Coloro che se ne vanno di loro volontà

Un nostra amica, scossa dal suicidio di una giovane donna, Silvia, mi chiede una parola. Che cosa l’ha portata alla determinazione di appendersi ad un albero con il suo foulard?
Non lo sapremo mai: anche quelli che la conoscevano, poco sapevano di lei.
Tutti, poco sappiamo del nostro prossimo. Tutti, senza eccezioni.
Perché? Perché ciò che vediamo e cogliamo non è ciò che è, ma ciò che per noi è necessario che sia.
Dunque dell’altro non cogliamo la sua realtà, ma il suo essere comparsa sul set del nostro film.
Se non si guarda la realtà in quest’ottica, si coltiva la pretesa di capire, di sapere, magari di essere responsabili di qualcosa.
Viviamo, lavoriamo, condividiamo la vita con delle persone e, alla fine, magari attraverso un gesto inaspettato e tragico come il loro suicidio, ci accorgiamo che di esse non conoscevamo niente.
La lezione? Ridimensionarci nella nostra pretesa assurda di conoscere l’altro da noi.
Silvia, ha posto fine alla propria vita in anticipo? Si, secondo le menti; no secondo la coscienza.
Nel disegno del proprio sentire, Silvia ha finito il proprio calendario nell’ultimo giorno previsto, come tutti.
A 41 anni è morta suicida; a 41 anni sarebbe comunque morta di altro.
Non è questo, evidentemente il nodo problematico: di fronte a qualcosa che la faceva soffrire – e se la faceva soffrire è perché quel qualcosa non l’aveva compreso – invece di affrontare la situazione, di continuare a vivere le esperienze e a lottare dentro di esse, si è arresa.
Evidentemente per lei la misura era piena; evidentemente doveva anche muovere la causa del morire suicida per apprendere dagli effetti di quella causa mossa, per comprendere che di fronte alle sfide del non compreso bisogna, da un lato saper lottare, dall’altro saper accettare il limite, il dolore, l’assurdità delle situazioni, la propria o altrui inadeguatezza.
Non sappiamo che cosa Silvia andrà ad imparare, sappiamo che la vita è apprendimento e bisogna trovare un modo di starci dentro senza farsi a pezzi, senza portare le situazioni al limite della sopportabilità del dolore.
Alla nostra amica che ha posto la questione: guardando Silvia, comprendi l’importanza del nostro cammino che cerca di offrire la prospettiva di un senso al vivere e al soffrire?
Quella vita così giovane e generosa che tu vedi scomparire al tuo sguardo e alla tua compagnia, non scompare invano: in tutti voi che l’avete conosciuta, in tutti noi che ne trattiamo, insinua un tarlo, una domanda, un dubbio, un invito ad andare più a fondo nella vita, nella conoscenza, nella ricerca di senso.
Non scompare invano per sé, perché la radice di quel gesto, e il gesto stesso produrranno processi e insegnamenti nella vita futura della sua coscienza.
Accogli, cara amica, il tuo dolore e il tuo sgomento ma non farti travolgere: impara da ciò che accade, senza indulgere su di te e sul tuo soffrire.

