Un brano di Soggetto, maestro della via della Conoscenza.
La versione integrale.
La via della Conoscenza parla di stare in, di risiedere, che significa essere fissi in ciò che ogni essere porta in sé come radice profonda. Vivere è essere in relazione con ciò che vi circonda, scoprendone una profondità che va al di là della superficie su cui ancora vi attestate: è un mondo che esiste, ma che voi potete intravedere soltanto attraverso fugaci flash che vi fanno intuire che c’è altro che non è possibile trattenere, e far proprio, perché è irriducibile ad ogni pretesa.
disconnessione
Sentire, mente, emozioni
Dice Samuele in merito al post La gestione delle emozioni e dei pensieri: Quell’ancoraggio lo potremmo chiamare consapevolezza?
Certamente, consapevolezza di qualcosa di sperimentato. Non consapevolezza di qualcosa che si è capito, o a cui si aderisce per fede.
Più hai sperimentato, ti sei concesso di sperimentare quella dimensione fondante di te, più quell’esperienza si è impressa, è divenuta comprensione e come tale pietra d’angolo nella lettura di te e della tua vita.
Per questa ragione è necessario scendere nella profondità di un cammino spirituale finché esso non ci introduce nell’esperienza della radice del vivere: una volta sperimentata quella radice, siamo guidati da una fiducia autentica fondata sull’esperienza e la gestione dei flussi emotivi e cognitivi può usare appieno la disconnessione.
La gestione delle emozioni e dei pensieri
Sorgono nell’interiore stati e pensieri, a volte sollecitati da situazioni, altre volte per loro proprio moto.
Indipendentemente dalla ragione che ne determina il sorgere, la prima domanda da porsi è: di cosa mi parla questo stato?
Di cosa è simbolo, quale aspetto di me preme per essere osservato e compreso più profondamente?
Una volta affrontata questa domanda e avendo trovato una qualche risposta, se questa è stata incerta e non risolutiva, lo stato tornerà e noi potremo di nuovo affrontarlo: ora, quel che preme, è che non ci blocchiamo nell’indagine, nell’analisi, nel rimuginio, nell’allevare lo stato emotivo lasciandoci pervadere dai suoi umori.
Qui sorge un problema: la nostra identità, la percezione che abbiamo di noi, dice che quello stato è noi, ci costituisce e le rimane innaturale non coltivarlo, non alimentarlo.
Tra sentire e condizionamento
Dice Antonella: “La vera obbedienza non è verso gli altri ma verso la propria coscienza”.
Questa frase mi fa pensare: obbedisco sempre alla mia coscienza o a volte, rimanendo succube dell’identificazione, finisco per obbedire all’altro?
E’ poi quel senso di insoddisfazione che mi fa capire di aver obbedito all’altro..
Cosa è bene per me? In questa situazione, mentre l’altro dice e si manifesta in un certo modo, io mi ascolto?
Oppure opera in me quell’automatismo che mi porta ad essere stretto nella morsa accettazione/rifiuto, adeguatezza/inadeguatezza?
Sono consapevole di essere stretto in quella morsa? Perché se sono nella morsa e non sono consapevole di esservi, non posso disconnettere il condizionamento e se non lo disconnetto non può sorgere alcun ascolto.
Depressione e passaggi esistenziali
Dice Marco in riferimento al post di ieri sull’accidia: Non avevo mai pensato all’accidia come lutto della mente. Da sempre vivo momenti di svuotamento di senso ma faccio fatica a metterli in relazione con i processi di disidentificazione profondi di cui parli, dato che erano presenti prima che conoscessi la disconnessione e la disidentifcazione. Parliamo forse di due cose diverse?
La perdita di senso, il venire meno dell’interesse a vivere, l’appassire di quella forza propulsiva che sorge dall’identificazione con i processi ed il quotidiano, tutta quella fenomenologia che comunemente è definita condizione depressiva, o semplicemente depressione, di cosa parlano?
