Immagine di se stessi

d-30x30Immagine di se stessi. Dizionario del

Una delle caratteristiche di base dell’uomo incarnato – ci hanno insegnato le Guide – è quella di osservare la realtà che vive e di crearsi un’immagine interiore di quello che gli interessa. Ecco, così, che esiste un’immagine di se stessi, una delle altre persone e una, addirittura, dell’ambiente, delle situazioni e di tutto ciò che si incontra nel corso della vita. In altre parole ogni individuo ha, dentro di sé, la rappresentazione della realtà incarnativa che attraversa.
Nella costituzione di questa serie di rappresentazioni sorge però un problema: esse sono condizionate dalla relatività della percezione sensoriale dell’individuo, e non solo, ma anche dai suoi bisogni evolutivi (che gli fanno dare preminenza a certi aspetti a scapito di altri), dalle sue comprensioni e incomprensioni, dall’Io e via dicendo.
Ne consegue che le immagini che l’individuo si forma non sono mai complete né esatte, bensì parziali e, in definitiva, non sempre molto attendibili.
Fattore importante in questa problematica è il fatto che l’immagine che viene creata tende ad essere fissa, sostenuta e mantenuta tale il più a lungo possibile dall’Io che ha paura dei cambiamenti in quanto avvertiti come possibili pericoli alla sua stabilità e al suo possesso della realtà.

