Accettare la propria natura significa cambiare senza sosta: il cammino da ego ad amore

Accettarsi nel proprio limite è la condizione di fondo per non ritrovarsi a mendicare approvazione per tutta una vita.
Accettarsi non è affermare: “Sono così, non posso, non puoi, farci niente!”.
Questo lo afferma la persona che per pigrizia, per opportunismo, per limitatezza di sentire non coglie ciò che continuamente nell’intimo la spinge al mutamento.
Ciascuno di noi ha un dato corpo, un dato carattere, determinate disposizioni, abilità, incapacità: sono la dotazione che ci serve, che ci è utile e funzionale nel cammino dell’esistenza per comprendere ciò che al nostro sentire è necessario.
Se accogliamo la dotazione senza opporre resistenza, senza rifiutarci, senza lottare contro noi stessi, si apre uno spazio immenso. Quale?
Quello del vivere assecondando una spinta, una propulsione interiore che ci conduce nei giorni, negli anni ad imparare da ciò che viviamo.
Imparare cosa? Questioni interiori, questioni di fondo. La prima di tutte: conoscere il nostro egoismo e il nostro egocentrismo e, in vario grado, poterli superare.
Per cosa vive un umano? Per conoscere il proprio egoismo e superarlo.
Per imparare a dimenticarsi di sé.
Conosciuto il volto dell’ego nelle sue varie declinazioni, vista e incarnata la propria irrilevanza sorge una possibilità, quella di amare, che non si impara, ma che viene come dono, come fiore che germoglia nel deserto.

Immagine da: http://www.generazionevaselina.it/?tag=nietzsche


Non sappiamo niente dell’altro

Ci piace parlare, giudicare; siamo dei gradassi: “Tu sei così, non sei cosà!” Farfuglionate.
La realtà, molto semplice, è che siamo chiusi nel piccolo stazzo della nostra egoità e da quello osserviamo il mondo e abbiamo la pretesa di comprenderlo, di saperlo.
La comprensione della realtà è inversamente proporzionale al tasso di egocentrismo che ci condiziona: più siamo liberi da noi, più vediamo e viviamo il reale.
Più siamo ego-centrati, più vediamo solo il nostro ombelico e abbiamo la pretesa di sapere.
Più conosciamo, più chiniamo la testa consapevoli della nostra ignoranza.
Più è limitato il nostro sentire, più la nostra pretesa si estende sul nostro partner, sui nostri figli, sui nostri dipendenti, sui nostri datori di lavoro, sui nostri vicini di casa.
Più il sentire si amplia, più taciamo.
Il giudizio che nasce dall’ignoranza ha una sua ragione d’essere: ci definisce. Parlando dell’altro, definendolo, definiamo noi stessi.
Quando il sentire matura non abbiamo più alcuna necessità di definirci; è un bisogno, una pratica che in noi muore: non dovendo definire noi, non dobbiamo definire nessun altro, non né abbiamo l’esigenza.
Allora sorge l’esperienza della compassione: per noi, per l’altro, per tutto.

Immagine di Michelangelo Pistoletto, 1980, da http://www.letteraturatattile.it/?p=1257


La resistenza al cambiamento interiore

Scrive Antonella: “Se una persona fa resistenza al passaggio dei propri vissuti, ostacolando la loro penetrazione in profondità, mi viene da pensare che  ha paura della trasformazione  perché con essa perde alcune sicurezze consolidate e, pur acquisendone delle nuove, passa attraverso una fase di instabilità che può farle paura e quindi crea una resistenza.
Mi chiedo, esiste una “leva”, un input, quale atteggiamento si può adottare affinché si abbandoni la rigidità e ci si lasci modificare, trasformare dalle esperienze e dalle nuove consapevolezze vissute?”
Quando una persona cambia comportamenti, modi d’essere, di pensare, di leggere la realtà?
Quando in essa è maturato un sentire adeguato che genera intenzioni, pensieri e comportamenti diversi e corrispondenti al nuovo sentire acquisito.
Facciamo un esempio: se le mie esperienze mi hanno portato ad acquisire un sentire di grado 10, con esso mi misurerò – e con le esperienze che esso può generare – fino a quando quel sentire non sarà completamente acquisito, compreso, stabilizzato.
Le esperienze del grado 10 strutturano quel grado e preparano l’acquisizione del grado successivo, l’11.
I cambiamenti nella persona avvengono continuamente ma divengono visibili, tangibili, confermati dall’azione solo quando il sentire si amplia.
Si può accelerare il processo della trasformazione del sentire?
Conoscendo la natura del proprio operare, pensare, intendere.
La conoscenza della natura delle spinte che ci muovono; la consapevolezza delle resistenze e delle paure, la gestione consapevole di esse; il non sottrarsi alle esperienze della vita, la sana disponibilità e curiosità verso esse facilitano il processo della comprensione che determina il maturare di un sentire più ampio.
Se la resistenza al cambiamento è nell’altro da sé, ciò che possiamo fare è cambiare noi stessi e testimoniare in modo discreto, molto discreto, il nostro cambiamento attraverso le nostre intenzioni, i nostri pensieri, le nostre azioni.

