico.
Entrambi sembrano essere convinti che se ci fosse giustizia, non ci sarebbe male.
Credo che possano affermare tutto quello che affermano con così tanta decisione, perché forse mai hanno provato a guardare al cammino umano da un’altro punto vista che superi le categorie filosofiche a cui entrambi aderiscono.
Il limite che trovo nelle loro analisi, nel loro indagare la realtà, è determinato dalla loro indiscussa adesione al modello duale: esiste il bene ed esiste il male; esiste la giustizia ed esiste l’ingiustizia.
Dentro questa morsa cercano le risposte, ma temo che faranno fatica a trovarle.
Non ho la pretesa di insegnare loro alcunché e quindi continuerò esponendo semplicemente il mio punto di vista conoscendone la provvisorietà e la relatività.
Ho avuto, nel corso della mia attività, la possibilità di accompagnare malati di tumore e genitori che avevano perso figli giovani.
Ho visto il dolore, il cammino attraverso esso. Ho visto la protesta, la rabbia nei confronti della vita e di Dio. Ho visto la difficoltà, la resistenza ad adottare un nuovo punto di vista sul vissuto. Infine ho visto il risorgere, o forse il sorgere per la prima volta, della fiducia, dell’esperienza dell’abbandono, l’affiorare di una trasformazione profonda e radicale nel pensare, nel sentire, nel vivere.
Ho visto radicali “conversioni” fiorire da quello che altri chiamano male e sono giunto alla conclusione che il cosiddetto male è un processo esistenziale che rivolta le vite di coloro che con esso si impattano.
Quell’essere rivoltati a volte conduce nel tunnel della rabbia, della frustrazione e del non senso e lì si ferma; altre volte passa attraverso quelle fasi e germoglia in una nuova vita, in uno sguardo esistenziale radicalmente altro. Da cosa dipende questa diversa conclusione del processo della malattia o del lutto? Dagli strumenti di analisi, di lettura, di interpretazione e dalle comprensioni acquisite dalla persona nel corso dell’attraversamento del processo.
Possiamo dire che la malattia è fenomeno biologico; possiamo affermare che Auschwitz è il frutto della distruttività umana e dell’assenza di Dio, ma così facendo non abbiamo spiegato niente, abbiamo solo osservato le manifestazioni e vi abbiamo posto sopra un’etichetta.
Cerchiamo l’origine del cancro nella sfera del biologico quando dovremmo cercarla in quella dei processi esistenziali; non solo nei conflitti relativi alla sfera psichica, ma in quella dei veri e propri processi di fondo dell’esistenza personale.
Cerchiamo una ragione ad Auschwitz nel pensiero, nell’emozione, nella intenzione umana, nella sua natura che a noi appare irrimediabilmente corrotta e non comprendiamo che quella malvagità origina dall’ignoranza di sé e della vita, dalla non comprensione, da una “cecità esistenziale” che è passaggio comune, ma non definitivo, di ogni essere umano.
Parliamo della vita e della morte con la stessa perizia con cui un cieco che tocca la gamba di un elefante parla di esso.
Concludendo, penso che non troveremo nessuna risposta fino a quando la nostra analisi della vita non imparerà ad includere la dimensione esistenziale, identificando in essa la sorgente della manifestazione cognitiva, emotiva, fisica.
Il nostro limite di analisi deriva dal paradigma che utilizziamo per interpretare noi, le nostre vite, l’accadere personale e collettivo: corpo-emozione-pensiero-eventuale-anima (che non si sa bene in che modo sia relativa alle altre componenti).
Prima o poi dovremo compiere un balzo e cominciare a considerare che non esiste lettura plausibile dell’esistenza se non si integra la componente coscienza, vale a dire la sorgente dei processi esistenziali, delle dinamiche cognitive, delle emozioni e delle sensazioni, delle azioni.
Siamo come pescatori che stanno sulla riva del lago, vogliono pescare, protestano perché non pescano niente senza interrogarsi sulla natura della loro esca.