Immagine da http://goo.gl/zQew1R


Alcune considerazioni sul male e sulla malattia

Quando ho tempo e risorse, leggo ciò che scrivono Vito Mancuso ed Enzo Bianchi. Appartengono entrambi ad un mondo culturale molto lontano dal mio, ma li sento vicini nel sentire o, perlomeno, così mi pare che siano.
Ho seguito la discussione tra Mancuso e Veronesi sulla malattia e sul male (l’ultima, poco più di una settimana fa, ospiti di Fazio) e, in sincerità, mi è sembrato il dialogo di due ciechi che parlano della luce. Mi duole dire questo, lo faccio senza spirito polemico, senza pretesa di essere colui che ha visto la risposta; osservo con umiltà e con un dolore dentro questo girare attorno a questioni mal poste e come tali prive di risposta.
Da tempo volevo scrivere qualcosa sul male, su quello che gli umani chiamano male perché, dal mio punto di vista, esso non è altro che una lettura della realtà, una interpretazione: non un fatto, né una forza.
Semmai è un processo: anche la vita è un processo, non le mettiamo sopra un’etichetta univoca che la giudica, la definisce e non lo farei nemmeno nel caso del processo-male.
Il male è l’assenza del bene?
E cos’è il bene? Lo stato di salute fisica e mentale? L’unità dell’essere? La pace interiore e sociale?
Se desidero la pace, tutto ciò che non è pace rappresenta un problema.
Se sono consapevole che la pace è il frutto di un processo che dal conflitto conduce alla pace, allora mi si apre un mondo.
In questa ottica, il conflitto diviene una delle componenti del processo senza la quale non è perseguibile, né realizzabile la condizione di pace.
La pace assoluta contiene in sé tutti gli stati di pace relativi, limitati. La pace assoluta matura attraverso la pace relativa, l’assenza di pace.
Bene, male sono solo definizioni di condizioni che, in sé, sono processi, divenire, stati del sentire dove il più ampio contiene il più limitato.
Più a fondo, non esiste il processo del bene, né esiste il processo del male, esiste il processo del vivere la vita, del prendere forma e del dispiegarsi di questa ed, infine, del suo venire riassorbita.
Esistono dunque i fatti che vengono giudicati a seconda del paradigma di ognuno: il problema è lì, nel paradigma che considera la mancanza, il limite come male piuttosto che come condizione-dell’esistente-attraverso-la-quale-si manifesta-il-compimento.
Il compiuto contiene il limitato, il particolare, il frammento; l’assoluto contiene il relativo; la libertà contiene i mille gradi della non libertà.
Non esistono libertà e non libertà, esiste solo il processo della libertà: ogni non libertà prepara un grado superiore di libertà, anch’esso non libertà, fino a germogliare nella libertà assoluta che contiene in sé, che è costituita, da tutti i gradi di libertà possibili.
Se io sono nella condizione di manifestare un grado di libertà, di discernimento, di altruismo limitati, è questa una mia colpa? O non è invece lo stato dell’arte, ciò che mi svela, ciò che parla di me e mi indica la strada?
Il limite è il mio male, o la più grande delle mie possibilità?
Il limite, non denunciando una colpa, ma uno stato del sentire, cos’altro è se non il mio specchio più utile, più efficace, più trasparente, più trasformante?
Nel pensiero corrente il male viene associato alla malattia: la malattia è male. Giudicata, etichettata, archiviata, chiusa la discussione. Senza aver spiegato niente e aver capito e compreso niente. Ma pare su questo sia duro discutere, le resistenze interiori sono forti, i bastioni culturali a difesa, alti.
Sarebbe così semplice: come i fatti e i pensieri parlano di me, così pure i processi dei miei corpi parlano di me.
Scusate, ma di chi dovrebbero parlare? Pare non sia accettabile, pare sia più accettato parlare di origine ambientale, o sociale, o casuale della malattia. O di uno squilibrio non meglio definito nel sistema, magari di origine cromosomica. Si la chiave è lì, c’è un errore nel dna e così abbiamo risposto a tutto, quando non sappiamo rispondere a niente, tiriamo fuori la parola magica.
Ma non voglio parlare di ciò che non mi compete e su cui non ho competenze, mi sembra però evidente che il dna è anch’esso una risultante, il frutto di un processo.
Quando un programmatore, attraverso il linguaggio html, o altro, articola un programma, lo fa partendo da un’intenzione e da uno sviluppo di essa: quell’insieme di codici diviene poi qualcosa di fruibile ai sensi fisici umani passando attraverso una serie di mediatori. Se c’è qualcosa che ci appare come un errore nel codice, o l’ha fatto il programmatore contro la propria intenzione, oppure non è un errore, è un fatto, qualcosa di peculiare a quel programma.
La malattia è un errore? E’ un male? E’ una colpa?
La malattia è un fatto, un simbolo che narra la realtà. Quale realtà? La realtà esistenziale della persona.
La malattia non è un fatto esterno che si insinua nel nostro interno: parla di noi, dei nostri squilibri esistenziali, identitari, fisici, relazionali.
Noi e la malattia non siamo due, in sé non esiste alcuna malattia, se Roberto ha la febbre quella è la condizione esistenziale di Roberto quel giorno, quello è il Roberto di quel giorno. Quella febbre racconta qualcosa, svela qualcos’altro: è uno spot che illumina un particolare con l’intento di ricondurre a qualcosa che particolare non è, che ha caratteristiche esistenziali.
La stato che definiamo comunemente di malattia, sia fisica che psichica, è il principale indicatore, il più eclatante nel denunciare che in noi qualcosa non va: l’errore grossolano che commettiamo, è di considerare un organo, ammalato, un comportamento, sbagliato, senza cogliere il valore del sintomo che ci dice: “Sono il dito che indica la luna, il piccolo fatto che denuncia il processo!”.
Non abbiamo nessun paradigma maturo per leggere la malattia come simbolo esistenziale, ma molto è stato già fatto in alcune visioni alternative, ottusamente negate dai custodi ammuffiti dell’ortodossia.
Non abbiamo ancora gli strumenti, l’apertura mentale, l’umiltà, le comprensioni che che ci illuminino sul “dono” della malattia e del male.
Dono inteso come possibilità evolutiva, come chance di cambiamento presente e attiva, come simbolo ineludibile, come occasione che conduce a frutto.
Siamo lontani da questo, molto.
Per ora posso terminare qui; non volevo altro che avviare una riflessione; in me la visone è chiara, ma voglio che gli elementi di una evidenza si costituiscano nell’interiore di ciascuno come frutto di un processo sviluppato assieme. Se mi sarà possibile tornerò su questi argomenti in futuro.
Ho iniziato a scrivere questo post mosso dallo scoramento prodotto in me dal brano di Enzo Bianchi che sotto, in corsivo, riporto; in particolare dalla frase: “Sì, Gesù è sempre all’opera verso i nostri corpi e le nostre vite e sempre discerne, anche dove c’è soltanto la febbre, che l’essere umano si ammala per morire, che qualunque malattia è una contraddizione alla vita piena voluta dal Signore per ciascuno di noi.”
Parole che mi procurano dolore nel loro essere così lontane dalla comprensione di un’evidenza.