Immagine da: http://is.gd/QLAw7k


Lo sguardo parziale, la visione d’insieme: da ego ad amore

Più lo sguardo è ristretto, più l’orizzonte che ci riguarda è quello personale, più la difesa del nostro punto di vista è insistita, più ci muoviamo nel limitato spazio della nostra egoità.
Come si può comprendere quando la nostra identità si è fatta meno limitante?
Osservando l’ampiezza del nostro sguardo, del nostro interesse, del nostro slancio:
– quando cominciamo ad occuparci dell’altro da noi;
– quando cominciano ad interessarci i destini degli altri, persone o popoli che siano;
– quando in noi sorge la responsabilità consapevole delle nostre intenzioni, dei nostri pensieri, delle nostre azioni;
– quando cominciamo a considerare la ricaduta del nostro essere sull’altro da noi, sull’ambiente.
Quando incominciamo a comprendere cosa sia l’esperienza del “prendersi cura”, allora la nostra vita diviene testimonianza concreta di un sentire che si è ampliato, di un passo compiuto nella direzione dell’amore che si lascia alle spalle porzioni di egoità.

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Il processo del perdersi e del ritrovarsi ci è maestro

Approfitto di questo testo condiviso da Paolo per fare alcune considerazioni (in corsivo all’interno del testo della Caplan).
Sarebbe interessante sapere perché l’autrice usa il sostantivo malattie e l’aggettivo trasmissibili trattando un argomento di questa natura.

“Dieci malattie spiritualmente trasmissibili di Mariana Caplan
1. La spiritualità “fast-food”. La cultura moderna, che celebra la velocità e la gratificazione istantanea produce una spiritualità fast-food. Quest’ultima è il prodotto dell’illusione che la liberazione dal dolore possa essere facile e immediata. Tuttavia, una cosa è certa: la trasformazione spirituale non si può ottenere in un batter di occhi.

Tutta la vita dell’umano avviene nell’illusione: vivere è il processo di affrancamento dall’illusione e conduce alla scoperta dell’autentica natura dell’essere.
Siamo debitori all’illusione, tutti i giorni, in ogni situazione essa ci conduce a comprendere l’irrealtà del nostro punto di vista e della nostra pretesa di essere identità, soggetti, protagonisti.
Senza l’illusione, le situazioni nelle quali ci conduce, le cadute e i ragli che provoca, cosa potremmo imparare?

2. La finta spiritualità. La finta spiritualità consiste nella tendenza a parlare, vestirsi e comportarsi come immaginiamo farebbe una persona spirituale. E’spiritualità imitativa che mima esteriormente la realizzazione.

Non mina niente. Sono solo i primi e maldestri tentativi e approcci con altri e diversi punti di vista e stili di vita.

3. Motivazioni confuse. Benché il nostro desiderio di evolverci sia puro e genuino, spesso è contaminato da motivazioni secondarie come il desiderio di essere amati, di appartenere a un gruppo, di riempire il nostro vuoto interiore, il desiderio di essere speciali, straordinari.

Tutti partiamo da qui e pian piano lasciamo andare queste motivazioni: la “via spirituale” è, per un lunghissimo tratto, niente altro che lasciarsi alle spalle le dinamiche egoiche. Quando in noi sorge la capacità di dimenticarci del nostro essere, dei nostri bisogni, la via è finita. 

4. Identificazione con esperienze spirituali. Avviene quando l’ego si identifica con la nostra esperienza spirituale e la considera come sua; cominciamo a credere di essere la personificazione vivente di certe intuizioni sorte in noi in determinati momenti. Tale malattia non dura all’infinito, benché tenda a prolungarsi maggiormente in coloro che si ritengono insegnanti spirituali.

Inevitabile. Quelle intuizioni attraversano i nostri veicoli, la nostra umanità e ci invitano alla coerenza con il loro portato. Dentro la dinamica identificativa impariamo tutto il superamento di essa.

5. L’ego spiritualizzato. Questa malattia si verifica quando la struttura stessa della personalità egoica si imbeve di idee e concetti spirituali. Quando l’ego si spiritualizza, siamo impermeabili a ogni cambiamento. Diventiamo esseri umani impenetrabili e la nostra crescita spirituale si blocca (in nome della spiritualità stessa).

Autentiche sciocchezze. Se ti occupi di spiritualità, l’ego di questa si nutre; se  sei un depresso, di questo l’ego si alimenta; se sei un imprenditore di successo, di quella funzione sociale l’ego si pavoneggia. Qualunque immagine l’ego crei di se stesso, questa sarà solo il riflesso dei tentativi che la coscienza sta compiendo per giungere a delle comprensioni.

