La realtà soggettiva

Se ricordassimo che l’interpretazione della realtà che generiamo
e siamo chiamati a vivere, è quanto di più soggettivo, ci risparmie-
remmo non poco dolore.
L’unico riferimento che abbiamo, l’unico dato reale, è la nostra reazione interiore.

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Sull’intenzione dell’altro

Da Alberto: “Quant’è importante riuscire a credere nella “buona fede” della persona che si ha davanti?”
Una lettura delle intenzioni di fondo dell’altro è senz’altro necessaria per poter discernere e dare luogo al comportamento, alle scelte più opportune in quel frangente.
Aldilà di questo discernimento, che mai potrà svelare la realtà dell’altro essendo anche ad esso nascosta, bisogna tenere in conto che, come sempre, ciò che è centrale è la nostra intenzione e la nostra reazione.

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Schegge di divino

Come raggi di sole nasciamo da un nucleo abbagliante
e ci proiettiamo verso il nostro destino, illuminando
ciò che ci sta di fronte e ciò che ci è possibile.
Le nostre radici affondano comunque in questa sorgente infinita,
dove ogni razionalità nasce ma non può essere espressa.
Come posso io, scheggia di divino, guardare te, scheggia di divino,
e giudicare i tuoi atti, le tue parole?
Come posso interpretarti, se sò che le tue radici affondano
nella stessa immensità che tutto comprende
e dalla quale io stesso provengo?
Posso solo commuovermi ed inchinarmi.

Come posso imparare?

Grazie al limite tuo.
Se ho una qualche ferita sul piano dell’identità, la relazione con te me la renderà visibile.
Se tu sei molto attento, molto premuroso e previeni ogni possibilità di farmi male, corri il rischio di non permettermi di vedere la mia ferita e di affrontarla.
Se tu sei perfetto, non sei un buon collaboratore.

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Se alzassi lo sguardo

Se tu alzassi lo sguardo da te
e mi guardassi,
vedresti un mondo.
Ti potrebbe piacere o no,
ma sarebbe comunque la realtà,
non il tuo pensiero sulla realtà.

Impariamo da quelli vicini

Da quella compagna, da quel figlio, da quel genitore, da quel collega con i quali condividiamo più tempo o prossimità.
Ci piace mostrarci “sfolgoranti” al mondo e sorvoliamo sui nostri egoismi e sulle nostre meschinità quotidiane, domestiche.
L’altro vicino è quello che ci mostra il nostro essere più profondo facendolo emergere nel piccolo quotidiano.

L’altro da sé, capitolo 9 del libro Conoscenza di sé, meditazione, contemplazione

