Un caro amico, e una colonna di questo cammino, mi faceva notare quanto pesante gli rimane reggere il limite di alcuni compagni di viaggio che in certi frangenti si mostra in tutta la sua portata.
Come dargli torto? Non gli darò torto, è così, è dura. Ma perché è dura? Per un complesso di ragioni.
1- Perché in noi, perlomeno in quelli che sono più a contatto con la propria natura, è evidente che tutti procediamo insieme e, per farlo, abbiamo bisogno che ciascuno faccia la propria parte. Se tu non fai la tua, non solo a me tocca anche la tua, ma l’organismo, qualunque esso sia, viene ostacolato, rallentato e appesantito nel suo procedere.
l’altro
Il tentativo di piegare l’altro a sé
Il tentativo di piegare l’altro a sé: le varie forme di seduzione operano questo. Molta parte del sistema educativo e della stessa formazione spirituale e religiosa, manipola l’altro con l’intento di condurlo nel nostro mondo, là dove siamo a nostro agio e riteniamo sia giusto essere per noi e magari anche per l’altro. Perché, di certo, dove siamo noi è giusto essere.
Accade nel rapporto di coppia, nella relazione con i figli: direi che accade sempre fino a quando non abbiamo compreso la sottigliezza del meccanismo, i suoi mille travestimenti, la natura profonda del nostro condizionamento che riverberiamo sull’altro.
Le declinazioni dell’attenzione all’altro
Diceva ieri un’amica: “La mia generazione ha fatto del male ai figli coprendogli troppo le spalle!”
Condivido l’espressione e la sostanza. Ci sembrava di fare bene garantendogli le condizioni per l’ingresso nel mondo, e certamente abbiamo fatto bene. Quando abbiamo sbagliato, dunque? Quando abbiamo procrastinato troppo a lungo il sostegno quasi senza condizioni.
Se per troppo tempo ti appoggio, non ti stimolo all’autonomia e se, infine, non ti tolgo il sostegno, tu non sviluppi le forze interiori necessarie alla tua rappresentazione.
L’amore, ad un certo punto, deve divenire abbandono relativo: proprio perché ti voglio bene e voglio il tuo bene, da un certo punto in poi devi fare da solo e, l’eventuale mio aiuto futuro, sarà condizionato.
Accettare di stare in relazione
Dice Nicoletta nel commento al post Oltre la paura, il gioco: “A lui pensa la vita”. Forse la vita pensa attraverso noi? Cioè voglio dire, noi forse siamo strumenti affinché la vita possa aiutare..
Certamente, siamo strumenti. In sé non esiste una vita che governa e preordina, esistono semmai leggi che indirizzano le vite in una direzione o in un’altra.
Non c’è un Assoluto che crea le vite, semmai ci sono le vite espressione dei molti gradi del sentire assoluto.
Ciascuna vita obbedisce allo scopo per cui una coscienza l’ha generata: la vita di quel figlio, di quel partner, la vita nostra hanno un’origine, una direzione, uno scopo e un’epilogo nel sentire di coscienza inscritti.
Natura delle relazioni
Il lettore A e il lettore B leggono lo stesso libro*; prima questione: siamo certi che leggano le stesse pagine?
Seconda questione: se ciascun capitolo, e a volte ciascun paragrafo del libro, contempla non solo lo sviluppo della storia principale, ma anche un certo numero di varianti di quella storia, quali varianti starà leggendo il lettore A e quali il lettore B?
Se il libro è la narrazione della loro relazione, quando i due sono veramente ed effettivamente in relazione?
Solo quando leggono la stessa pagina e la stessa variante di paragrafo, o di capitolo. Altrimenti i due sono in relazione ma, fondamentalmente, ciascuno vive per conto proprio e l’altro è nella scena della propria vita solo ad uso e consumo degli apprendimenti necessari.
I due sono in relazione effettiva solo nella condivisione del sentire: è il sentire che stabilisce l’effettiva presenza di contatto e comunione, che supera la semplice rappresentazione di due che vivono assieme e condividono scene e niente altro, per affermare la comunione realizzata.
Mitigare la soggettività dell’interpretazione
Ogni fatto che accade nella relazione è interpretato dalle identità coinvolte e ognuna di esse legge i fatti alla luce delle proprie aspettative, del proprio personale apparato giudicante, delle comprensioni conseguite e da conseguire.
Questa lettura irrimediabilmente soggettiva dei fatti è all’origine di ogni conflitto e di ogni difficoltà nelle relazioni.
Partendo dal presupposto che il film che proiettiamo e percepiamo è comunque soggettivo fino alla fine dei nostri giorni umani, possiamo cercare di mitigare questa soggettività con l’intento di ridurre l’incomprensione che accompagna senza sosta le nostre relazioni.
La consapevolezza della relatività del nostro punto di vista, è il primo passo.
Fin quando tutto parla di noi?
Tutto parla di noi e ci svela, ma fino a quando?
Finché in ciò che viene scorgiamo un segno, un simbolo intelligibile.
Viene un momento in cui ciò che viene è muto: non svela se non ciò che è già stato svelato, non parla se non di ciò che è già stato udito.
Il parlare e l’agire degli altri sempre ci coglie e ci interroga ma, a volte, o ad un certo punto, quell’impatto è lieve e subito si smorza.
Quella lezione l’abbiamo appresa: una parola viene e va, un fatto si presenta e scompare, il messaggio non è più per noi.
Il postino passa, mostra le lettere ma non sono per noi.
Il limite nostro che libera l’altro
Viviamo i rapporti e le persone come fossero cosa nostra. Interpretiamo il nostro e l’altrui limite come un ostacolo, un accidente che si insinua e compromette i rapporti.
Se le persone e i rapporti non sono nostri, ma occasioni di esperienza, consapevolezza, comprensione che la vita ci mette a disposizione, allora il limite che noi e l’altro portiamo non è un accidente, ma una possibilità.
Per che cosa?
Per generare chiarezza, per facilitare il discernimento: sono qui davanti a te e non ti porto una maschera e non recito pantomime, ti porto il compreso e il non compreso nell’immediatezza e nella semplicità di cui sono capace.