Gli stati della psiche e del corpo sono l’ultima manifestazione di un conflitto più interno che non trova soluzione; in gioco c’è, normalmente, il rapporto con noi stessi, con gli altri, con il lavoro: lì dovrebbe succedere qualcosa, dovrebbe cambiare un atteggiamento, un orientamento, una disposizione, una intenzione e invece non cambia.
La natura della trascendenza, l’esperienza della disconnessione, l’equivoco della meditazione
Chi trascende che cosa?
Io trascendo il mio limite? Lo vedo, ne sono consapevole e poi? Appoggio la consapevolezza su altro? Mi focalizzo sul respiro, sulle sensazioni, su un contenuto concettuale, sapienziale, spirituale?
Prendo atto che il limite esiste: basta così?
Oppure osservo quel limite e cerco di imparare da quello che mi porta, che mi induce a fare, ad essere?
Se osservo ed imparo, inizia il cammino del capire che conduce all’essere consapevole e sfocia nel comprendere.
Se osservo e basta, che cosa inizia? Una disconnessione. Ma la disconnessione se non è legata all’analisi dell’insegnamento che quel limite porta, è semplice rimozione: vivo una vita di pratica della meditazione, della contemplazione – entrambe incernierate sulla disconnessione – e in me cambia poco, pochissimo.
Se la disconnessione non è associata in modo indissolubile alla via del “conosci te stesso” è pura rimozione.
Se la meditazione è solo pratica dell’adesso non germoglia in altro, se non in modo residuale.
Se la meditazione cammina assieme all’insegnamento che sorge dalla pratica del limite, fiorisce in contemplazione.
La contemplazione esiste solo nel ventre dell’immanente: nell’adesso illuminato dalla conoscenza, dalla consapevolezza, dalla comprensione fiorisce la scomparsa del soggetto che conosce, che è consapevole, che comprende.
Ha un senso la pratica della meditazione? Si, se è integrata nel complesso processo del conoscere, essere consapevoli, comprendere.
Si, se è integrata in un paradigma, in una lettura della realtà personale e sociale.
Ha senso relativo quando è consumata come esperienza tra esperienze, disgiunta dal processo di conoscenza-consapevolezza-comprensione, praticata per rilassarsi, concentrarsi, divenire efficienti.
In altri termini, ha funzione relativa tutte le volte che viene utilizzata e vissuta in un’ottica mondana e utilitaristica.
Un esempio. Anni fa tenevo delle meditazioni guidate tutti i sabati; venivano diverse persone e tornavano a casa rilassate e centrate: mi sentivo un bancomat del benessere, ho smesso.
Non mi interessava, non mi interessa far star bene le persone, mi interessa dare il mio minuscolo contributo perché possano trasformare se stesse e le proprie vite e questo non necessariamente avviene “stando bene”.
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La gestione del bisogno compulsivo di sperimentare
E’ una questione che riguarda poche persone problematiche? No, riguarda la gran parte di noi.
L’essere umano impara solo attraverso le esperienze, la coscienza amplia e struttura il proprio sentire solo se i suoi veicoli (mente, emozione, corpo) sperimentano nelle relazioni il compreso e il non compreso.
Dov’è allora il problema? Nell’assenza di ritmo, nell’eccesso, nel vuoto che si sperimenta quando l’esperienza non c’è.
Nella spinta compulsiva che ci porta a creare situazioni in cui si possano sperimentare sensazioni, emozioni, pensieri, trascendenze.
Come si può gestire questa spinta?
1- Comprendendone l’origine.
Cosa mi muove all’emozione, alla gratificazione intellettuale, all’esperienza spirituale eclatante?
Il bisogno di sentirmi d’esistere? Di sentirmi vivo e persona? Di percepirmi soggetto distinto da altri soggetti?
2- Creando degli spazi in cui osservare e ascoltare il bisogno, disconnettendolo.
Se sono consapevole del bisogno, posso gestirlo; se non riesco a vederlo mi può portare dove vuole.
