Non lamentarsi più, non lamentarsi mai

E’ una lotta tra sé e sé: di fronte alle difficoltà, agli inciampi, alle innumerevoli e imprevedibili variabili che nel quotidiano si presentano, la mente/identità si piega su di sé e inizia il rosario della vittima.
Va vista in quel ripiegamento, non va assecondata, va lasciata cadere la disposizione che va generandosi.
Va lasciata cadere e basta, subito, senza scuse. Sempre.
Se c’è un problema lo risolvi, ma non ti lamenti.
Se nella vita qualcosa si è messo di traverso, lo affronti, lo risolvi se puoi, altrimenti lo tieni. Senza aggiunte.
Da questa inclemenza con “la vittima in sé” nasce una nuova forza, una determinazione capace di guardare le situazioni per quel che sono, possibilità, e di trovare le forze per affrontarle.
Lamentarsi è indebolirsi, infiacchirsi; tacere e affrontare ciò che si presenta ci rende degni della nostra umanità.
Perché tutto questo? Perché ciò che si presenta all’esperienza è dalla nostra coscienza generato, non da altro, non da altri.

Immagine tratta da: http://goo.gl/XQNgpO


Saper stare nelle situazioni indipendentemente da ciò che producono in noi in quel momento

Qui trovate le interessantissime osservazioni di Roberto D’E. e di Silvano sulla loro esperienza dell’ultimo intensivo di formazione e contemplazione a Fonte Avellana.
E’ possibile vivere ore e giorni aldilà del giudizio e dell’aspettativa? Oltre la frustrazione? Oltre la fatica? Senza lasciarsi condizionare da ciò che nell’ambiente muta, si avvicenda, si genera?
E’ possibile risiedere così tanto nello stare, nella consapevolezza che la vita accade e lo fa secondo la sua intenzione che non ha bisogno di un nostro commento, di un ricamo, di un’aggiunta?
E’ possibile abitare un’officina esistenziale sapendo che ogni respiro ci trasformerà, anche se i polmoni soffrono nell’inalarlo?
E’ possibile sperimentare la vita come insegnante, l’altro come maestro, le situazioni come le mani che ci modellano facendoci argilla?
I nostri intensivi sono momenti di vita intensa, radicale e parlano all’interiore di ciascuno, lo provocano, lo scuotono, lo logorano, lo sostengono, lo accompagnano.
I nostri intensivi di formazione e contemplazione non sono e non danno consolazioni, sono anni luce lontani dal circo dello spirituale a consumo.
Potrei paragonarli alla vita di coppia,  a quella intensità, complicità, tensione esistenziale: se i partner, in una coppia, cercano solo il benessere e il piacere durano poco, la vita di coppia è un processo esistenziale di lungo corso e di intensa pregnanza.
La vita comunitaria, le giornate di un intensivo hanno la stessa natura profonda, la stessa pregnanza esistenziale: solo una persona che non ha compreso ciò che ha vissuto può dire:”Mi è piaciuto, non mi è piaciuto. Sono stato bene, sono stato male”.
Chi è davvero entrato nel ventre dell’intensivo ha visto se stesso, i suoi molti volti e non sempre si è sentito rassicurato; ha visto la gioia e la leggerezza, la pesantezza e il logoramento; ha visto la solitudine e la comunione dei sentite; ha visto la vita nella sua radicalità e ha imparato, ha dovuto imparare se voleva restare, ad andare oltre il giudizio e l’aspettativa, oltre il lamento, oltre il vittimismo, oltre tutto ciò che lo definisce come soggetto personale.
La natura degli intensivi è tale che il partecipante è portato passo passo, a volte in modo docile, altre in mezzo alle resistenze, ad andare oltre di sé, a dimenticarsi di sé.
C’è fatica? E’ un fatto. C’è leggerezza? E’ un fatto. C’è rifiuto? E’ un fatto. C’è fusione? E’ un fatto.
Chi in questo atteggiamento risiede sa che la propria vita è dentro ad un vortice di trasformazione della cui portata non può dire, ma avverte chiaramente che nulla può rimanere come è stato, ogni aspetto dell’essere proprio viene scarnificato, ricostruito, rimodulato, fatto nuovo dalle esperienze.