G: Ho pensato molto a quello che hai detto l’altra volta, che in fondo abbiamo sempre un occhio alla relazione con l’altro, è verissimo; inoltre sull’altro proiettiamo sempre, non lo vediamo mai per quel che è.
R: Dovessi dire qual è il vero maestro della via interiore, senza dubbio direi che è l’altro da noi.
G: Anche un altro inconsapevole?
R: Un altro qualsiasi. Non tutti hanno la possibilità di incontrare un cosiddetto maestro, non tutti possono entrare in una dinamica cosciente con il maestro interiore, la maggior parte impara attraverso il maestro esteriore che è l’altro, indipendentemente dal fatto che sia consapevole del proprio ruolo.
L’altro porta due cose nella nostra esistenza: innanzitutto porta se stesso, in secondo luogo porta lo specchio di noi. Ripeto, qui parliamo di una persona della via interiore avvezza a vedersi e ad interrogarsi; in quest’ottica, quando l’altro si presenta porta sempre un elemento di crisi, l’ingresso in una instabilità di qualche natura: la mente emette dei giudizi – il primo dei quali è relativo ad un moto di simpatia o di antipatia – ed altri derivanti dalle esperienze che abbiamo vissuto nel passato con quella o con altre persone; a questo si aggiungono le aspettative che si hanno in relazione a quell’incontro.
Innanzitutto l’altro porta se stesso e questo è un aspetto tutt’altro che scontato: l’altro si presenta a te, tu lo vedi, lo osservi in relazione a tutto il tuo mondo interiore e che cosa vedi davanti a te?
Quanto è vasta la tua comprensione della sua rappresentazione? L’altro si presenta e noi abbiamo una pretesa, quale?
Quella di saperlo leggere, quella di comprendere chi è. Questa è la prima delle pretese, ma quello che abbiamo davanti e che si presenta con quella rappresentazione tenera, o aggressiva, o ambigua, quanto di quello che lui è, possiamo effettivamente conoscere?
G: Quello che ci siamo permessi di conoscere di noi, e poi quello che riusciamo a vedere da un lato non giudicante.
R: Tu vedi la piccola rappresentazione che l’altro sta mettendo in atto di fronte a te, e cosa ne sai di tutte le altre rappresentazioni che mette in atto di fronte a soggetti diversi, e cosa ne sai delle rappresentazioni di quando è solo, e cosa sai di tutto quello, vastissimo, che non giunge nemmeno a rappresentazione, ma rimane nel subconscio o addirittura nell’inconscio?
G: Non conosciamo noi stessi fino in fondo, potremo conoscere l’altro?
R: Ma tu guarda invece la pretesa, guarda come sentenziamo: “Ma perché sei così, ma perché sei cosà!” Ci vengono mostrati alcuni aspetti e la nostra mente li cataloga, li organizza e si forma una immagine; su quella mette una bella etichetta e dice: “Tu sei così”. Se ho la possibilità di vederti più volte, ti osservo in diverse manifestazioni e ho già il mio piccolo scaffale dedicato a te, dove c’è quel modo, quell’altro modo, e il tutto compone un puzzle che mi rivela la tua immagine: nella mia visione tu sei così.
In verità noi non sappiamo quasi niente dell’altro, come non sappiamo quasi niente di noi stessi. Abbiamo detto, nelle sedute passate, che l’identità non è altro che una costruzione arbitraria dove vengono assemblati pensiero, emozione ed azione e ricondotti ad un filo di coerenza, in realtà inesistente.
Come lo facciamo per noi, allo stesso modo lo facciamo per l’altro, lo riduciamo ad una certa interpretazione; in verità non sappiamo quasi niente ma lo interpretiamo sulla base dei nostri paradigmi interiori, lo etichettiamo e lo fissiamo in un’immagine.
G: E’ chiaro che lo possiamo fare con delle persone che non si permettono di essere fuori da una omologazione..
R: Guarda, io sono con mia moglie da trentaquattro anni e devo ammettere che per me è un mistero; quello che vedo è la superficie, la crosta; io vedo comportamenti, modi, pensieri che mi possono piacere o mi possono disturbare, ma se debbo essere impietoso nella valutazione del mio sguardo, nell’ammettere quello che conosco, debbo arrendermi al mistero, perché quello che so è come l’ultima neve caduta sulla banchisa polare. Quel che vedo è trascurabile, ho la forte, irriducibile sensazione del mistero che mi si presenta e che mi chiede di piegarmi, non di spiegare, non di capire, ma di piegarmi.