6. Produzione di massa di insegnanti spirituali. Vi sono molte correnti spirituali alla moda che sfornano una dietro l’altra persone che si ritengono a un livello di illuminazione ben al di sopra di quello effettivo. Assorbi questa luce, fai queste pratiche, annusa questo incenso e – bam! – sei illuminato e pronto a illuminare gli altri. Il problema non è tanto che tali persone insegnino, quanto che si presentino come maestri spirituali.

Pure danze egoiche: sono stigmatizzabili perché avvengono in ambito spirituale? E cos’è l’ambito spirituale se non una invenzione dell’ego?
Le persone operano in relazione al sentire conseguito e ciascuno mette in atto la rappresentazione che gli è possibile: non di più, non di meno.

7. Orgoglio spirituale. L’orgoglio spirituale sorge quando il praticante, attraverso anni di sforzi intensi, ha effettivamente raggiunto un certo livello di saggezza, ma usa questo risultato per chiudere le porte a qualsiasi nuova esperienza.“Io sono migliore, più saggio e superiore agli altri, perché sono spirituale”.

Più che condivisibile. La chiave per comprendere il problema sta nell’espressione “attraverso anni di sforzi intensi”: siamo certi che sia necessario uno sforzo, che la saggezza derivi da uno sforzo? O non deriva invece dal semplice vivere? Di esperienza in esperienza il sentire si amplia, le comprensioni si strutturano, il punto di vista sulla realtà cambia radicalmente.

8. Mentalità di gruppo. Anche nota come malattia degli ashram, la mentalità di gruppo è un virus insidioso che contiene molti elementi tradizionali della co-dipendenza. Un gruppo spirituale decide in modo inconscio quali siano i modi giusti di pensare, parlare, vestirsi e comportarsi, e rifiuta le persone che non rispettano le regole del gruppo.

Pericolo reale.

9. Il complesso degli Eletti. Consiste nella convinzione che “il nostro gruppo è il più spiritualmente evoluto, potente e illuminato; in poche parole, è il migliore di tutti”. C’è una grande differenza tra il pensare di avere scoperto la via, l’insegnante o la comunità migliori per sé, e il pensare di aver scoperto“il meglio in assoluto”.

Pericolo reale.

10. Il virus mortale: “Sono arrivato”. Questa malattia è tanto potente da essere potenzialmente mortale per la nostra evoluzione spirituale. Consiste nella convinzione di “essere arrivati” alla fine del cammino spirituale, precludendo ogni possibile futura evoluzione.

Molto discutibile. E’ l’identità che dice: “Sono arrivato!”, ma può anche dire che gli asini volano, il processo di trasformazione comunque continua perché non è l’identità che lo guida; certo, può rallentarlo, può cristallizzarlo e la coscienza troverà maggiori difficoltà nel realizzare le esperienze che le necessitano, ma è una situazione transitoria, il cammino verrà ripreso magari passando per una situazione traumatica che rimetterà al centro la realtà.

Conclusione. Ciò che accade nella “via spirituale” è in niente diverso da ciò che accade nel mondo essendo la via un luogo, una lettura del mondo: c’è dunque poco da stupirsi.

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I nostri insegnanti: l’egoismo, l’ignoranza, la paura

Ad ogni angolo c’è qualcuno che insegna qualcosa, o pensa di farlo, o gli attribuiamo quel gesto.
Ci sono insegnanti interiori che non riconosciamo nella loro funzione; ad esempio, consideriamo il nostro egoismo come un limite ma non come un insegnante, una possibilità di apprendimento che ci viene offerta.
Non voglio discutere qui dell’egoismo, dell’ignoranza o della paura ma della loro funzione pedagogica.
Se non c’è consapevolezza della natura egoistica del nostro vivere, questa produrrà scene su scene condizionate dal suo essere: le scene costituiranno un processo e questo determinerà una trasformazione del nostro essere egoisti, magari passando per situazioni in cui sperimenteremo l’egoismo degli altri su di noi.
Se c’è consapevolezza, avremo la possibilità di vederci, di interrogarci, di collaborare con le situazioni della vita in cui il nostro egoismo viene posto in risalto.
In entrambi i casi vivremo una trasformazione e il nostro egoismo ci avrà insegnato qualcosa: praticandolo avremo imparato a superarlo.
Qual’è la differenza tra il vivere dei processi consapevolmente e inconsapevolmente?
Il tasso di dolore dei due processi: la consapevolezza molto spesso ci permette di limitare la sofferenza che proviamo mentre stiamo apprendendo qualcosa.
Vivere ciò che siamo, consapevolmente o inconsapevolmente, ci conduce comunque oltre noi stessi.
Questo accade senza fine e certamente oltre il tempo di quella che chiamiamo “la nostra vita attuale”.
Se osservate bene, questa è la radice della compassione: se tutto e tutti sono in trasformazione, come è possibile un giudizio sui processi e sui passi di questa?

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