Messaggio esemplificativo

Qualcuno ha chiesto «a cosa serve l’immagine?» e, più o meno, avete cercato di dare una risposta; però avete dimenticato la risposta essenziale. A cosa serve l’immagine? L’immagine serve all’Io per illudersi di esistere.
Se l’Io non creasse questa immagine con cui rappresentare se stesso, non avrebbe nessun elemento – secondo lui «palpabile» – per poter affermare che egli è reale, che egli appartiene al mondo fisico; e anzi, tutto sommato – se vogliamo proprio andare a vedere – è anche più reale di tutto il resto della realtà!
Ecco, quindi, che questa è la necessità prima dell’esistenza dell’immagine che l’individuo ha di se stesso.
Ahimè, voi sapete – come abbiamo sempre detto – che l’Io ha in se stesso le armi per la propria distruzione; ecco che, infatti, questa immagine, pur essendo necessaria all’Io per rafforzare se stesso e per convincersi di esistere, di essere più realista del re, è anche quel fattore che induce l’individuo con un minimo di consapevolezza e di attenzione su se stesso, a guardare questa immagine e a essere poco convinto di quello che vede; quindi, a notare questa discrepanza tra ciò che il suo Io crede e ciò che magari è la realtà. Da qui l’esigenza, la spinta a cercare di comprendere di più e tutto quello che ne consegue, come l’avvicinarsi al Cerchio Ifior, o interessarsi di filosofia, e via e via e via, tutti quegli elementi che possono portare a cercare una maggiore comprensione di quella che è la propria realtà.
Ma come fa l’uomo ad accorgersi che è un’immagine, come fa a contestarla, come fa a modificarla? Che sia difficile, non c’è ombra di dubbio, sennò tutti in un paio di vite ce la caveremmo, e invece ce ne vogliono molte di più! Il problema è che bisogna pensare all’uomo non come un individuo limitato, settoriale, bensì costituito da varie componenti. Certamente c’è la componente che dà questa fittizia vita all’Io – che è costituita dai corpi inferiori, quelli cosiddetti «transitori» – ma c’è anche la componente che dura sempre, che è quella della coscienza; ed è proprio dalla coscienza che viene l’impulso a comprendere, ed è proprio dalla coscienza che viene, alla fin fine, ad essere messo in atto quel meccanismo che tende ad osservare l’immagine che di se stesso si crea l’Io mettendo il tarlo del dubbio in chi osserva da «osservatore» e non dal punto di vista dell’Io.
Noi abbiamo sempre detto che tutto nella Realtà è una specie di perfetto orologio svizzero in cui tutti i meccanismi sono interagenti tra di loro e tutto si muove; attraverso il piccolo movimento di una rotellina tutto l’universo si muove di conseguenza.
L’immagine che avete di voi stessi è l’immagine che ha il vostro Io di voi stessi; difficilmente avete un’immagine che discordi da quella dell’Io, a meno che non siate così capaci di osservare voi stessi mettendovi da parte da rendervi conto che quell’immagine è falsa; ma allora, probabilmente, non sareste qua nessuno di voi!
Però, quello di cui non vi rendete conto è che voi, questo discorso dell’immagine, lo applicate all’individuo, «l’immagine che io ho di me stesso», ma in realtà voi, la vostra vita la conducete secondo un’immagine di «tutta» la realtà; il vostro Io si fa un’immagine della realtà, si fa un’immagine … che ne so … della politica in America, si fa un’immagine di come si comporta l’amica G., si fa l’immagine di come sono i rapporti tra di voi; l’Io è un continuo formarsi di immagini, e le immagini che si forma sono quelle che, solitamente, più vanno d’accordo con i suoi scopi. E quali sono i suoi scopi? Principalmente espandere se stesso nel tentativo di fare sua tutta la Realtà in maniera da poterla tenere sotto controllo.
L’espansione dell’Io, che – da un certo punto di vista, concettualmente – è molto utile perché dà l’idea di questo tentativo da parte dell’Io di fagocitare tutta la realtà, può però anche indurre in un errore grossolano, perché «espandersi» porta in sé l’idea del movimento; in realtà lo scopo dell’Io è quello di mantenere tutto immobile; lui non vuole espandersi e conquistare la realtà: vuole che la realtà si fermi e riconosca che lui è il centro, il perno stabile di tutta la realtà, è questo il punto; quindi non è che l’Io voglia proprio combattere con la realtà ma semplicemente vuole che la realtà si fermi perché in quel momento a lui sta bene che le cose siano così e, quindi, per la sua grandezza, per il suo desiderio, per i suoi bisogni, la realtà deve piegarsi, fermarsi in quella situazione, in quell’immagine che, secondo lui, è ottimale per se stesso. Dicendo «immagine ottimale per se stesso» intendo l’immagine che ha di se stesso, l’immagine che ha degli altri, l’immagine che ha della realtà. Praticamente è come se lui, sentendosi un dio onnipotente, volesse crearsi un «eterno presente relativo» partendo dall’assunto che la realtà non solo «è» adatta a lui, ma «deve» essere adatta a lui; non può essere altrimenti. È lui il centro dell’universo, no?
È un po’ come secoli fa, quando si pensava che fosse la Terra al centro dell’universo; è ancora un passettino più avanti: lui è, addirittura, lui stesso il centro dell’universo, tutto ruota intorno a lui, è lì per lui, per far piacere a lui; e non sa poi – ironia della cosa! – quanto in realtà sia tutto vero questo; perché, in realtà, tutta la Realtà esiste «anche» per lui, però certamente la prospettiva è un’altra.
Dunque, l’Io si crea questa immagine e cerca di fermare la realtà: un fermo-immagine del proiettore dell’esistenza, in modo tale da fermare l’immagine sul momento che più gli sembra ottimale per se stesso. Dove sta il problema? Perché non ci riesce? A questo punto, dovreste essere tutti autistici, crogiolati nell’ammirazione di voi stessi – e non soltanto per qualche momento, come fate di solito, ma sempre – e, quindi, la vostra vita non avere più spinta né senso per andare avanti per modificarla; giusto?
La spinta avviene naturalmente, un po’ per i movimenti dall’esterno – perché gli altri non sono lì per il vostro benestare, ma sono lì per vivere anche loro – viene dai loro Io che cercano, a loro volta, di fare di voi quello che voi volete fare di loro e, quindi, da questo confronto, molte volte nasce qualcosa di utile, e viene dal fatto che vi rendiate conto con un minimo di consapevolezza – quando la possedete, come dicevo prima – vi rendete conto che la vostra immagine, a cui siete così attaccati, non è più la stessa. Ma non è più la stessa non per sfumature piccole, ma non è più la stessa perché nel giro di una settimana, di un mese, è completamente diversa; e allora, a quel punto, la terra incomincia un po’ a tremare sotto i piedi dell’Io, perché incomincia ad avere dei dubbi sulla propria onnipotenza. Scifo

