Dice Samuele nel suo commento a Raggiungere la liberazione: Essere naturale quindi inteso come non essere condizionati dalla propria identità. Però è l’identità stessa che ci permette di vivere le esperienze. Se la coscienza ha scelto una determinata identità per fare le sue esperienze ed accrescere il proprio sentire, non sembrerebbe giusto lasciare che quella identità sia libera di ingombrare la scena e fare la sua parte? Non appare coerente rinunciare o soffocare l’identità; forse è solo questione di non essere in balia della stessa, ma come puoi riuscire al contempo ad assecondarla e a non esserne in balia?
Questa espressione è la chiave: “Però è l’identità stessa che ci permette di vivere le esperienze”. L’identità non è un corpo, non è un veicolo, la coscienza non edifica una identità e poi se ne serve.
La coscienza crea i suoi corpi transitori che le permettono di proiettare e dispiegare il compreso e il non compreso nel tempo e nello spazio, nella vita.
identità
Oltre identità/coscienza
Chiede Marco: “Mi sembra che quello che dici nel post ‘Fin quando tutto parla di noi?’ abbia a che fare con il tema dell’ultimo Essenziale, che era, come tu stesso hai detto, uno stimolo ad andare ancora più in profondità.
Il riconoscere ciò che si presenta come qualcosa che parla di noi è già un passo avanti rispetto al lamentarsi e all’attribuire agli altri le nostre reazioni, ma evidentemente non ci si può fermare lì.
Finché siamo noi il punto di arrivo di tutto, l’ego comunque trova pane per i suoi denti.
All’Essenziale ci hai fatto notare come facilmente l’ego possa nascondersi anche dietro i gesti, almeno apparentemente, più altruistici.
Il protagonismo, l’essere comunque al centro di una realtà sentita come propria è sempre dietro l’angolo.
L’immagine falsa
Che immagine edifica dentro di sé il discepolo del maestro? E il maestro del discepolo?
E quale immagine costruisce l’operaio del proprio datore di lavoro, e viceversa?
E quella che i partner edificano reciprocamente l’uno dell’altra?
Pure finzioni, inconsistenze, irrealtà, narrati fantasiosi e funzionali ai propri processi esistenziali che poco, o nulla, hanno a che fare con la realtà dell’altro.
Il tasso di dolore nella via spirituale
Chiede Maya: Spesso osservando le persone che non si fanno troppe domande e che sembrano molto inconsapevoli mi sembra che facciano una vita più serena e meno dolorosa della mia. Vanno al lavoro e fanno quello che devono fare e basta. Magari si lamentano, ma sembra un lamento così tanto per fare due chiacchiere. Perché chi cerca invece soffre così tanto? O è il contrario, chi soffre è “costretto” a cercare?
Non sappiamo mai cosa c’è nell’intimo del nostro prossimo, sappiamo invece che nella cosiddetta normalità i rapporti avvengono all’ombra di maschere più o meno velanti.
In ogni persona avvengono processi di conoscenza-consapevolezza-comprensione.
Alcune incarnazioni sono caratterizzate da una maggiore intensità, in genere una incarnazione intensa si alterna ad una meno intensa.
Allo stesso modo ci sono stagioni, in una vita, in cui la macerazione è maggiore: una persona attorno ai 40 anni è certamente immersa in un passaggio esistenziale rilevante.
Verso la libertà interiore
Le domande di Maya (a partire dalla lettura del libro L’essenziale).
Se non c’è l’agente, non c’è la realtà?
Chi è l’agente? La coscienza? L’identità?
Se non c’è identità – il soggetto che si attribuisce l’accadere – c’è solo l’accadere senza attribuzione, pura neutralità (così come è possibile all’umano). E’ la vita che vive l’iniziato/a, colui/ei che è giunto alla fine del proprio cammino incarnativo. La realtà è presente e si manifesta con le logiche del divenire, ma non c’è un soggetto che dice: “Questo è mio!”
Va notato che finché c’è vita incarnata c’è sempre un tasso di identità, magari molto ridotto, per la ragione molto semplice che essendoci i veicoli mentale, astrale e fisico, comunque questi generano un’immagine di sé. Che l’iniziato/illuminato non abbia alcun grado di identità, è pura illusione e appartiene alla mitologia dello spirituale.
La relazione tra sentire di coscienza
Vorrei sviluppare quanto emerso nell’Essenziale di ieri.
Le menti-identità leggono i frammenti della realtà, per loro natura non colgono l’insieme ma il particolare e sono mosse da un bisogno di presenza, di manifestazione, di relazione con le loro pari.
Hanno, giustamente, l’esigenza di calare un impulso, una conoscenza, un assaggio di comprensione nella loro vita, di incarnarli, di trovare il modo per farli divenire vita nel quotidiano.
Sentire, non-azione, silenzio
La prevalenza consapevole del sentire genera non solo la condizione di non-azione, ma anche un sostanziale ammutolire.
All’ampliarsi del sentire corrisponde ineluttabilmente un affievolirsi dell’esercizio della volontà, un venire condotti nell’azione e nella presenza e un altrettanto ineluttabile affermarsi del senso della propria marginalità nel mondo, che induce alla discrezione, al fare un passo indietro, al tacere tutte le volte che la vita non ci indica diversamente, e anche quando sembra non ci sia alternativa al dover dire, la nostra parola si fa prudente e discreta.
Essere quel che si è? E cosa si è?
Ho notato che queste parole di Vittorio Sgarbi hanno trovato numerosi consensi anche tra persone che stimo: questo mi sorprende e provo ad avviare una riflessione.
Nella sostanza Sgarbi dice: “Siamo fino in fondo noi stessi! Tu hai la tua religione e la tua cultura, io la mia: viviamole entrambi fino in fondo senza timore e senza reticenze. Piuttosto che rinunciare a parti di noi, come impone l’integrazione, coltiviamo la disintegrazione..”.
Non voglio discutere degli aspetti sociologici della questione, ma di quelli esistenziali.
Identità e coscienza sono indivisibili
Essendo l’intera vita dell’umano condizionata dalla logica duale, è facile cadere nella trappola della mente che tutto divide.
Questo vale anche in ambito spirituale e si specchia nel dualismo coscienza/identità, dove la prima è considerata la realtà vera e la seconda quella ingannevole, effimera, irreale.
Vivere fino in fondo: non costruire sulla sabbia
Una mente intende per vivere fino in fondo avere motivi di eccitazione.
Un corpo emozionale si ritiene vivo quando è attraversato da continue sollecitazioni sensoriali ed emotive.
Una identità si sente profondamente viva quando la vita le offre opportunità e conferme, gratificazioni, prove edificanti, situazioni anche dure ma comunque interpretate come necessarie ed evolutive.
In altri termini, l’identità avverte che la vita la costituisce e le conferisce senso quando c’è identificazione con ciò che accade.
Senza identificazione, l’identità si sente morire e la vita diviene vuota ed inconsistente.
La coscienza crea la realtà
Per quanto ci sembri irreale, non siamo noi, piccoli portatori di nome, a creare la realtà.
Noi stessi siamo creati attimo dopo attimo, fotogramma dopo fotogramma, dal sentire di coscienza.
Tutte le scene che viviamo, tutti gli affetti, tutti i progetti, tutte le mansioni sono generate dal sentire.
Quale realtà crea la coscienza? Quella possibile, compatibilmente con le comprensioni acquisite e con quelle da acquisire.
Siamo dunque solo burattini? No, se comprendiamo che identità e coscienza sono unità inscindibile.
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