Il cammino di tutti i giorni e lo scacco del proprio esserci

A me sembra che ci sia un equilibrio nella vita tra le conferme alla nostra visione identitaria e le smentite a questa. In altri termini, nel quotidiano troviamo conferme e smentite al nostro esserci come portatori di un nome.
Senza conferme saremmo smarriti; senza smentite rimarremmo immobilizzati dalla nostra presunzione di sapere, conoscere, esserci.
Se questo può essere per la vita nel “mondo”, diverso è all’interno di un cammino spirituale.
Definiamo cammino spirituale quello che ci conduce dalla focalizzazione sul nostro esserci a quella sull’essere: la transizione dalla visione identitaria ed egoica a quella neutrale e impersonale, al ciò che è.
Constato tutti i giorni quanta confusione e quanto equivoco ci sia in merito a questo tema: le persone chiedono ad un cammino spirituale quello che mai potrà dare: la conferma di sé e del proprio esserci.
Sgomberiamo il campo da un equivoco: non sto dicendo che nella via spirituale l’identità viene negletta ed umiliata, ma che viene utilizzata come piede di porco per scardinare la porta che occlude la libertà.
La conoscenza, consapevolezza, comprensione delle proprie dinamiche identitarie sono ingredienti fondamentali per accedere a spazi di consapevolezza non condizionati: conoscere l’identità per superarla, per eliminare il filtro che essa costituisce nel tentativo di definirsi e che è l’elemento che vela la realtà dell’essere.
Conoscere dunque il filtro per non esserne condizionati.
Qualunque fatto della giornata viene piegato e usato nell’ottica di svelare il canto del proprio esserci e della resistenza a lasciare che qualcosa di più vasto si affermi.
Questo è una via spirituale: coloro che camminano con noi, il partner, i figli, i colleghi di lavoro tutti svelano il gioco tra esserci ed essere in noi.
Per poter affrontare questa dinamica interiore occorre aver risolto, almeno nelle sue principali basi, le questioni dell’immagine di sé e del proprio diritto ad esserci, altrimenti si porta nella via spirituale una aspettativa che essa non può, se non in maniera secondaria, risolvere.

Immagine tratta da: http://goo.gl/eBrDbx


 

Un giorno nuovo

Coloro che vivono una malattia che mina le basi della loro esistenza sanno che cos’è un giorno nuovo.
Noi sembra che non lo sappiamo, mi verrebbe da dire che lo abbiamo dimenticato ma è un’espressione inappropriata: non lo abbiamo ancora imparato, scoperto.
Vivendo noi non nella vita ma nel racconto di essa, molte cose non abbiamo ancora sperimentato.
Il giorno nuovo che viene non è una opportunità, una possibilità: finchè è questo, sono io il centro dell’accadere e quel giorno mi porta qualcosa che mi renderà diverso.
Questo modo di guardare alla vita ha senso fino ad un certo punto del nostro cammino, in seguito altro si presenta: il giorno che viene è un accadere, un fatto.
Come tutti i fatti non è per me, né per te: accade e può essere usato per i fini del proprio processo esistenziale, ma può anche essere solo contemplato.
Contemplarlo significa lasciarlo lì, non ricondurlo a sé, liberarlo di tutto ciò che la mente può aggiungervi:
un giorno nuovo è un giorno nuovo.

Immagine tratta da:http://www.linkiesta.it/donne-festa


 

Sabato 15: imparare a riconoscere e a lasciar emergere lo zero

C’è una dimensione di esistenza che non è condizionata dalla mente e dalle emozioni, è lo spazio del sentire che noi chiamiamo anche zero, vastità, essere.
Quella dimensione è sempre presente, non conosce oblio, siamo noi che da essa ci allontaniamo e, perduti nell’identificazione, dimentichiamo la sua esistenza.

Sabato 15 febbraio, all’Eremo dal silenzio a San Costanzo, discuteremo e faremo esperienza di quello zero, fondamento di tutto l’esistere.
Ore 15,45, arrivare in anticipo.
La partecipazione è riservata ai componenti del Gruppo del Sabato e a due ospiti eventuali.

La foto è di Mirco Belacchi

Fare spazio dentro di sé

Semplicemente osservando l’affollamento di emozioni e pensieri.
Basta osservare? No, se c’è identificazione con il contenuto dell’affollamento non succede niente.
E’ necessario aver compreso che le emozioni e i pensieri sono vento che va, non sono né noi, né la nostra esistenza.
Se si ritiene di essere quel pensiero, quello persiste; se ci riscalda quella emozione, quella permane.
Per fare spazio dentro di sé è necessario essere abbastanza stanchi di sé, perlomeno di quel sé che in modo piacevole o spiacevole occupa tutto lo spazio.
E’ facile stancarsi delle proprie pesantezze, ma delle cose piacevoli non ci si stanca e qui cade l’asino: bisogna lasciare andare tutto, senza distinzione.
Lasciar andare significa, osservare, essere consapevoli, non curarsi del vento che va, di ciò che attraversa i corpi dell’essere.
Da questo “non curarsi” sorge lo spazio, silenzi tra parola e parola, emozione ed emozione, azione ed azione.
Silenzi, spazi, stare non condizionato.

