Se faccio un parallelo tra le stagioni della natura e quelle dell’uomo, mi viene da porre in relazione l’estate con la vecchiaia.
L’estate è dominata dallo stare, dal giungere a compimento di processi la cui genesi è nell’autunno.
L’autunno è l’inizio della vita perché accoglie in sé il frutto maturo, il seme, dell’estate: una vita che finisce deposita il compreso in una vita che inizia.
divenire
Divenire, essere, senso e scopo
Parto da questa espressione cui fa riferimento Samuele nel suo commento al post Illuminazione e coscienza: Le vite, il vivere dunque è un processo con uno scopo: generare comprensione, ampliamento del sentire, strutturazione del corpo della coscienza.
E’ in chiara contraddizione con quanto affermato nel post La realtà senza senso. Come mai?
Due sono i punti di vista da cui si può osservare e comprendere la realtà: il punto di vista del divenire e quello dell’essere.
La realtà senza senso
Passano gli anni come le immagini del paesaggio viste da un finestrino di un treno in corsa.
Nulla di quello che scorre puoi trattenere: alla fine del viaggio, se non sei stato consapevole, se non ti sei lasciato modellare da quello che accadeva in te e nel piccolo ambiente attorno a te, cosa ti rimane?
Scorrono senza sosta i pensieri e le emozioni e il seguirli ci svuota; si ripetono le azioni e le esperienze e la routine ci consuma.
Vuoto di senso è il vivere.
Ci diciamo che vivere è imparare: si, certo, fino ad un certo punto è così, ma poi? Cosa c’è oltre l’imparare?
La meditazione e lo scomparire
Dice Alessandro commentando il post L’illusione di una mente intossicata: La disconnessione senza indagine del simbolo e delle cause che ci muovono porta alla rimozione ma non alla comprensione e quindi quelle stesse cause vengono ributtate più in profondità, nel buio, dove possono lavorare indisturbate. E’ quello che intendevi?
Si, intendevo proprio questo. Dal nostro punto di vista la meditazione, e con essa la pratica della disconnessione, ha senso se è inserita nel più vasto complesso del conosci te stesso, nel processo del conoscere, divenire consapevoli, comprendere.
Al centro c’è questo processo, non la meditazione, questo deve essere chiaro.
Ciò che accade e niente altro
Una cosa alla volta accade e una cosa alla volta riconosciamo come la nostra vita.
Quell’accadere è il determinante: ciò che insegna, ciò che è.
Ogni fatto ci insegna, ci cambia e, anche se a noi non sembra, ci rende migliori.
Ogni fatto accade e, da un punto di vista più ampio di quello appena descritto, è quel che è, accadere senza tempo e senza senso, pura gratuità.
Ogni fatto lo riconosciamo e ci disponiamo ad imparare fino in fondo la lezione che porta.
Le stagioni dell’umano
Mille stagioni dell’umano legate al divenire, al fare, all’esserci. Altrettante stagioni in cui si insinua il tarlo del superamento del divenire, l’affacciarsi progressivo dell’esperienza dell’essere.
Quando la realtà non è più colta nel suo divenire, cosa diviene?
Quello che è, adesso. Non quello che è stato, né quello che sarà.
Senza via di scampo la realtà è quel piccolo accadere senza aggiunte, senza coloriture.
Solo fatti che accadono.
Le vite, il divenire, la contemplazione
Guardo i miei cani e regolarmente penso: “Temo che la prossima vita vi toccherà da umani! Che sfiga!”
Tutto evolve dice la mente, tutto diviene: il sentire da limitato ad unitario; la pianta da seme a ricovero per gli uccelli.
E’ certamente così nell’ottica del divenire ma questa è solo una delle ottiche possibili, solo uno degli sguardi sulla realtà.
Diviene la legna cenere mentre brucia? Certo che sì, dice la mente.
Certo che no, dice lo sguardo altro. Come no, la legna arde, diviene carbone ardente e pian piano cenere: si vede, accade sotto gli occhi, non lo si può mettere in discussione!
Mancuso e Veronesi su Dio e il male: i limiti di un’analisi
Le fonti: l’ultimo libro di Umberto Veronesi “Il mestiere di uomo, Einaudi”; Vito Mancuso, Repubblica 18.11.2014.
Dice Veronesi: “Allo stesso modo di Auschwitz, per me il cancro è diventato la prova della non esistenza di Dio”.
Afferma chiudendo il suo articolo Mancuso: “La prospettiva più plausibile con cui rispondere alla domanda sull’origine del male è la medesima che sa rispondere all’origine del bene, cioè quella che rimanda all’impasto originario di logos + caos che costituisce il mondo nella sua concreta effettualità e che impone un modo nuovo di pensare Dio.”
Dal ragionare di Veronesi è evidente che la sua esperienza della fede è stata vissuta attraverso la ragione: adesione dunque ad un sistema di valori che è crollata non appena ha aperto gli occhi sulla natura complessa della realtà e si è impattata con la dimensione della distruttività, della malattia, del male inteso secondo il pensiero comune.