Contemplazione: la nostra umanità è una porta

Ore e giorni prima di un intensivo, osservatorio privilegiato dell’umano e delle sue reazioni.
Con gli occhi dell’umano, con lo stare delle contemplazione viene osservato ciò che nell’interiore sorge, ciò che nell’ambiente si manifesta senza che interiore ed esteriore vivano alcuna separazione.
1- La scomparsa di qualunque atteggiamento spirituale:
– è atteggiamento spirituale l’ammantarsi di speciale;
– il connettersi ad un archetipo fatto di atmosfere, gesti, stati: una sorta di rappresentazione rituale, di comprensione di sé dentro ad un paradigma.
C’è stato nel tempo, ora non se ne vede più traccia.
2- La consapevolezza che l’umano è la porta che mette consapevolmente in rapporto/relazione più mondi di sentire:
– coscienza ed umano vengono vissuti nella loro inscindibilità;
– umano non significa identità, significa la stanza al piano terra di un palazzo;
– totale inconsistenza della danza identitaria perché non sorretta da identificazione;
– nessuno stato particolare riconducibile alla sfera mistica;
– prevalenza della attitudine/disposizione giocosa;
– piena gratuità.
3- Lucida consapevolezza che non c’è un attore in scena, che l’intero gioco è affidato ad altro:
– assenza del protagonista e del sentirsi in causa come tale;
– assenza di scopo che non sia il servizio all’accadere;
– fiducia senza condizione che ciò che deve accadere accadrà.
L’umano è una stanza senza porta e senza finestra; il palazzo è fatto di stanze senza porte e senza finestre:
l’aria fresca dell’alba le attraversa e porta con sé il canto degli usignoli.

Immagine da: http://goo.gl/ZYaCZT


Lo sguardo parziale, la visione d’insieme: da ego ad amore

Più lo sguardo è ristretto, più l’orizzonte che ci riguarda è quello personale, più la difesa del nostro punto di vista è insistita, più ci muoviamo nel limitato spazio della nostra egoità.
Come si può comprendere quando la nostra identità si è fatta meno limitante?
Osservando l’ampiezza del nostro sguardo, del nostro interesse, del nostro slancio:
– quando cominciamo ad occuparci dell’altro da noi;
– quando cominciano ad interessarci i destini degli altri, persone o popoli che siano;
– quando in noi sorge la responsabilità consapevole delle nostre intenzioni, dei nostri pensieri, delle nostre azioni;
– quando cominciamo a considerare la ricaduta del nostro essere sull’altro da noi, sull’ambiente.
Quando incominciamo a comprendere cosa sia l’esperienza del “prendersi cura”, allora la nostra vita diviene testimonianza concreta di un sentire che si è ampliato, di un passo compiuto nella direzione dell’amore che si lascia alle spalle porzioni di egoità.

Immagine da: http://goo.gl/pou37B


 

L’importanza dei si e dei no ricordando che al centro c’è la possibilità di comprendere

Un’amica lamenta una parente che, pur non pagando l’affitto, al sette del mese ha già finito lo stipendio e bussa chiedendo soldi. La situazione è reiterata e per questo più faticosa.
Molti di noi hanno vissuto, o vivono, situazioni di questo genere e si sentono giustamente intrappolati.
Non voglio discutere di cosa vada fatto in simili situazioni, ma della sfida che si apre.
Sappiamo che troppi si creano nell’altro, a volte, un malcostume interiore; sappiamo che i no sono dolorosi e vanno motivati; ma per noi, la decisione da prendere che cosa comporta?
Che si dica sì o si dica no, dobbiamo necessariamente interrogarci sulla nostra motivazione, su quello che dal nostro punto di vista è il bene dell’altro, sul rapporto stesso con l’altro.
In questa interrogazione possiamo vedere i nostri egoismi, le nostre pretese e giudizi, le nostre arroganze e le nostre sudditanze: possiamo vedere un mondo, il nostro prima che quello dell’altro.
Alla fine, che noi si sia detto si o no, comunque avremo imparato dal processo vissuto.
Che cosa avremo imparato? Ad osservarci, ad interrogarci, a decentrare il punto di vista, a gestire la rabbia e la frustrazione, ad imporci, a piegarci.
Mille aspetti avremo visto di noi e dell’altro e, di certo, a processo terminato saremo diversi.
Sarà finalmente cambiata la situazione? Non necessariamente, dipende da molti fattori il principale dei quali è: abbiamo finito di apprendere da quella scena?

Immagine da:http://goo.gl/JhSif6