 Immagine di se stessi, approfondimento

Dal momento che le immagini che ci creiamo sono fisse, non possono tenere conto dei cambiamenti che, nel frattempo, noi stessi, le altre persone o le situazioni hanno messo in atto.
Diventa allora indispensabile ricordarsi di non restare aggrappati alle immagini che abbiamo ma cercare di aggiornarle rendendole il più aderenti possibile alla nostra realtà corrente.
Questo ci permetterà di essere più facilmente sinceri con noi stessi, di tendere meno alla cristallizzazione, di non giudicare gli altri senza dare loro alcuna possibilità di riscatto e di comportarci meno spesso di quanto facciamo in maniera irragionevole per non dire sciocca.

Immagine di sé, differenza con l’Io

Ovviamente immagine e Io sono strettamente correlati. Sappiamo che, secondo l’Insegnamento, l’Io non ha una sua esistenza reale; l’Io si potrebbe quasi dire che è una situazione in cui l’individuo si trova, una risultante del comportamento all’interno dell’incarnazione dell’individuo tramite le sue componenti fisica, mentale e astrale. Ora, questo dà vita a una fittizia personalità che, a un certo punto, cerca di essere vera, di essere reale e, per far questo, cosa deve fare? Deve costruire se stessa. Ricordiamo che quando l’individuo nasce, al di là del corpo fisico, nasce praticamente senza Io, ha soltanto un’identità fisica.
Un po’ alla volta questo Io si struttura, grazie all’intervento degli altri corpi: del corpo astrale e del corpo mentale.
A mano a mano che questi altri corpi intervengono, l’Io si struttura, e ha necessità – per prendere vita, quanto meno «apparente» – di identificarsi con qualche cosa e, siccome si trova a vivere all’interno del piano fisico con vari individui – cosa ha bisogno di fare? Di avere un’immagine di se stesso che stia quanto meno alla pari degli altri individui; quindi, un’immagine non soltanto fisica ma completa e caratteriale di come lui è in confronto agli altri. Sappiamo che l’Io avverte la necessità di apparire «meglio» degli altri; ecco, quindi, che l’Io un po’ alla volta si costruisce quest’immagine di potenza per cui egli cerca sempre di mostrare la propria superiorità nei confronti degli altri individui incarnati che incontra. Diciamo, così, che l’immagine dell’Io non è altro che «un riflesso» dell’Io: un’illusione dell’illusione, poi, alla fin fine.
Il cambiamento dell’individuo nel tempo, grazie alle esperienze di vita, diventa percepibile allorché l’individuo riesce a fornire all’Io, riuscendo a vincere le sue resistenze al cambiamento, un’immagine aggiornata di se stesso. Questo è un meccanismo non solo inevitabile ma addirittura indispensabile per poter mantenere in movimento l’evoluzione dell’individuo. Senza questo meccanismo di continuo aggiornamento dell’immagine, l’Io non cambierebbe, quindi non riuscirebbe a cambiare neanche l’individuo.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima. Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

Il vivere conduce all’unità

Dice Leonardo nel suo commento al Lunedì nel Sentiero: Non l’annullamento dell’io, la sua cancellazione: il suo venire meno significherebbe il venire meno del limite, ciò con cui continuamente siamo chiamati a conciliarci, in quanto porta dell’Assoluto. Piuttosto comprendere la vera natura e funzione del soggetto (del Divenire) nella sua danza con l’Essere.
Nel Sentiero non c’è la lotta, comune a tanti cammini spirituali, all’ego, all’io, all’identità: anzi, noi diciamo che una sana visione, interpretazione, manifestazione di sé è una condizione dalla quale non si può prescindere.

continua..