Questa azione con cui Gesù libera la donna dalla febbre (Mc 1,29-39) può sembrare poca cosa (“un miracolo sprecato”, ha scritto un esegeta!), ma la febbre è il segno più comune che ci mostra la nostra fragilità e ci preannuncia la morte di cui ogni malattia è indizio. Sì, Gesù è sempre all’opera verso i nostri corpi e le nostre vite e sempre discerne, anche dove c’è soltanto la febbre, che l’essere umano si ammala per morire, che qualunque malattia è una contraddizione alla vita piena voluta dal Signore per ciascuno di noi. Non fermiamoci dunque alla cronaca dell’azione di Gesù, ma comprendiamo come egli, il Veniente con il suo Regno, è in lotta contro il male e contro la morte il cui re è il demonio, colui che vuole la morte e non la vita. Gesù appare così come colui che fa rialzare, fa risuscitare – verbo egheíro, usato per la resurrezione della figlia di Giairo (Mc 5,41) e per la stessa resurrezione di Gesù (Mc 14,28; 16,6) – ogni uomo, ogni donna dalla situazione di male in cui giace. Egli vuole far entrare tutti nel regno di Dio, dove “non ci sarà più la morte, né il lutto, né il lamento, né il dolore, quando Dio asciugherà le lacrime dai nostri occhi” (cf. Ap 21,4; Is 25,8)
Brano tratto da: http://www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/8942-come-gesu-cura-e-guarisce