Quando io non la guardo più con gli occhi della mente, del giudizio, della simpatia o dell’antipatia, di quello che mi racconto, non rimane niente e affiora il mistero. Questa è l’incredibile e irriducibile realtà dell’altro e di noi. Noi non sappiamo niente, proferiamo sciocchezze, banalità, superficialità che, quando la mente tace, ci producono solo vergogna del nostro sproloquiare e vorremmo sotterrarci perché abbiamo detto questo e quello, ma nel farlo abbiamo parlato di noi, non dell’altro.
Chi è questa persona, oltre la piccola rappresentazione che accade davanti a me e che interpreto? Chi è? Un mondo sconfinato di cui non ho la minima idea. Adesso, alla luce di quello che ho compreso in questi anni, se mai mi ponessi la domanda sul chi è questa persona, dovrei rispondere: nessuno, è un non-essere.
Come quando guardo me e dico: “Chi è questo?” Siamo seri, non c’è nessun “chi”!
A questo livello, dunque, una risposta ce l’ho, ma se mi debbo fermare prima di questa comprensione, debbo riconoscere che quest’altro da me è un mistero; ti guardo, posso tentare delle approssimazioni, ma mi fanno sorridere rispetto alla complessità, alla vastità, alla coerenza e all’incoerenza, al guazzabuglio e al giardino fiorito: che cosa ne so?
Se tu sei niente altro che interpretazione di te, se io sono niente altro che interpretazione di me se, dal mio punto di vista, tu non sei niente altro che mia interpretazione, se tutto non è niente altro che interpretazione, di che cosa parliamo! C’è solo mistero, c’è solo non sapere, c’è solo una grande incognita che domina tutto quanto.
Fino a qui mi interessava sottolineare il limite del primo approccio con l’altro da sé, ora andiamo più a fondo. L’altro con la sua modalità, abbiamo detto, non corrisponde mai alla mia aspettativa ma non solo, mentre si presenta, in me scattano tutta una serie di giudizi e di meccanismi che mi svelano, che parlano di me; quindi il solo presentarsi dell’altro sulla scena rompe un equilibrio, perché invece di confermarmi, mi attiva processi che conducono, attraverso la consapevolezza che ho di me, a subire uno scacco.
L’altro non sta mai dentro al riquadro che io gli ho tracciato, non corrisponde mai alla mia aspettativa, né si lascia inquadrare dal mio giudizio; l’altro introduce sempre una variabile che esce fuori dagli schemi e costantemente mi spiazza: dimmi se non è vero? Tutti i giorni: dal giornalaio che ti risponde così piuttosto che cosà, al tuo compagno che nei piccoli, mille momenti della routine domestica ti spiazza e non è come tu lo avresti voluto. Naturalmente l’altro ti sorprende anche in tanti modi che ti piacciono o ti seducono ma, invariabilmente, la sua presenza  introduce la rottura di un equilibrio e questo per la semplice ragione che il cosiddetto equilibrio comunemente sperimentato non è che un artefatto della mente.
Per la persona della via l’altro è qualcuno che ti costringe costantemente a vederti e ti dice: “Ti vedi nel tuo giudizio? Ti vedi nella tua aspettativa? Ti vedi in quell’etichetta, in quella pretesa?” Formidabile, sfibrante.
G: Insopportabile.
R: Dalla mattina alla sera, l’altro è lì come un tarlo che ti rode e non ti lascia mai in pace; ma, attenta, è l’altro o è quello che la tua mente recita sull’altro che ti si ritorce contro, se sai vederti? Se tu sei consapevole vedi come la tua mente ronza, come mastica sassi, come sferraglia, la vedi e dici: “Dio mio, guarda come in continuazione questa si eccita e in che incubo finisco!”
Quindi l’altro è un pretesto perché la mente si ecciti e faccia tutto il suo lavoro di macinatrice di sassi; sei mai stata in un frantoio, hai sentito il rumore?
Per una persona della via la cosa fondamentale è vedere i propri meccanismi; non possiamo cambiare la mente se non in modo relativo, ma possiamo vederla e dubitare, non accreditarla e disconnettere. Non possiamo cambiarla attivamente perché più ci sforziamo e più l’accreditiamo, più le prestiamo attenzione e più la legittimiamo, anche sofisticandola la confermiamo: possiamo vederla e pian piano imparare a non darle peso.