L’immagine falsa

Che immagine edifica dentro di sé il discepolo del maestro? E il maestro del discepolo?
E quale immagine costruisce l’operaio del proprio datore di lavoro, e viceversa?
E quella che i partner edificano reciprocamente l’uno dell’altra?
Pure finzioni, inconsistenze, irrealtà, narrati fantasiosi e funzionali ai propri processi esistenziali che poco, o nulla, hanno a che fare con la realtà dell’altro.

continua..

Verso la libertà interiore

Le domande di Maya (a partire dalla lettura del libro L’essenziale).

Se non c’è l’agente, non c’è la realtà?

Chi è l’agente? La coscienza? L’identità?
Se non c’è identità – il soggetto che si attribuisce l’accadere – c’è solo l’accadere senza attribuzione, pura neutralità (così come è possibile all’umano). E’ la vita che vive l’iniziato/a, colui/ei che è giunto alla fine del proprio cammino incarnativo. La realtà è presente e si manifesta con le logiche del divenire, ma non c’è un soggetto che dice: “Questo è mio!”
Va notato che finché c’è vita incarnata c’è sempre un tasso di identità, magari molto ridotto, per la ragione molto semplice che essendoci i veicoli mentale, astrale e fisico, comunque questi generano un’immagine di sé. Che l’iniziato/illuminato non abbia alcun grado di identità, è pura illusione e appartiene alla mitologia dello spirituale.

continua..

perdere scomparire

La paura di perdere e i fraintendimenti relativi

Nel linguaggio del Sentiero, i temimi perdere, scomparire, irrilevanza ricorrono di frequente: quando vengono letti, o ascoltati da una identità che li interpreta secondo il loro significato corrente, nascono quasi sempre degli equivoci e, non di rado, un rifiuto.
Eppure in ambito spirituale dovrebbero essere ampiamente sdoganati: è risaputo anche dai neofiti che la libertà, è libertà da sé.
Alcuni vedono in questa libertà da sé quasi la negazione della nostra umanità, del significato stesso del vivere, della sua importanza, della sua sacralità.
Provo un certo imbarazzo a discutere dell’ovvio: chiunque conosca l’esperienza dell’ascolto, dell’osservazione, dello stare, del darsi tempo, del pregare, del meditare, del contemplare dovrebbe aver avuto accesso ad una visione più ampia della realtà in cui ha sperimentato la limitatezza del sé personale.
Avere la consapevolezza che l’umano non è riducibile alla sua incarnazione, non credo significhi negare questa e ciò che essa può portare come esperienza, come possibilità, come dono.
Solo una mente prigioniera della propria dualità, può pensare che l’aprirsi sul non conosciuto, sul non riconducibile ai sensi e a ciò che riteniamo oggettivo, voglia dire negare il conosciuto. Tutti sanno, lo spero, che oltre il mondo dei sensi esiste il mondo che un tempo si chiamava il mondo dello spirito, che è possibile sperimentare, che viene quotidianamente sperimentato da tutti coloro che meditano, che pregano, che hanno consapevolezza del loro essere interiore.
Perché mai debba esserci contraddizione, o addirittura incompatibilità, tra l’esperienza del mondo dei sensi e l’esperienza spirituale, è per me un mistero.
Se si ha conoscenza dei propri processi interiori, si sperimenta che l’accesso ad una percezione più spirituale della realtà, l’aprirsi all’ascolto vero, all’osservazione vera, all’accoglienza vera richiedono un farsi da parte della propria centralità egoica.
Con me al centro, vedo solo me. Con la disponibilità a mettermi da parte, si apre un mondo sconfinato perché quella marginalità di me crea le condizioni di una ricettività, di una accoglienza, di una permeabilità alla realtà che accade, impensabile e inaccessibile finché la consapevolezza è occupata dal mio esserci.
Ecco perché noi parliamo di perdere, di scomparire, di irrilevanza: perché sono le condizioni per allargare il nostro sguardo, ma nulla hanno a che fare con la perdita del nostro essere incarnati, del nostro tragitto personale ed esistenziale.
Certo, comportano la perdita della nostra centralità egoica ed egoistica: sarà per questo che alcuni di noi sobbalzano quando usiamo quei termini?

