Chiede Gianluca: “Entro quali limiti l’indagine speculativa e il confronto dialettico agevolano un reale processo di disidentificazione dall’ego?
E’ forse opportuno che la comunicazione verbale sia anch’essa contenuta all’essenziale, affinché sia percepita come un mero accessorio (strumentale e conseguente) alla pratica meditativa?”
E’ un problema di misura: puoi parlare e filosofare, puoi emozionarti e provare sensazioni di vario genere; puoi agire e operare e tutto questo può essere pervaso di essere, con un tasso di identificazione al minimo, con un’alta consapevolezza che mai ti abbandona.
Il problema centrale è quello dell’identificazione: molte parole manifestano molto desiderio di comunicare e molta partecipazione, ma significano anche molta identificazione? Non necessariamente.
identificazione
Il processo di appropriazione
Affermare che tutta la realtà mi riguarda non è come dire che tutto è mio.
Tutta la realtà mi svela e riflette i miei processi interiori, quindi mi riguarda; nello stesso tempo, tutta la realtà non è mia, non mi appartiene, è una sequenza di fatti che la mia interpretazione unisce conferendogli il senso a me funzionale.
La realtà mi parla, ma non mi appartiene: ahimè, ci comportiamo come se la realtà fosse cosa nostra e invece mai lo è.
La realtà è fatto che accade e che sia generata dal nostro sentire, non la rende nostra.
Sembra un assurdo: come, è generata dal mio sentire e non è mia?
Il problema è in quel pronome possessivo.
Fino ad un certo punto del nostro cammino tutto è nostro; da un certo punto in poi prendiamo invece le distanze da quel processo di appropriazione e iniziamo a considerare i fatti nei quali siamo immersi come fatti.
Contemplazione: la nostra umanità è una porta
Ore e giorni prima di un intensivo, osservatorio privilegiato dell’umano e delle sue reazioni.
Con gli occhi dell’umano, con lo stare delle contemplazione viene osservato ciò che nell’interiore sorge, ciò che nell’ambiente si manifesta senza che interiore ed esteriore vivano alcuna separazione.
1- La scomparsa di qualunque atteggiamento spirituale:
– è atteggiamento spirituale l’ammantarsi di speciale;
– il connettersi ad un archetipo fatto di atmosfere, gesti, stati: una sorta di rappresentazione rituale, di comprensione di sé dentro ad un paradigma.
C’è stato nel tempo, ora non se ne vede più traccia.
2- La consapevolezza che l’umano è la porta che mette consapevolmente in rapporto/relazione più mondi di sentire:
– coscienza ed umano vengono vissuti nella loro inscindibilità;
– umano non significa identità, significa la stanza al piano terra di un palazzo;
– totale inconsistenza della danza identitaria perché non sorretta da identificazione;
– nessuno stato particolare riconducibile alla sfera mistica;
– prevalenza della attitudine/disposizione giocosa;
– piena gratuità.
3- Lucida consapevolezza che non c’è un attore in scena, che l’intero gioco è affidato ad altro:
– assenza del protagonista e del sentirsi in causa come tale;
– assenza di scopo che non sia il servizio all’accadere;
– fiducia senza condizione che ciò che deve accadere accadrà.
L’umano è una stanza senza porta e senza finestra; il palazzo è fatto di stanze senza porte e senza finestre:
l’aria fresca dell’alba le attraversa e porta con sé il canto degli usignoli.
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L’identità e la sua scomparsa
Alcuni commenti su Facebook al post sull’esperienza della preghiera mi inducono ad approfondire.
In quell’intervento sostenevo che la preghiera sorge quando scompare il soggetto che prega.
Qui sostengo non solo questo, ma anche che la vita sorge solo quando il soggetto che la vive scompare: finché c’è soggetto non c’è vita, c’è la rappresentazione della vita, cosa ben diversa.
Quando c’è il soggetto? Quando c’è identificazione con il pensiero, l’emozione, l’azione: loro sono me, io sono loro. Quel pensiero è ciò che credo; quell’emozione è ciò che provo; quell’azione è ciò che sono.
Quando non c’è soggetto? Quando quel pensiero è solo un pensiero, vento che va; quando quell’emozione è solo un’emozione, sorge e scompare nel suo essere effimera; quando quell’azione è solo un’azione, atto finale di un processo che è rappresentazione dei processi del sentire.
Quando la persona va dall’identificazione alla scomparsa? Quando è capace di sorridere su di sé; quando conosce la relatività del proprio esserci; quando ha conosciuto l’asino in sé; quando è consapevole del proprio pensare, provare, agire.
L’identificazione non è una sciagura, è una opportunità: vedendomi identificato posso andare oltre. L’identificazione mi apre la porta sul vasto mondo del’essere.
Se sono identificato e non mi vedo non c’è problema, significa che non sono ancora maturo per andare oltre me; se sono identificato e mi vedo allora si apre un mondo sconfinato di esperienze che dall’identificazione mi condurranno, passo passo, all’essere.
L’identità è la nostra chance: quando ne vediamo il limite essa ci libera.
Concludendo: il problema non è nell’identificazione ma nel vederla, nello sviluppare consapevolezza. Se vediamo l’aderire all’identità abbiamo già fatto una parte importante del lavoro.
