evoluti

I piccoli fatti ci svelano nella nostra presunzione di essere evoluti

Ci piace considerarci evoluti. Siamo persone della via spirituale, sappiamo andare oltre l’egoità: così ce la raccontiamo.
Poi arriva una parola, un gesto, uno sguardo, un piccolo fatto e in noi si leva un’increspatura, il mare calmo della nostra rappresentazione si turba, il fatto ci colpisce, una piccola ferita s’apre.
In un attimo s’evidenzia ciò che non volevamo vedere e veniamo richiamati alla realtà dei fatti: residui più o meno ampi di egoità dichiarano in modo inequivocabile la loro presenza.
Ombre di vittimismo si profilano, accuse all’altro si abbozzano: rosari dell’identità conosciuti.
Presunzione di essere evoluti; presunzione di sapere, di conoscere, di aver compreso: basta un piccolo fatto e il re è nudo.
I piccoli fatti sono sempre generati dall’altro e solo nella relazione si presentano a noi: ecco perchè alla persona della via spirituale non serve ritirarsi dal mondo, non c’è possibilità di fuggire dai piccoli fatti, dalle minute relazioni, dalle stilettate nel ventre dell’egoità.
Non c’è possibilità di fuggire da sé.

Immagine da: http://is.gd/kY7bfn


 

Accettare la propria natura significa cambiare senza sosta: il cammino da ego ad amore

Accettarsi nel proprio limite è la condizione di fondo per non ritrovarsi a mendicare approvazione per tutta una vita.
Accettarsi non è affermare: “Sono così, non posso, non puoi, farci niente!”.
Questo lo afferma la persona che per pigrizia, per opportunismo, per limitatezza di sentire non coglie ciò che continuamente nell’intimo la spinge al mutamento.
Ciascuno di noi ha un dato corpo, un dato carattere, determinate disposizioni, abilità, incapacità: sono la dotazione che ci serve, che ci è utile e funzionale nel cammino dell’esistenza per comprendere ciò che al nostro sentire è necessario.
Se accogliamo la dotazione senza opporre resistenza, senza rifiutarci, senza lottare contro noi stessi, si apre uno spazio immenso. Quale?
Quello del vivere assecondando una spinta, una propulsione interiore che ci conduce nei giorni, negli anni ad imparare da ciò che viviamo.
Imparare cosa? Questioni interiori, questioni di fondo. La prima di tutte: conoscere il nostro egoismo e il nostro egocentrismo e, in vario grado, poterli superare.
Per cosa vive un umano? Per conoscere il proprio egoismo e superarlo.
Per imparare a dimenticarsi di sé.
Conosciuto il volto dell’ego nelle sue varie declinazioni, vista e incarnata la propria irrilevanza sorge una possibilità, quella di amare, che non si impara, ma che viene come dono, come fiore che germoglia nel deserto.

Immagine da: http://www.generazionevaselina.it/?tag=nietzsche


Non sappiamo niente dell’altro

Ci piace parlare, giudicare; siamo dei gradassi: “Tu sei così, non sei cosà!” Farfuglionate.
La realtà, molto semplice, è che siamo chiusi nel piccolo stazzo della nostra egoità e da quello osserviamo il mondo e abbiamo la pretesa di comprenderlo, di saperlo.
La comprensione della realtà è inversamente proporzionale al tasso di egocentrismo che ci condiziona: più siamo liberi da noi, più vediamo e viviamo il reale.
Più siamo ego-centrati, più vediamo solo il nostro ombelico e abbiamo la pretesa di sapere.
Più conosciamo, più chiniamo la testa consapevoli della nostra ignoranza.
Più è limitato il nostro sentire, più la nostra pretesa si estende sul nostro partner, sui nostri figli, sui nostri dipendenti, sui nostri datori di lavoro, sui nostri vicini di casa.
Più il sentire si amplia, più taciamo.
Il giudizio che nasce dall’ignoranza ha una sua ragione d’essere: ci definisce. Parlando dell’altro, definendolo, definiamo noi stessi.
Quando il sentire matura non abbiamo più alcuna necessità di definirci; è un bisogno, una pratica che in noi muore: non dovendo definire noi, non dobbiamo definire nessun altro, non né abbiamo l’esigenza.
Allora sorge l’esperienza della compassione: per noi, per l’altro, per tutto.