In quest’ottica ecco la funzione dell’altro come colui che ti scatena la mente; più è prossimo, più c’è un rapporto complice e più te la scatena; più è lontano e meno efficace è la sua azione. Più è genitore, figlio, compagno, amante e più te la scatena, ecco perché è importante un rapporto stretto, che abbia delle complicità, una condivisione del tempo routinario, un orizzonte su cui misurarsi.
G: Il fatto che io abbia chiuso questo rapporto in fondo è perché non sopporto la prossimità.
R: Bisogna vedere tante cose perché non è che si possa stare con tutti quanti, né siamo così masochisti da reggere situazioni distorte che ci fanno male o ci fanno veramente sbarellare. Come principio noi sappiamo che l’altro introduce nella nostra esistenza un elemento di crisi e qui dobbiamo ancora una volta sottolineare l’importanza fondamentale della crisi: la crisi che cos’è?
G: E’ un qualcosa che rompe la maglia della mente: ti vedi o fai finta che sia colpa sempre dell’altro?
R: La pratica nostra, corrente, è di puntare il dito sull’altro e di metterci nel ruolo di vittima, invece si tratta di sviluppare questa disponibilità ad entrare in crisi, a dire: “Ma non posso continuare questo gioco di puntare il dito sull’altro e di piangermi addosso!” Questo lo può fare uno che non ha nemmeno i rudimenti della via, ma io posso dirmi: “Tu che cosa porti nella mia esistenza? Perché mi dai tanto fastidio, mi irriti così tanto? La sola tua presenza parla di me, della mia intolleranza, della mia arroganza, della mia fragilità.”
La persona questo lo vede e può dire: “Perbacco, nel momento in cui ti presenti a me veramente mi metti in scacco!”
L’altro parla di te per un lunghissimo tratto di strada poi, ad un certo punto del cammino, non è più così, dopo ne parleremo, ma fino a quel punto è un pungiglione che non ti dà pace. Ti è mai capitato che quando esci di qui, magari dopo aver discusso un certo argomento, ti capitano delle scene che esplicitano l’argomento trattato? Ti si presenta una specie di laboratorio dove hai la possibilità di vivere il processo che hai affrontato concettualmente; la vita costantemente ci presenta laboratori dove possiamo lavorare noi stessi e le scene che accadono sono funzionali a processi interiori di trasformazione, ma ogni trasformazione può avvenire solo grazie all’incontro con l’altro da sé.
Noi siamo nel lamento continuo, tutto va storto o non va nel senso da noi desiderato, e abbiamo da ridire dalla mattina alla sera di ogni aspetto della vita che si presenta; osserva come ciascuno di noi costruisce una piccola torre dentro cui si arrocca, ed edifica un equilibrio fragilissimo che sembra minacciato dal mondo carogna che incombe e, in questo, temiamo l’incontro con l’altro come uno dei maggiori fattori di destabilizzazione.
G: Se posso fare un esempio, ieri nel treno, quasi vuoto, ero in uno scompartimento con altre persone; una donna molto bella, una insegnante universitaria credo, si mette davanti al nostro scompartimento, con la porta aperta, davanti a queste persone che stavano in silenzio o leggevano e comincia una telefonata senza fine, ad alta voce, in cui raccontava banalità. Dopo di un po’ abbiamo cominciato a scalpitare e io sinceramente ho sbuffato; avevo a fianco un signore simpaticissimo di una sessantina d’anni, che ha detto: “Ma non la trova divertente?” Lì ho capito, ho cominciato a rilassarmi e ho detto: “No, non la trovo divertente”.
Lui ha cominciato un discorso bellissimo, per cui ci siamo divertiti un sacco per un’ora, lei ha continuato a urlare, ma noi semplicemente ci siamo focalizzati su altro senza alimentare la protesta delle nostre menti.
R: Allora, tu hai avuto due “altri” da te: hai avuto lei che con il suo comportamento ha parlato di te. Perché ha parlato di te? Perché ha provocato la protesta e l’identificazione conseguente della tua mente, anche legittima, perché una così è difficile reggerla. Poi c’è il sessantenne che ti ha proposto una lettura diversa in modo che tu potessi disconnettere da quello che sorgeva nella tua mente e ti ha detto: “Stai prendendo sul serio la reazione della tua mente, non ci stai ridendo, perché non ci ridi invece di ingrugnirti?” Lui in realtà t’ha detto di sorridere di lei ma noi nel nostro linguaggio sappiamo che quello di cui dobbiamo sorridere è della reazione della nostra mente che finisce per enfatizzare il dato che la disturba. E’ un po’ come quando è caldo, se cominci a lamentarti e a protestare il caldo ti diventa insopportabile; se posi l’attenzione altrove, rimane caldo, ma non più di tanto.