Immagine da http://is.gd/7hTpw0


Non sappiamo niente dell’altro

Ci piace parlare, giudicare; siamo dei gradassi: “Tu sei così, non sei cosà!” Farfuglionate.
La realtà, molto semplice, è che siamo chiusi nel piccolo stazzo della nostra egoità e da quello osserviamo il mondo e abbiamo la pretesa di comprenderlo, di saperlo.
La comprensione della realtà è inversamente proporzionale al tasso di egocentrismo che ci condiziona: più siamo liberi da noi, più vediamo e viviamo il reale.
Più siamo ego-centrati, più vediamo solo il nostro ombelico e abbiamo la pretesa di sapere.
Più conosciamo, più chiniamo la testa consapevoli della nostra ignoranza.
Più è limitato il nostro sentire, più la nostra pretesa si estende sul nostro partner, sui nostri figli, sui nostri dipendenti, sui nostri datori di lavoro, sui nostri vicini di casa.
Più il sentire si amplia, più taciamo.
Il giudizio che nasce dall’ignoranza ha una sua ragione d’essere: ci definisce. Parlando dell’altro, definendolo, definiamo noi stessi.
Quando il sentire matura non abbiamo più alcuna necessità di definirci; è un bisogno, una pratica che in noi muore: non dovendo definire noi, non dobbiamo definire nessun altro, non né abbiamo l’esigenza.
Allora sorge l’esperienza della compassione: per noi, per l’altro, per tutto.

Immagine di Michelangelo Pistoletto, 1980, da http://www.letteraturatattile.it/?p=1257


Abbiamo perso il silenzio, o non lo abbiamo ancora scoperto?

Se potete, leggete questo bell’articolo apparso su “comune info”.
La prima parte parla della situazione, del silenzio perduto, della fretta, del scivolare sulla vita.
La seconda, della necessità di insegnare ai nostri figli a vivere sottovoce.
Vorrei fare delle considerazioni sulla prima parte: abbiamo perso il silenzio, o non lo abbiamo ancora scoperto?
La mia tesi, molto semplice, è che l’umano vive ciò che ha compreso; ciò che non vive non è perché non lo vuole vivere, ma perché non ha compreso che esiste come possibilità per sé; lo vede magari vivere dagli altri, ma non lo sente adatto a sé, praticabile per sé: nei fatti, non lo considera perché non lo comprende.
Il bel brano di Orso parla di un’altra cultura, di altre priorità esistenziali, forse di un altro sentire: il nostro mondo ha ciò che crea e questo sorge dal suo sentire, da ciò che ha compreso attraverso le esperienze e la macerazione che queste producono.
Sorge anche dalla sua cultura? Certamente, ma questa non è che il riflesso del compreso e del non compreso dei singoli e dell’insieme.
Cosa dunque possiamo fare? Vivere il compreso, testimoniarlo con grande discrezione, operare nel piccolo come nel grande perché elementi di autenticità vengano inseriti in un impianto culturale ed esistenziale caratterizzato dalla futilità.
Quello che l’autrice dice nella seconda parte dell’articolo è veramente importante, da lì si può partire sapendo che nessuno aderisce a ciò che non ha compreso, ma il proporre modelli, stimoli, pratiche, abitudini attiva processi profondi e facilita il percorso delle comprensioni in maturazione.
Se comprendiamo che ciò che l’umano vive non è il frutto della malafede  – la quale, anche quando è presente, è conseguenza, non origine – ma solo della non conoscenza, della non consapevolezza, della non comprensione, allora il nostro sguardo sul mondo diviene intriso di compassione e questa è un fattore determinante nel produrre il cambiamento dei sentire, prima e ultima sorgente di ogni cambiamento.

Immagine da: http://goo.gl/51KNUk


 

Contemplazione: la nostra umanità è una porta

Ore e giorni prima di un intensivo, osservatorio privilegiato dell’umano e delle sue reazioni.
Con gli occhi dell’umano, con lo stare delle contemplazione viene osservato ciò che nell’interiore sorge, ciò che nell’ambiente si manifesta senza che interiore ed esteriore vivano alcuna separazione.
1- La scomparsa di qualunque atteggiamento spirituale:
– è atteggiamento spirituale l’ammantarsi di speciale;
– il connettersi ad un archetipo fatto di atmosfere, gesti, stati: una sorta di rappresentazione rituale, di comprensione di sé dentro ad un paradigma.
C’è stato nel tempo, ora non se ne vede più traccia.
2- La consapevolezza che l’umano è la porta che mette consapevolmente in rapporto/relazione più mondi di sentire:
– coscienza ed umano vengono vissuti nella loro inscindibilità;
– umano non significa identità, significa la stanza al piano terra di un palazzo;
– totale inconsistenza della danza identitaria perché non sorretta da identificazione;
– nessuno stato particolare riconducibile alla sfera mistica;
– prevalenza della attitudine/disposizione giocosa;
– piena gratuità.
3- Lucida consapevolezza che non c’è un attore in scena, che l’intero gioco è affidato ad altro:
– assenza del protagonista e del sentirsi in causa come tale;
– assenza di scopo che non sia il servizio all’accadere;
– fiducia senza condizione che ciò che deve accadere accadrà.
L’umano è una stanza senza porta e senza finestra; il palazzo è fatto di stanze senza porte e senza finestre:
l’aria fresca dell’alba le attraversa e porta con sé il canto degli usignoli.