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L’importanza dell’identificazione e della disidentificazione
C’è identificazione quando attribuiamo a noi stessi un pensiero, un’emozione, un’azione.
Se non ci fosse identificazioni non si attiverebbero i processi esistenziali: la vita è un’immensa officina proprio perchè la persona è capace di dire: “Questo è mio!”
I processi attivati permettono di confrontarsi con il proprio limite di comprensione e di superarlo.
Mano a mano che la comprensione si amplia, la persona sente in sé che quel continuo appropriarsi della realtà genera spesso dolore, frustrazione, mancanza di senso: spinta dal disagio interiore comincia a mettere in dubbio la legittimità dell’attribuirsi ciò che accade e, nel tentativo di scoprire un’altra possibilità di lettura del proprio esistere, inizia il lungo cammino della disidentificazione.
Disidentificarsi è lasciare che un pensiero, un’emozione, un’azione siano solo fatti che accadono, non i propri fatti, solo fatti.
La capacità di superare l’identificazione, e di aprirsi alla realtà come semplice accadere, è fondamentale se si vuole scendere nell’intimo del vivere.
Siamo in presenza di un vero paradosso: scopriamo la vita solo quando non l’attribuiamo più a noi stessi!
Fino a quando esiste il “nostro” pensiero, il “nostro” bisogno, il “nostro” punto di vista non vediamo altro che le pareti della nostra officina, di quello che non abbiamo compreso: quando quel “nostro” scompare allora affiora ciò che è sempre stato lì, la semplice realtà che non è né nostra né dell’altro, semplicemente è.
Se la persona non fosse passata per l’identificazione non sarebbe giunta a scoprire il reale: se non avesse sperimentato il reale non potrebbe comprendere l’importanza dell’illusione, unica chiave al “ciò che è”.
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L’impatto delle parole, la fragilità e la sfida che ci attende
Ci sono persone che usano espressioni forti, dirette e si trovano a loro agio: per me non è così.
Per me la parola è una forza, la risultante di una pressione emotiva e di un portato concettuale: quando si impatta nel mio interiore genera effetti di varia natura, quando è dura è come il vento sulla sabbia, debbo chiudermi, proteggermi e aspettare che passi.
Credo che inevitabilmente tutti ci confrontiamo con parole e gesti, nostri o altrui, di forte impatto: non muovo una critica a questo, è un dato di realtà; sottolineo che lungo la via interiore ciò che ieri era considerato normale, oggi diviene da evitare; ciò che poteva essere fatto o detto in un’altra stagione, oggi è impraticabile.
La nostra ricettività verso ogni accadere cambia con il cambiare delle comprensioni e dell’ampliamento del sentire; questa è la ragione per cui, ad esempio, molte persone della via divengono vegetariane: come a loro risulta impraticabile cibarsi di un animale così ad altri, o in una stagione successiva, risulta difficile reggere il tono polemico, derisorio, aspro, irriverente, umiliante.
Ancora più a fondo: mentre un tempo potevamo girarci da un’altra parte quando vedevamo venire verso di noi un immigrato con la sua mercanzia, oggi lo andiamo ad incontrare.
Si osserverà che la persona di “ampio” sentire dovrebbe essere anche quella più stabile e meno vulnerabile al mondo: è una tesi discutibile, ad ampio sentire corrisponde ricettività altrettanto ampia, consapevolezza vivida delle implicazioni di ogni fatto e delle conseguenze che inevitabilmente genera.
Un sentire di quella natura coglie i processi, sa che essi appartengono ai protagonisti che li attuano e ne legge la portata formativa, sente in sé come fosse un sensore l’impatto dei fatti.
La persona della via non diviene un fungo, né un superuomo inattaccabile dai condizionamenti: diviene come una membrana sottile, fragile e vulnerabile esposta ai venti che può gestire perchè conosce e comprende la natura di quei fatti e il loro procedere.
Sono la conoscenza e la comprensione che ci permettono di non soccombere.
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Fare spazio dentro di sé
Semplicemente osservando l’affollamento di emozioni e pensieri.
Basta osservare? No, se c’è identificazione con il contenuto dell’affollamento non succede niente.
E’ necessario aver compreso che le emozioni e i pensieri sono vento che va, non sono né noi, né la nostra esistenza.
Se si ritiene di essere quel pensiero, quello persiste; se ci riscalda quella emozione, quella permane.
Per fare spazio dentro di sé è necessario essere abbastanza stanchi di sé, perlomeno di quel sé che in modo piacevole o spiacevole occupa tutto lo spazio.
E’ facile stancarsi delle proprie pesantezze, ma delle cose piacevoli non ci si stanca e qui cade l’asino: bisogna lasciare andare tutto, senza distinzione.
Lasciar andare significa, osservare, essere consapevoli, non curarsi del vento che va, di ciò che attraversa i corpi dell’essere.
Da questo “non curarsi” sorge lo spazio, silenzi tra parola e parola, emozione ed emozione, azione ed azione.
Silenzi, spazi, stare non condizionato.
L’immagine è tratta da: http://www.panoramio.com/photo/70519925
Ragliare in buone mani
Se avessi posato il mio lamento,
in meno consapevoli mani,
Eco di giudizio,
Avrebbe rintoccato.