Se vedi il movimento della mente puoi dire: “Sto dando craniate contro la realtà invece di danzarci assieme! Se mi oppongo l’intensità della scena aumenta perché è maggiore la credibilità che do al recitato della mente, quindi la scena non può che amplificarsi; in alternativa posso imparare a sorridere della sua reazione, questo la svelerà, la metterà in brache di tela e perderà significato”.
Tu pensa, ad esempio, quante volte ti trovi di fronte una persona che ti suscita antipatia e rimani ferma a quella prima impressione e non lasci che la situazione evolva e che quella persona ti possa mostrare altri volti di sé; se noi vedessimo il giudizio che la mente esprime e lo lasciassimo andare permetteremmo alla realtà di svilupparsi diversamente, lasciando che possano manifestarsi dei fotogrammi diversi o alternativi.
Quando l’altro si presenta la mente si attiva: riceve uno stimolo e sulla base di quello inizia a vibrare e più lo stimolo è forte più la vibrazione è forte; quindi si tratta di riconoscerla nel suo essere meccanismo eccitatorio, non un tempio, solo un banalissimo meccanismo eccitatorio, e dirle: “Che cosa stai facendo? Non mi interessa quello che stai facendo, dell’altro sottolinei l’antipatia che suscita ma con questo veli il tanto altro che può essere!”
Nel momento in cui mi pongo queste domande, dubito della mente. Allora, è vero che il primo moto è di antipatia, ma dopo averne preso atto – perché non è che debbo respingerlo, debbo accoglierlo – se vedo ciò che sta accadendo alzo lo sguardo su altre visioni e su ben più complesse comprensioni.
L’osservazione di quell’uomo di fianco a te ti ha permesso di distoglierti da quel battere a martello della tua mente; lui ti ha permesso di guardare alla scena da un altro punto di vista.
Tu dimmi se è possibile conoscere se stessi senza l’altro, intendendo per l’altro non soltanto l’umano ma anche l’animale, la natura, il tempo atmosferico, tutto ciò che si presenta alla nostra attenzione. Il nostro corpo è l’altro: pensa quanto ci spiazzano tutta la dimensione del corpo e dell’energia nella loro manifestazione sessuale, quale disorientamento producono nelle nostre menti e quanto è importante quel disorientamento, quanti paletti abbatte.
Guarda cosa la mente recita in merito alla sessualità e come poi il corpo e l’energia abbattono le barriere e come l’altro con la sua presenza, con la sua sensualità, collabora all’abbattimento dei paletti e conduce ad una messa in crisi della mente e del suo modo di interpretare la realtà, di raffigurarsi la realtà: la sessualità è questo, il corpo è questo, l’amore è questo. Poi, invece, arriva l’altro e il tuo corpo si muove e esce dagli argini e la mente viene scompaginata; guarda all’importanza fondamentale del corpo e della sessualità come a quel qualcosa che crea veramente un disordine, una perdita di riferimento.
Oppure il corpo che parla attraverso la malattia, quanto ci mette in crisi?
Tu prova a considerare il corpo come l’altro che non fa il giudizioso, che rompe le regole perché magari ha delle esigenze che ritiene impellenti e richiede soddisfazione.
G: Non gli frega di quello che dice la mente.
R: Dietro c’è sempre la mente però ad un certo punto lei diventa tangibilmente corpo e dice: “Qui bisogna soddisfare una certa cosa e quindi per piacere vediamo un po’!”
G: Che sei fidanzata o no..
R: Comprendi quanto è interessante questa cosa? Poi una cosa è essere in balia di questo e un’altra è vederlo e ricondurlo ad una gestione, in mancanza della quale le cose possono complicarsi, a volte; inoltre considera che il corpo ha un’autonomia relativa rispetto alla mente perché non è altro che una sua rappresentazione.
Tu pensa al corpo che si ammala; la mente ha la pretesa di una vita serena, senza scossoni, e invece ad un certo punto il veicolo gli si ammala, pensa quanto la mette in crisi. Pensa alla persona che viene colpita da un tumore e che ad un certo punto vede che la possibilità di sopravvivere è messa in dubbio, pensa quanto la mente viene scardinata.
Oppure la persona che viene colpita da un lutto, la morte di qualcuno vicino, pensa quanto viene provata.