L’immagine è tratta da: http://www.panoramio.com/photo/70519925


 

Una piccola storia

Tra i monti, molto lontano dal mondo, c’era un eremo dove vivevano due eremiti.
La loro età era avanzata ma non definibile; abitavano l’eremo da molti decenni, si nutrivano dei frutti del bosco, delle erbe selvatiche e dei prodotti del loro minuscolo orto. Vestivano di abiti disadorni, larghi e piuttosto consunti, sempre gli stessi. Ai piedi portavano ciabatte in tutte le stagioni.
Si scaldavano con una stufa a legna e trascorrevano le loro giornate nella quiete e nel silenzio. Nessuno dei due amava parlare e lo facevano solo quando era necessario.
Nelle loro vite nulla mancava. Un tempo nel loro interiore molte erano state le domande e l’ansia di risposte li aveva sospinti a cercare e a sperimentare.
Da molto tempo nelle loro menti non c’era più alcuna domanda, né alcun bisogno di cui valesse la pena parlare, o per cui fosse necessario adoperarsi.
Dal mondo venivano a visitarli persone che avevano saputo della loro esistenza; queste percorrevano il lungo sentiero tra i monti sospinte da un’inquietudine, una insoddisfazione, una domanda.
I due eremiti ascoltavano e, senza la pretesa di possedere alcuna verità, dicevano ciò che secondo loro poteva essere detto in quella situazione.
Le persone, dopo aver lasciato dei doni fuori dalla porta d’ingresso, riprendevano il cammino per ritornare nel mondo alcune con il volto chiaro e fiducioso, altre preoccupate, altre ancora visibilmente insoddisfatte ed irate.
Così era da decenni e tutto questo avveniva nel ritmo di una vita senza pretese, semplice e discreta.
Un giorno giunsero all’eremo persone ricche di motivazione e di domande; esse furono accolte nella cucina illuminata dalla debole luce del giorno, ciascuna di loro portava sottobraccio doni voluminosi.
Gli ospiti posero le loro domande, ascoltarono in silenzio le risposte; fu loro servita una tisana di frutti del bosco con noci sgusciate e del pane raffermo.
A metà del pomeriggio, quando già la luce nella stanza era calata, i padroni di casa accesero due candele.
Uno degli ospiti osservò: “C’è poca luce, servirebbero altre candele!” Senza attendere la risposta, dall’involto sottobraccio tirò fuori due candelabri, ciascuno di sette candele e disse agli eremiti: “Datemi del fuoco e le accenderò, così vedremo meglio e potremo continuare a discutere confortati dalla luce”.
I due eremiti si guardarono un po’ stupiti, dei due l’uomo si alzò, prese una sola candela dai candelabri, la appoggiò in una ciotola e la accese.
L’ospite sembrò infastidito, forse in cuor suo desiderava che tutte e quattordici le candele fossero accese; all’eremita sembrava che le due candele accese all’imbrunire bastassero a fare una luce cui nulla mancava ma, per non offendere l’ospite, aveva accettato di accenderne una terza.
La conversazione continuò e oramai si avvicinava la sera, il fuoco nella stufa stava morendo e la temperatura nella stanza era diminuita.
Dall’attaccapanni gli eremiti presero due pesanti mantelle di colore scuro, semplici e piuttosto lise e con esse si coprirono; poi da una cassapanca tirarono fuori delle coperte e le offrirono agli ospiti.
Uno di questi, dal pacco che aveva portato come dono, estrasse una mantella molto bella, di un bel colore, ricca di decorazioni e la offrì dicendo: “Prendi questa, è fatta dai migliori artigiani secondo le ultime e più sofisticate tecniche di tessitura!”
I due eremiti si guardano perplessi: le loro mantelle scendevano sulle spalle come fossero parte del corpo e, sebbene fossero vecchie, ben assolvevano alla funzione, i loro corpi erano al caldo: quelle mantelle, i due eremiti, la cucina, l’eremo, il bosco, il tempo che scorreva erano come un unico essere cui nulla mancava; i due sentirono che indossare quella nuova mantella avrebbe significato rompere quella unità di tutte le cose.
Dissero all’ospite: “Alla nostra vita nulla manca: il bosco ci nutre, il torrente ci disseta, l’eremo ci protegge dalla pioggia, la legna ci scalda. Questa mantella così bella che ci hai portato può essere molto utile ad altri, donala a qualcuno che conosci e che sai che affronta l’inverno senza il conforto della stufa che arde”.
L’ospite insistette e l’eremita rispose: “Se osservi attentamente, se rimani qui con noi per alcuni giorni, o per alcuni mesi se vuoi, potrai fare esperienza del nostro modo di vivere, potrai comprendere il ritmo del giorno e della notte, delle stagioni, del divenire; potrai comprendere perchè la vivrai, l’unità sostanziale di tutte le cose e di tutti gli esseri, l’unico respiro che unisce le nostre vite al bosco, alla terra, al lupo e al capriolo. Quando avrai compreso e vissuto in te questa unità allora il tuo silenzio, il tuo occuparti della stufa, il tuo andare a fare legna nel bosco, il tuo ingegno nel costruire un sistema di convogliamento dell’acqua dal tetto al pozzo saranno un dono gradito, utile e necessario”.
Gli ospiti ascoltarono e tacquero, non furono necessarie altre parole; per tutta la sera e anche durante la cena nessuno parlò.
Gli eremiti si ritirarono nelle loro rispettive stanze, gli ospiti distesero le loro coperte, le tre candele furono spente e il silenzio della notte attraversata dal volo muto del barbagianni coprì il loro sonno.