Il processo di appropriazione

Affermare che tutta la realtà mi riguarda non è come dire che tutto è mio.
Tutta la realtà mi svela e riflette i miei processi interiori, quindi mi riguarda; nello stesso tempo, tutta la realtà non è mia, non mi appartiene, è una sequenza di fatti che la mia interpretazione unisce conferendogli il senso a me funzionale.
La realtà mi parla, ma non mi appartiene: ahimè, ci comportiamo come se la realtà fosse cosa nostra e invece mai lo è.
La realtà è fatto che accade e che sia generata dal nostro sentire, non la rende nostra.
Sembra un assurdo: come, è generata dal mio sentire e non è mia?
Il problema è in quel pronome possessivo.
Fino ad un certo punto del nostro cammino tutto è nostro; da un certo punto in poi prendiamo invece le distanze da quel processo di appropriazione e iniziamo a considerare i fatti nei quali siamo immersi come fatti.

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Quando vediamo l’altro

In assenza di mente l’altro compare, solo allora lo vediamo per quello che è.
Prima, in presenza di mente, non abbiamo visto lui, ma il nostro racconto su di lui.
Quando la mente tace, l’altro compare e noi non possiamo dire di conoscerlo allora, perché quella è una pretesa della mente: in assenza di mente non c’è conoscere o non conoscere, c’è solo la realtà.

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La famiglia, un’officina esistenziale

Puntuali ritornano.
La famiglia naturale e le altre, definite da loro ideologiche, che minerebbero quella naturale. Perché la diversità dell’altro, e il suo avere gli stessi miei diritti dovrebbe essere per me un problema, la mia mente limitata non lo comprende.
Gli altri dicono che è l’amore che crea la famiglia e quindi dove c’è amore, c’è famiglia: condivisibile, ma staremmo un po’ più bassi e diremmo che dove c’è affetto e rispetto, c’è famiglia.
Perché, la famiglia cos’è?

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realtà soggettiva

La realtà soggettiva, la realtà oggettiva

Vi invito vivamente a leggere e a riflettere su questa parole che giungono da una fonte quantomai autorevole, il Cerchio Firenze 77: qui potete scaricare l’intero testo in pdf.

FRANCOIS – Degli altri voi non vedete la realtà del loro essere, ma vedete quello che appare. Ciò significa che vedete, al massimo, quello che gli altri mostrano di sé.
Non solo, ma anche l’immagine che gli altri danno dl se stessi può essere da voi distorta, può essere esaltata o peggiorata.
Così che quando vi innamorate di qualcuno, vi innamorate di una immagine. Chissà se il vostro innamoramento potrebbe persistere se di chi amate conosceste non l’immagine, ma la realtà.

DALI – Il fatto che gli altri vi mostrano solo un’immagine, e non la realtà, è talmente vero che si può dire sia una pura coincidenza che, talvolta, le intenzioni degli altri corrispondano alle intenzioni che voi credete che gli altri abbiano.
Il più delle volte, invece, voi attribuite agli altri intenzioni che gli altri non hanno; oppure non vedete le loro vere intenzioni e su quello che voi pensate che gli altri siano, sull’immagine che di essi vi siete fatti, costruite la vostra relazione con loro, il vostro mondo. Non crediate che quello che io dico si riferisca a casi o persone limite: è cosa di tutti e di tutti i giorni.

KEMPIS – Quindi, gli altri non sono importanti per voi a condizione che riusciate a cogliere la loro vera realtà, il loro vero essere; ma sono importanti per le reazioni che in voi riescono a suscitare; e le suscitano solo se voi siete sensibili a quegli stimoli che essi volontariamente o involontariamente vi inviano.

DALI – Perciò gli altri sono per voi come una sorta di specchio; essi possono su voi solo ciò che voi permettete che possano. Ma non “permettere ” nel senso di ” concedere “, cioè come colui che ha un’autorità e che accondiscende a qualche richiesta; ma ” permettere ” nel senso di lasciare che gli altri abbiano presa su voi, essere in loro balìa; che poi, invece, è spesso essere in balia della propria immaginazione e della propria debolezza.

KEMPIS – Gli altri, per voi, non sono tanto creature reali quanto immagini costruite dalla vostra mente, spesso animate dalla vostra immaginazione. Ma sono proprio quelle immagini e proprio quel processo che le crea, che fa sì ch’esse meglio si adattino ai vostri bisogni evolutivi, che rende le relazioni degli uomini altamente produttive ai fini della maturazione della coscienza individuale. […]

CF77. Estratto dal libro “le Grandi verità ricercate dall’uomo” – Edizioni Mediterranee.
Tratto da: http://is.gd/R0WhfL

La differenza tra “il prendersi cura” e il “fare il necessario”

La differenza è molto grande. Fare il necessario significa rispondere ad uno stimolo, ad un bisogno, ad un comando e provvedere nei limiti ristretti di ciò che si ritiene “necessario”.
La situazione in sé viene isolata dal contesto, da ciò che la precede, da ciò che la contorna, da ciò che le consegue e ci si limita appunto al necessario, a quello che si considera tale.
Nella sostanza, detto in termini un po’ brutali, molto spesso facciamo il minimo indispensabile.
Il prendersi cura implica un atteggiamento radicalmente diverso: la scena viene colta nel suo insieme, l’azione è contestualizzata e tiene conto dei molteplici fattori in gioco e più è ampia la nostra capacità di valutare le implicazioni e le correlazioni, più l’intervento diviene efficace, duraturo, gratificante per chi lo attua e per chi ne beneficia.
Perché così spesso facciamo il minimo? Per egoismo, per pigrizia, per negligenza ma, soprattutto, perchè non abbiamo ancora compreso che solo dalla disposizione accudente sorgono l’appagamento di senso e la gioia profonda della gratuità e dell’esercizio di essa.