Qui puoi iscriverti alla Newsletter del Sentiero contemplativo
(invieremo 6 mail/anno)

Immagine da https://goo.gl/mnBs8P

evoluti

I piccoli fatti ci svelano nella nostra presunzione di essere evoluti

Ci piace considerarci evoluti. Siamo persone della via spirituale, sappiamo andare oltre l’egoità: così ce la raccontiamo.
Poi arriva una parola, un gesto, uno sguardo, un piccolo fatto e in noi si leva un’increspatura, il mare calmo della nostra rappresentazione si turba, il fatto ci colpisce, una piccola ferita s’apre.
In un attimo s’evidenzia ciò che non volevamo vedere e veniamo richiamati alla realtà dei fatti: residui più o meno ampi di egoità dichiarano in modo inequivocabile la loro presenza.
Ombre di vittimismo si profilano, accuse all’altro si abbozzano: rosari dell’identità conosciuti.
Presunzione di essere evoluti; presunzione di sapere, di conoscere, di aver compreso: basta un piccolo fatto e il re è nudo.
I piccoli fatti sono sempre generati dall’altro e solo nella relazione si presentano a noi: ecco perchè alla persona della via spirituale non serve ritirarsi dal mondo, non c’è possibilità di fuggire dai piccoli fatti, dalle minute relazioni, dalle stilettate nel ventre dell’egoità.
Non c’è possibilità di fuggire da sé.

Immagine da: http://is.gd/kY7bfn


 

Accettare la propria natura significa cambiare senza sosta: il cammino da ego ad amore

Accettarsi nel proprio limite è la condizione di fondo per non ritrovarsi a mendicare approvazione per tutta una vita.
Accettarsi non è affermare: “Sono così, non posso, non puoi, farci niente!”.
Questo lo afferma la persona che per pigrizia, per opportunismo, per limitatezza di sentire non coglie ciò che continuamente nell’intimo la spinge al mutamento.
Ciascuno di noi ha un dato corpo, un dato carattere, determinate disposizioni, abilità, incapacità: sono la dotazione che ci serve, che ci è utile e funzionale nel cammino dell’esistenza per comprendere ciò che al nostro sentire è necessario.
Se accogliamo la dotazione senza opporre resistenza, senza rifiutarci, senza lottare contro noi stessi, si apre uno spazio immenso. Quale?
Quello del vivere assecondando una spinta, una propulsione interiore che ci conduce nei giorni, negli anni ad imparare da ciò che viviamo.
Imparare cosa? Questioni interiori, questioni di fondo. La prima di tutte: conoscere il nostro egoismo e il nostro egocentrismo e, in vario grado, poterli superare.
Per cosa vive un umano? Per conoscere il proprio egoismo e superarlo.
Per imparare a dimenticarsi di sé.
Conosciuto il volto dell’ego nelle sue varie declinazioni, vista e incarnata la propria irrilevanza sorge una possibilità, quella di amare, che non si impara, ma che viene come dono, come fiore che germoglia nel deserto.