Veronesi vede i bambini invasi da cellule cancerogene e afferma: “Dov’è Dio?”. Non trovando una risposta nella mente propria e in quella degli altri, arriva alla conclusione che Dio non c’è perché se ci fosse non potrebbe ammettere un simile assurdo.
Nella sua vita di chirurgo e ricercatore oncologico ha sempre cercato l’origine del cancro nella dimensione biologica dell’individuo e in quella direzione ha speso le sue energie e la sua dedizione: non so se Veronesi ha mai posto in dubbio che il cancro non è solo fenomeno distruttivo che assale il corpo fisico umano, ma è processo che ha anche altra natura ed altra genesi; non lo so, non conosco il suo pensiero , prendo atto di ciò che afferma.
Prendo atto anche che sia Veronesi che Mancuso considerano il male una sciagura: Mancuso afferma che la sua origine va ricercata nelle forze del caos cosmico.
Entrambi sembrano essere convinti che se ci fosse giustizia, non ci sarebbe male.
Credo che possano affermare tutto quello che affermano con così tanta decisione, perché forse mai hanno provato a guardare al cammino umano da un’altro punto vista che superi le categorie filosofiche a cui entrambi aderiscono.
Il limite che trovo nelle loro analisi, nel loro indagare la realtà, è determinato dalla loro indiscussa adesione al modello duale: esiste il bene ed esiste il male; esiste la giustizia ed esiste l’ingiustizia.
Dentro questa morsa cercano le risposte, ma temo che faranno fatica a trovarle.
Non ho la pretesa di insegnare loro alcunché e quindi continuerò esponendo semplicemente il mio punto di vista conoscendone la provvisorietà e la relatività.
Ho avuto, nel corso della mia attività, la possibilità di accompagnare malati di tumore e genitori che avevano perso figli giovani.
Ho visto il dolore, il cammino attraverso esso. Ho visto la protesta, la rabbia nei confronti della vita e di Dio. Ho visto la difficoltà, la resistenza ad adottare un nuovo punto di vista sul vissuto. Infine ho visto il risorgere, o forse il sorgere per la prima volta, della fiducia, dell’esperienza dell’abbandono, l’affiorare di una trasformazione profonda e radicale nel pensare, nel sentire, nel vivere.
Ho visto radicali “conversioni” fiorire da quello che altri chiamano male e sono giunto alla conclusione che il cosiddetto male è un processo esistenziale che rivolta le vite di coloro che con esso si impattano.
Quell’essere rivoltati a volte conduce nel tunnel della rabbia, della frustrazione e del non senso e lì si ferma; altre volte passa attraverso quelle fasi e germoglia in una nuova vita, in uno sguardo esistenziale radicalmente altro. Da cosa dipende questa diversa conclusione del processo della malattia o del lutto? Dagli strumenti di analisi, di lettura, di interpretazione e dalle comprensioni acquisite dalla persona nel corso dell’attraversamento del processo.
Possiamo dire che la malattia è fenomeno biologico; possiamo affermare che Auschwitz è il frutto della distruttività umana e dell’assenza di Dio, ma così facendo non abbiamo spiegato niente, abbiamo solo osservato le manifestazioni e vi abbiamo posto sopra un’etichetta.
Cerchiamo l’origine del cancro nella sfera del biologico quando dovremmo cercarla in quella dei processi esistenziali; non solo nei conflitti relativi alla sfera psichica, ma in quella dei veri e propri processi di fondo dell’esistenza personale.
Cerchiamo una ragione ad Auschwitz nel pensiero, nell’emozione, nella intenzione umana, nella sua natura che a noi appare irrimediabilmente corrotta e non comprendiamo che quella malvagità origina dall’ignoranza di sé e della vita, dalla non comprensione, da una “cecità esistenziale” che è passaggio comune, ma non definitivo, di ogni essere umano.
Parliamo della vita e della morte con la stessa perizia con cui un cieco che tocca la gamba di un elefante parla di esso.
Concludendo, penso che non troveremo nessuna risposta fino a quando la nostra analisi della vita non imparerà ad includere la dimensione esistenziale, identificando in essa la sorgente della manifestazione cognitiva, emotiva, fisica.
Il nostro limite di analisi deriva dal paradigma che utilizziamo per interpretare noi, le nostre vite, l’accadere personale e collettivo: corpo-emozione-pensiero-eventuale-anima (che non si sa bene in che modo sia relativa alle altre componenti).
Prima o poi dovremo compiere un balzo e cominciare a considerare che non esiste lettura plausibile dell’esistenza se non si integra la componente coscienza, vale a dire la sorgente dei processi esistenziali, delle dinamiche cognitive, delle emozioni e delle sensazioni, delle azioni.
Siamo come pescatori che stanno sulla riva del lago, vogliono pescare, protestano perché non pescano niente senza interrogarsi sulla natura della loro esca.
Immagine da http://is.gd/7hTpw0