Immagine da http://goo.gl/bH8oTf


 

Non sappiamo niente dell’altro

Ci piace parlare, giudicare; siamo dei gradassi: “Tu sei così, non sei cosà!” Farfuglionate.
La realtà, molto semplice, è che siamo chiusi nel piccolo stazzo della nostra egoità e da quello osserviamo il mondo e abbiamo la pretesa di comprenderlo, di saperlo.
La comprensione della realtà è inversamente proporzionale al tasso di egocentrismo che ci condiziona: più siamo liberi da noi, più vediamo e viviamo il reale.
Più siamo ego-centrati, più vediamo solo il nostro ombelico e abbiamo la pretesa di sapere.
Più conosciamo, più chiniamo la testa consapevoli della nostra ignoranza.
Più è limitato il nostro sentire, più la nostra pretesa si estende sul nostro partner, sui nostri figli, sui nostri dipendenti, sui nostri datori di lavoro, sui nostri vicini di casa.
Più il sentire si amplia, più taciamo.
Il giudizio che nasce dall’ignoranza ha una sua ragione d’essere: ci definisce. Parlando dell’altro, definendolo, definiamo noi stessi.
Quando il sentire matura non abbiamo più alcuna necessità di definirci; è un bisogno, una pratica che in noi muore: non dovendo definire noi, non dobbiamo definire nessun altro, non né abbiamo l’esigenza.
Allora sorge l’esperienza della compassione: per noi, per l’altro, per tutto.

Immagine di Michelangelo Pistoletto, 1980, da http://www.letteraturatattile.it/?p=1257


L’importanza dei si e dei no ricordando che al centro c’è la possibilità di comprendere

Un’amica lamenta una parente che, pur non pagando l’affitto, al sette del mese ha già finito lo stipendio e bussa chiedendo soldi. La situazione è reiterata e per questo più faticosa.
Molti di noi hanno vissuto, o vivono, situazioni di questo genere e si sentono giustamente intrappolati.
Non voglio discutere di cosa vada fatto in simili situazioni, ma della sfida che si apre.
Sappiamo che troppi si creano nell’altro, a volte, un malcostume interiore; sappiamo che i no sono dolorosi e vanno motivati; ma per noi, la decisione da prendere che cosa comporta?
Che si dica sì o si dica no, dobbiamo necessariamente interrogarci sulla nostra motivazione, su quello che dal nostro punto di vista è il bene dell’altro, sul rapporto stesso con l’altro.
In questa interrogazione possiamo vedere i nostri egoismi, le nostre pretese e giudizi, le nostre arroganze e le nostre sudditanze: possiamo vedere un mondo, il nostro prima che quello dell’altro.
Alla fine, che noi si sia detto si o no, comunque avremo imparato dal processo vissuto.
Che cosa avremo imparato? Ad osservarci, ad interrogarci, a decentrare il punto di vista, a gestire la rabbia e la frustrazione, ad imporci, a piegarci.
Mille aspetti avremo visto di noi e dell’altro e, di certo, a processo terminato saremo diversi.
Sarà finalmente cambiata la situazione? Non necessariamente, dipende da molti fattori il principale dei quali è: abbiamo finito di apprendere da quella scena?

Immagine da:http://goo.gl/JhSif6


Cambiando noi, cambia tutta la realtà attorno

A volte la situazione ambientale nella quale siamo inseriti diventa un alibi: “Non posso fare questa esperienza, lui non capisce e non approva!”.
Quante volte ho sentito questa frase e condiviso una difficoltà che era certamente oggettiva, ma che portava alla luce una sfida che la persona non vedeva chiaramente?
In famiglia, sul lavoro, nella società in genere esistono situazioni che complicano il nostro cammino, ma nessuna di esse è mai senza sbocco: bisogna comprendere che cosa la situazione di difficoltà cerca di insegnarci.
Che l’ostacolo sia rappresentato da un partner, da un figlio, da un datore di lavoro o da un subalterno, la questione è sempre la stessa: quale forza interiore, quale disposizione sta cercando di suscitare in me la tua opposizione, la tua resistenza, la tua ottusità?
Essendo lo svolgersi del film della nostra vita prettamente soggettivo, la questione che blocca un certo nostro processo non va mai cercata fuori di noi, ma sempre in qualcosa che ancora non abbiamo manifestato abbastanza, in quel diritto che non abbiamo saputo far valere, in quella determinazione ad essere ancora troppo incerta, in quella capacità di rompere gli schemi che non riusciamo a sostenere.
Di questo parleremo durante il gruppo di approfondimento di sabato 28 giugno, all’Eremo dal silenzio di San Costanzo (PU).
Alle ore 15,30.

Immagine da: http://goo.gl/20Jf8X