andarsene

La morte di un figlio

La morte di un figlio è la morte di un mondo, del mondo che quei genitori hanno conosciuto dal momento che è nato.
Le febbri e le paure; i primi passi e le prime parole; il primo natale. Il momento di addormentarsi, le parole di una storia, il rimbocco delle coperte, il chiudere la porta senza far rumore.
Una moltitudine di momenti è inscritta nell’interiore dei genitori e ciò che si è impresso nel divenire del tempo, ora muore in un attimo.
Un genitore non è mai pronto per la morte di un figlio. Mai.
Perché? Perché il perdere è un processo, ha bisogno di tempo, di un lento lavoro di trasformazione e di comprensione che avviene nel sentire.
Quando un figlio se ne va nell’arco di poche ore, il genitore precipita in un abisso; quando il processo dell’andare via è progressivo e lento, nell’intimo del genitore accadono molte cose, lo sguardo pian piano si allarga, quella perdita annunciata può essere contestualizzata, assorbita non credo, è difficile.
Il risultato finale sarà sempre lacerante, ma di una natura diversa.
Ho usato, non a caso, l’espressione “quando un figlio se ne va”.
Un figlio viene, un figlio va: siamo coloro che pensano di avergli dato la vita, e certamente è così perché nostri erano quell’ovulo e quello spermatozoo, ma quel figlio non è mai stato nostro, siamo stati gli strumenti di un progetto esistenziale, il suo, che in noi ha trovato le condizioni ambientali ed esistenziali per poter accadere e manifestarsi.
Un figlio è della vita.
Un figlio è una coscienza che si incarna in un corpo, in un ambiente, in un tempo.
Un figlio non è mai dei genitori, è un processo esistenziale che procede a fianco dei loro processi esistenziali, perfettamente autonomo pur nella relazione profonda e nell’intreccio delle esistenze.
La piccola identità di un figlio che cresce non è autonoma, ma il progetto esistenziale lo è sempre e segue le propri logiche, il proprio tracciato esistenziale.
Quando un figlio se ne va obbedisce alle logiche di quel processo: non al caso obbedisce, non alla sfortuna, non alla malattia.
Un figlio non muore per caso, non per colpa di qualcuno.
La morte di un figlio non è un’ingiustizia, è il compimento di un processo di una coscienza che mai è stata nostra: ci ha accompagnato nei giorni e negli anni e, quando è stato il suo tempo, non un’ora prima, ha concluso il proprio ciclo.
Un figlio che muore non soffre, nessuno quando muore soffre né per il passaggio, né per la separazione: ciò che l’attende è molto più vasto di ciò che lascia, intriso di comprensione, di compassione, di un vivere e sperimentare nuovi.
Un genitore perde il proprio mondo conosciuto; non essendo mai pronto, precipita nell’abisso della mancanza, dell’amputazione, dell’ingiustizia.
Ci vorrà del tempo, la forza di reggere l’impatto, un lavoro su di sé teso a capire e a comprendere per non coltivare solo il rifiuto dell’apparente follia dell’esistenza.
Ci vorrà del tempo e il tentativo di accogliere il disegno dell’esistenza sul figlio andato e su di sé, che resta e che deve vivere questo dolore, questo passaggio, questo perdere una vita e non riuscire a trovarne un’altra.
Un’altra vita verrà e potrà essere piena di compassione e di comprensione, se quel genitore avrà aguzzato lo sguardo nella profondità del processo esistenziale che l’ha travolto, se non si stancherà di indagare il proprio sentire, se non si fermerà a risiedere nel proprio dolore.
Quando un figlio muore, quel figlio consegna ai genitori, attraverso un processo molto doloroso, una nuova vita fondata sulla conoscenza, sulla consapevolezza, sulla comprensione.

Immagine da http://goo.gl/vGb8Mr


 