Immagine di Michelangelo Pistoletto, 1980, da http://www.letteraturatattile.it/?p=1257


La resistenza al cambiamento interiore

Scrive Antonella: “Se una persona fa resistenza al passaggio dei propri vissuti, ostacolando la loro penetrazione in profondità, mi viene da pensare che  ha paura della trasformazione  perché con essa perde alcune sicurezze consolidate e, pur acquisendone delle nuove, passa attraverso una fase di instabilità che può farle paura e quindi crea una resistenza.
Mi chiedo, esiste una “leva”, un input, quale atteggiamento si può adottare affinché si abbandoni la rigidità e ci si lasci modificare, trasformare dalle esperienze e dalle nuove consapevolezze vissute?”
Quando una persona cambia comportamenti, modi d’essere, di pensare, di leggere la realtà?
Quando in essa è maturato un sentire adeguato che genera intenzioni, pensieri e comportamenti diversi e corrispondenti al nuovo sentire acquisito.
Facciamo un esempio: se le mie esperienze mi hanno portato ad acquisire un sentire di grado 10, con esso mi misurerò – e con le esperienze che esso può generare – fino a quando quel sentire non sarà completamente acquisito, compreso, stabilizzato.
Le esperienze del grado 10 strutturano quel grado e preparano l’acquisizione del grado successivo, l’11.
I cambiamenti nella persona avvengono continuamente ma divengono visibili, tangibili, confermati dall’azione solo quando il sentire si amplia.
Si può accelerare il processo della trasformazione del sentire?
Conoscendo la natura del proprio operare, pensare, intendere.
La conoscenza della natura delle spinte che ci muovono; la consapevolezza delle resistenze e delle paure, la gestione consapevole di esse; il non sottrarsi alle esperienze della vita, la sana disponibilità e curiosità verso esse facilitano il processo della comprensione che determina il maturare di un sentire più ampio.
Se la resistenza al cambiamento è nell’altro da sé, ciò che possiamo fare è cambiare noi stessi e testimoniare in modo discreto, molto discreto, il nostro cambiamento attraverso le nostre intenzioni, i nostri pensieri, le nostre azioni.

Immagine da: http://is.gd/QLAw7k


Raimon Panikkar, l’acqua della goccia, la creazione illusoria della realtà

Raimon usa la metafora antica della goccia d’acqua e la illumina con il suo bel sorriso che, da solo, racconta molte cose.
Scrivo questo post per porre domande, più che altro.
Se ciò che è rilevante è l’acqua, ovvero la radice comune a ciò che chiamiamo esistente, questo come si forma, come assume la realtà forma, consistenza, moto?
Perché Panikkar, e con lui tutti i ricercatori dell’interiore di tutti i tempi, afferma che lo scomparire è niente anche se a noi sembra tanto, così importante sia la goccia che il suo dissolversi?
Perché il processo da goccia ad acqua è ineluttabile?
Le risposte a queste domande non sono poi così difficili: esistono fonti autorevoli che dalla dimensione della coscienza parlano di questo argomentando secondo logiche coerenti, non facendo ricorso agli argomenti della mistica, ma giungendo alle stesse conclusioni di questa.
Ma, dal punto di vista di chi scrive, la questione non è questa:
posso io, persona immersa nel reale, sperimentarne la natura?
La risposta è si, anche senza la conoscenza che deriva dal sapere, attraverso la conoscenza che sorge dallo sperimentare.
E’ sperimentabile la natura della goccia e, guardando nella sua profondità, è sperimentabile la natura dell’acqua: sperimentate entrambe, si configura nell’interiore la chiarezza dell’inconsistenza della goccia.
Successivamente può essere utile una qualche strutturazione cognitiva dello sperimentato.
Questa esperienza della goccia e dell’acqua, è esperienza per pochi?
No è esperienza di tutti, approfondita in grado differente da ciascuno.

Immagine di Marcus Reygels, da: http://goo.gl/fy5Ee4