Immagine da: http://goo.gl/ZYaCZT


Il discernimento tra identità e coscienza

Dice Piero: “Comprendendo il gioco della mente attraverso l’identificazione e non aderendo più a ciò che racconta, come si comprende il sentire “reale” dettato dalla Coscienza rispetto al dire fasullo della mente?”
Quando la coscienza attiva un’esperienza in un ambito in cui ha delle comprensioni già conseguite, il processo è lineare: l’identità ha un certo margine di scelta, può decidere se realizzare quella intenzione nel modo A o nel modo B ma comunque, entrambi i modi, condurranno al risultato che alla coscienza è chiaro.
In questo caso nell’identità/mente non ci sono dubbi particolari ed essa non genera conflitti e problemi di discernimento.
Quando la coscienza si muove invece in ambiti in cui non è sorretta da comprensioni acquisite, il suo procedere è per tentativi: di esperienza in esperienza estrae i dati che le servono fino a quando non ha compreso ciò che le è necessario.
In questo caso, non essendo chiara l’intenzione della coscienza, l’identità/mente riceve una spinta non univoca, non chiara e quindi al suo interno si possono generare conflitti, incertezze, resistenze, opposizioni, approssimazioni.
La situazione durerà fino a quando, attraverso le esperienze, la coscienza non avrà ottenuto i dati che le necessitano.
Quando una mente è preda delle illusioni, delle fantasie, delle proiezioni, dei bisogni fittizi alle spalle di essa c’è sempre una coscienza che sta vivendo un processo di acquisizione di dati, di strutturazione di una certa comprensione.
La mente non si aggroviglia  a caso, lo fa quando non è sorretta da un sentire definito.
Quando la coscienza ha compreso la mente è sufficientemente chiara: quando la mente è chiara indica una coscienza che procede sui binari del compreso.

Immagine da: http://goo.gl/guuXoE


Sull’origine del dolore

Discutevo ieri in un altro post sull’originale idea secondo cui la realtà, personale o collettiva, sarebbe spesso, a nostro giudizio, sbagliata.
Preciso che qui dolore e sofferenza sono sinonimi.
Individuerei l’origine del soffrire in due gangli:
– il non compreso nella coscienza;
– l’interpretazione della mente/identità.
Il non compreso nella coscienza genera determinate scene di apprendimento/verifica: là dove alla coscienza mancano dati ed informazioni, quello è soggetto ad indagine, a sperimentazione, a ripetuti tentativi di messa a fuoco.
Siccome durante i vari cicli incarnativi alla coscienza mancano sempre dati, perché se li avesse tutti – se fosse completa nelle sue comprensioni – non darebbe più luogo ad alcuna incarnazione, ecco che l’esistenza dell’umano conosce sempre e comunque qualche forma di sofferenza.
Un determinato sentire, di una data ampiezza, non genera solo scene congruenti, genera anche una immagine dell’attuatore di quelle scene: ovvero i tre corpi (mentale, astrale/emotivo e fisico) che realizzano la scena la interpretano anche.
Ad esempio, durante la giornata mi può accadere un determinato fatto ed io, lo scrivente, posso interpretarmi come vittima di qualcuno, o di qualcosa.
La vittima è colei che subisce un’ingiustizia e questa presunta condizione genera un ampio spettro di emozioni e pensieri conseguenti.
Da una non comprensione della coscienza deriva una certa scena la quale viene interpretata dall’identità in un certo modo: se la coscienza avesse un’altra comprensione di un dato fatto, genererebbe un’altra scena e questa sarebbe interpretata dalla mente in un altro modo.
C’è dunque l’ampiezza del sentire all’origine di tutto il processo.
La capacità di interpretazione propria dell’identità dipende dal modello interpretativo che questa adopera e questo, a sua volta, dipende dall’ampiezza del sentire: il classico serpente che si morde la coda.
Naturalmente la situazione non è bloccata, in qualunque punto del cerchio si intervenga la rotazione può essere cambiata:
– le esperienze della vita modificano il sentire;
– ciò che viene conosciuto, integrato come modello interpretativo, modifica la lettura/interpretazione dei fatti e quindi cambia sia l’insorgere della vittima, o d’altro, che il materiale psichico che solleva.
Conclusione: l’essere umano è uno e pienamente integrato, il conoscerne le dinamiche interne ci aiuterà a fluire con più leggerezza nella vita e con un minore tasso di dolore.
Nessuna vita è condannata alla sofferenza perché in ogni vita le esperienze modificano sia il sentire che l’interpretazione di esso.

Immagine di Gaia Lionello da http://goo.gl/mAS36f