Il principio di responsabilità nell’adulto-bambino

In questo articolo trovate l’epilogo della vicenda riguardante l’assenteismo di massa dei vigili urbani di Roma a capodanno.
Non voglio parlare delle manchevolezze nella coscienza dei membri di questo paese, sarebbe come infierire contro quel parente che ha un deficit mentale e pretendere che comprenda quel che non può.
Voglio invece considerare come un fatto che esistano adulti-bambini nella responsabilità: voglio considerare inoltre che questa può essere la caratteristica, purtroppo saliente, di una parte rilevante di un popolo.
Una coscienza che ha già sviluppato in sé le comprensioni necessarie al comportamento responsabile, non sceglie come teatro della propria rappresentazione questo paese, non per lavorarvi quel principio.
Ne consegue che, evidentemente, coloro che abitano qui, hanno bisogno di un tirocinio attorno all’esercizio della responsabilità: come avviene questo tirocinio?
Nel modo più doloroso: pagando il prezzo della propria irresponsabilità.
C’è un modo di procedere diverso, meno doloroso, più efficace?
Prendere atto che molti individui di un popolo hanno un problema serio con il principio di responsabilità e decidere che una sana pedagogia è quella che sa creare il giusto equilibrio tra educazione e sanzione.
Da tempo pensiamo solo a punire e, nei fatti, non puniamo nessuno; tra l’altro, se punisci qualcuno che non ha compreso quale sia il suo errore, quello rifarà esattamente ciò per cui l’hai punito.
Poco e niente abbiamo investito sul fronte dell’educazione: lo sviluppo di pedagogie e didattiche che in famiglia, a scuola, nella società in genere plasmino l’interiore, le comprensioni e i comportamenti.
Nel tempo, con gradualità, si dovrebbe cercare di convincere, di far crescere, di far emergere dall’intimo ciò che esiste in forma di embrione in ciascuno: è questa la funzione dell’educazione, funzione smarrita da tempo, soffocata dalla logica delle nozioni e delle quantità, a discapito della qualità della conoscenza, con la conoscenza e consapevolezza di sé al centro.


orientamento

L’orientamento sessuale, la coscienza, l’ignoranza

L’ignoranza citata nel titolo è riferita al pensiero e alla prassi di persone e organizzazioni come quelle citate in questo articolo; non è di loro che voglio occuparmi.
Da dove sorgono i vari orientamenti sessuali che le persone manifestano? Dalla conformazione della propria identità, da come essa si è strutturata nel tempo, dai condizionamenti o dalle frustrazioni che ha subito, dalle dinamiche relazionali con uno o l’altro dei genitori, dalle violenze eventualmente subite?
Non credo. Nella coscienza, nell’intimo del suo sviluppo si genera quella necessità evolutiva che poi si tradurrà in una vita, o in episodi di essa, sessualmente creativa.
Per poter comprendere questa dinamica della coscienza bisogna aver chiaro che essa genera una vita, un’esistenza, una identità perché ha la necessità di acquisire dati e comprensioni che solo attraverso la vita incarnata può realizzare e acquisire.
Una coscienza non è Dio, è un sentire limitato, relativo diremmo nel nostro linguaggio e conosce e comprende solo attraverso le esperienze.
Una coscienza non vive nel tempo, è oltre esso, ma nel tempo genera le sue rappresentazioni che noi, comunemente, chiamiamo identità, persone.
Una coscienza per strutturare il proprio sentire, per conoscere, divenire consapevole, comprendere sperimenta nel tempo, in quelle rappresentazioni che chiamiamo vite, il maschile, il femminile, il transgender e le molte relazioni tra questi orientamenti.
Una coscienza sperimenta molte sfumature della vita sessuale non perché l’identità che essa genera sia viziosa, ma perché attraverso quelle esperienze estrae i dati che le necessitano: anche quando i comportamenti della identità sono evidentemente eccessivi o distorti, essa trae da essi il necessario e nella relazione coscienza/identità, quando il conflitto e il disallineamento producono situazioni molto dolorose per l’identità, ancora la coscienza apprende e prova e ritenta di ottenere la conoscenza e la comprensione di ciò che le abbisogna.
L’orientamento sessuale è uno degli ambiti creativi dell’esperienza dell’umano, uno tra i tanti: potremmo osservare queste esperienze con gli occhi della coscienza che mai giudica e che non conosce morale, che non si pone il problema del legittimo, o del non legittimo e che è sospinta unicamente dal bisogno di imparare le molte coniugazioni del verbo amare.
Per concludere: credete che un bambino adottato da genitori dello stesso genere possa, alla luce delle considerazioni fatte, subire il condizionamento del loro orientamento sessuale?
O non ritenete invece che quel bambino vivrà semplicemente la vita che la sua coscienza gli traccerà, conducendolo là dove è importante che vada?
Quanto dolore ci risparmieremmo, e risparmieremmo al nostro prossimo, se potessimo illuminare le nostre menti con queste semplici visioni?

Immagine da http://goo.gl/jEMM3U