Immagine da: http://www.generazionevaselina.it/?tag=nietzsche


Non sappiamo niente dell’altro

Ci piace parlare, giudicare; siamo dei gradassi: “Tu sei così, non sei cosà!” Farfuglionate.
La realtà, molto semplice, è che siamo chiusi nel piccolo stazzo della nostra egoità e da quello osserviamo il mondo e abbiamo la pretesa di comprenderlo, di saperlo.
La comprensione della realtà è inversamente proporzionale al tasso di egocentrismo che ci condiziona: più siamo liberi da noi, più vediamo e viviamo il reale.
Più siamo ego-centrati, più vediamo solo il nostro ombelico e abbiamo la pretesa di sapere.
Più conosciamo, più chiniamo la testa consapevoli della nostra ignoranza.
Più è limitato il nostro sentire, più la nostra pretesa si estende sul nostro partner, sui nostri figli, sui nostri dipendenti, sui nostri datori di lavoro, sui nostri vicini di casa.
Più il sentire si amplia, più taciamo.
Il giudizio che nasce dall’ignoranza ha una sua ragione d’essere: ci definisce. Parlando dell’altro, definendolo, definiamo noi stessi.
Quando il sentire matura non abbiamo più alcuna necessità di definirci; è un bisogno, una pratica che in noi muore: non dovendo definire noi, non dobbiamo definire nessun altro, non né abbiamo l’esigenza.
Allora sorge l’esperienza della compassione: per noi, per l’altro, per tutto.

Immagine di Michelangelo Pistoletto, 1980, da http://www.letteraturatattile.it/?p=1257


La resistenza al cambiamento interiore

Scrive Antonella: “Se una persona fa resistenza al passaggio dei propri vissuti, ostacolando la loro penetrazione in profondità, mi viene da pensare che  ha paura della trasformazione  perché con essa perde alcune sicurezze consolidate e, pur acquisendone delle nuove, passa attraverso una fase di instabilità che può farle paura e quindi crea una resistenza.
Mi chiedo, esiste una “leva”, un input, quale atteggiamento si può adottare affinché si abbandoni la rigidità e ci si lasci modificare, trasformare dalle esperienze e dalle nuove consapevolezze vissute?”
Quando una persona cambia comportamenti, modi d’essere, di pensare, di leggere la realtà?
Quando in essa è maturato un sentire adeguato che genera intenzioni, pensieri e comportamenti diversi e corrispondenti al nuovo sentire acquisito.
Facciamo un esempio: se le mie esperienze mi hanno portato ad acquisire un sentire di grado 10, con esso mi misurerò – e con le esperienze che esso può generare – fino a quando quel sentire non sarà completamente acquisito, compreso, stabilizzato.
Le esperienze del grado 10 strutturano quel grado e preparano l’acquisizione del grado successivo, l’11.
I cambiamenti nella persona avvengono continuamente ma divengono visibili, tangibili, confermati dall’azione solo quando il sentire si amplia.
Si può accelerare il processo della trasformazione del sentire?
Conoscendo la natura del proprio operare, pensare, intendere.
La conoscenza della natura delle spinte che ci muovono; la consapevolezza delle resistenze e delle paure, la gestione consapevole di esse; il non sottrarsi alle esperienze della vita, la sana disponibilità e curiosità verso esse facilitano il processo della comprensione che determina il maturare di un sentire più ampio.
Se la resistenza al cambiamento è nell’altro da sé, ciò che possiamo fare è cambiare noi stessi e testimoniare in modo discreto, molto discreto, il nostro cambiamento attraverso le nostre intenzioni, i nostri pensieri, le nostre azioni.

Immagine da: http://is.gd/QLAw7k


Lo sguardo parziale, la visione d’insieme: da ego ad amore

Più lo sguardo è ristretto, più l’orizzonte che ci riguarda è quello personale, più la difesa del nostro punto di vista è insistita, più ci muoviamo nel limitato spazio della nostra egoità.
Come si può comprendere quando la nostra identità si è fatta meno limitante?
Osservando l’ampiezza del nostro sguardo, del nostro interesse, del nostro slancio:
– quando cominciamo ad occuparci dell’altro da noi;
– quando cominciano ad interessarci i destini degli altri, persone o popoli che siano;
– quando in noi sorge la responsabilità consapevole delle nostre intenzioni, dei nostri pensieri, delle nostre azioni;
– quando cominciamo a considerare la ricaduta del nostro essere sull’altro da noi, sull’ambiente.
Quando incominciamo a comprendere cosa sia l’esperienza del “prendersi cura”, allora la nostra vita diviene testimonianza concreta di un sentire che si è ampliato, di un passo compiuto nella direzione dell’amore che si lascia alle spalle porzioni di egoità.

Immagine da: http://goo.gl/pou37B