Se lo vedo e ne conosco l’origine posso dire: “No, non adesso, questo è il tempo della pausa. Dopo.”
Come è evidente, il problema non è nell’avere dei bisogni, ma nel saperli gestire.
Concludo: l’essere umano impara attraverso le esperienze e queste sono generate dai bisogni: gestendo questi si impara non solo a non lasciarsi condizionare oltre il dovuto, ma anche ad entrare in un spazio altro in cui essi non sono più lo stimolo necessario per imparare.
A quel punto si inizia ad imparare non perché si ha bisogno, ma semplicemente perché è nella natura della vita imparare.
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La natura profonda della disconnessione e della fiducia, sabato 12 aprile, Eremo dal silenzio
Disconnettere è non unire pensiero a pensiero, emozione ad emozione, azione ad azione.
La disconnessione è l’aspetto pratico della non identificazione, del lasciar fluire, la condizione per poter vivere il presente e non subire il condizionamento della mente e dei suoi fantasmi.
Disconnessione e fiducia camminano assieme: nello spazio che la disconnessione apre, e che può anche essere popolato di angosce, opera la fiducia, l’affidarsi, il confidare, l’abbandono; un modo di guardare a sé, alle proprie relazioni, ai mille fatti del quotidiano completamente diverso.
Sabato 12 aprile ore 15,40, Gruppo di approfondimento, Eremo dal silenzio, San Costanzo (PU)
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L’importanza dell’identificazione e della disidentificazione
C’è identificazione quando attribuiamo a noi stessi un pensiero, un’emozione, un’azione.
Se non ci fosse identificazioni non si attiverebbero i processi esistenziali: la vita è un’immensa officina proprio perchè la persona è capace di dire: “Questo è mio!”
I processi attivati permettono di confrontarsi con il proprio limite di comprensione e di superarlo.
Mano a mano che la comprensione si amplia, la persona sente in sé che quel continuo appropriarsi della realtà genera spesso dolore, frustrazione, mancanza di senso: spinta dal disagio interiore comincia a mettere in dubbio la legittimità dell’attribuirsi ciò che accade e, nel tentativo di scoprire un’altra possibilità di lettura del proprio esistere, inizia il lungo cammino della disidentificazione.
Disidentificarsi è lasciare che un pensiero, un’emozione, un’azione siano solo fatti che accadono, non i propri fatti, solo fatti.
La capacità di superare l’identificazione, e di aprirsi alla realtà come semplice accadere, è fondamentale se si vuole scendere nell’intimo del vivere.
Siamo in presenza di un vero paradosso: scopriamo la vita solo quando non l’attribuiamo più a noi stessi!
Fino a quando esiste il “nostro” pensiero, il “nostro” bisogno, il “nostro” punto di vista non vediamo altro che le pareti della nostra officina, di quello che non abbiamo compreso: quando quel “nostro” scompare allora affiora ciò che è sempre stato lì, la semplice realtà che non è né nostra né dell’altro, semplicemente è.
Se la persona non fosse passata per l’identificazione non sarebbe giunta a scoprire il reale: se non avesse sperimentato il reale non potrebbe comprendere l’importanza dell’illusione, unica chiave al “ciò che è”.
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Sabato 15: imparare a riconoscere e a lasciar emergere lo zero
C’è una dimensione di esistenza che non è condizionata dalla mente e dalle emozioni, è lo spazio del sentire che noi chiamiamo anche zero, vastità, essere.
Quella dimensione è sempre presente, non conosce oblio, siamo noi che da essa ci allontaniamo e, perduti nell’identificazione, dimentichiamo la sua esistenza.
Sabato 15 febbraio, all’Eremo dal silenzio a San Costanzo, discuteremo e faremo esperienza di quello zero, fondamento di tutto l’esistere.
Ore 15,45, arrivare in anticipo.
La partecipazione è riservata ai componenti del Gruppo del Sabato e a due ospiti eventuali.
La foto è di Mirco Belacchi