Il singolo evento è il comparire dell’altro sulla scena della tua vita, l’altro che chiamiamo tumore, o perdita o altro; nel momento in cui compare inizia un processo, dobbiamo essere attenti a leggere il processo, non il singolo fatto avulso dal processo, perché se leggiamo il singolo fatto non possiamo comprendere che cosa sta accadendo nelle nostre esistenze. Se leggiamo il processo quei fatti acquisiscono un altro significato: l’altro nella forma del tumore, della malattia, della perdita, si presenta e rompe un ordine; ti costringe in una strettoia che è caos e crisi.
Sempre la crisi rompe un ordine e da questa sorgerà un nuovo ordine più sofisticato che verrà a sua volta rotto. L’ammalarsi del corpo, per tutte le implicazioni che comporta, è veramente formidabile come messa in scacco della persona.
G: Ma perché la necessità dello scacco? Più rifiuti di vederti e più sopraggiunge lo scacco?
R: Quella messa in scacco è vero o no che produce uno sguardo differente da quello che avevi prima? E’ vero o no che attiva un processo di interrogazione, di revisione, di trasformazione, di comprensione?
G: Racconta di suoi amici che hanno avuto una figlia disabile: gente di successo che gira il mondo, molto attenta alla affermazione di sé..
R: Nella vita di queste persone ad un certo punto arriva uno stop, nella forma di quest’esserino che si presenta e dice: “Io ho un problema”, e loro sono costretti a fare i conti, non solo col problema dell’esserino, ma con tutto ciò che avevano pensato di sé e della loro esistenza; loro sono messi con le spalle al muro, questo è molto interessante. Può nascere qualcosa o non può nascere niente, a noi non ci riguarda perché questa è la loro storia, quello che invece ci riguarda è l’insegnamento in merito a ciò che l’altro porta nelle nostre vite.
L’altro è veramente collaboratore efficace in tutte le sue manifestazioni di conferma o di smentita, ma quando, in vari modi ci manda in crisi, la sua funzione assume una pregnanza particolare; allora, quel bel partner lì, che ti accarezza, che dice sempre di sì, che è sempre presente e confermante non è detto che sia il migliore dei collaboratori possibili; forse quell’altro che è come carta vetrata..
Guarda la via interiore e la figura del “buon amico”, chi è costui? E’ qualcuno che ti mette di fronte a te stessa, è colui che ti aiuta nel lavoro di svelamento; è colui che non te la racconta, ti rimanda l’immagine di te. Nell’impatto con questa figura tu entri inevitabilmente in crisi.
Rispetto all’altro qualsiasi, che può anche essere inconsapevole, il buon amico è perfettamente consapevole del gioco che sta mettendo in atto e del fatto che si espone per te, non per sé; nell’esporsi sa che ti può fare male, e sa anche che tu puoi provare forti moti di avversione e antipatia che possono condurti a ritrarti dal rapporto: lo sa, ma non ha niente da perdere. Non lo fa per sé, lo fa perché in qualche modo qualcosa lo spinge a farlo, ma lui non è in gioco.
Allora vedi che c’è l’altro consapevole e l’altro inconsapevole, ovviamente l’altro consapevole gioca a tutto campo nello svelamento con una efficacia e una penetrazione che, da un lato ti svela fin nelle midolla, dall’altro ti aiuta a sviluppare gli strumenti per comprendere e per gestire la situazione.
Qui tu acquisisci degli strumenti in maniera diretta, nella vita gli acquisisci indirettamente; qui noi concettualizziamo anche, non facciamo solo l’esperienza dello svelamento, il tutto diventa afferrabile e gestibile dalla tua mente.
G: Velocizziamo i processi.
R: Perché c’è una messa in luce dei meccanismi, è il rapporto stesso tra di noi che ti rende inequivocabile ciò che ti attraversa, è come vedersi in uno specchio tirato a lucido. Subito dopo questo tu puoi realizzare una concettualizzazione appropriata di ciò che hai vissuto: è fondamentale, nella via interiore, poter interpretare in modo adeguato ciò che viviamo.
Se una cosa la vivi e ti vedi in un certo tuo meccanismo, ma non riesci a interpretarla, il processo è più lento; se invece ciò che hai vissuto lo inquadri, te lo spieghi, lo situi in un contesto originale, la mente evolve, diventa uno strumento sempre più duttile e sofisticato.
Naturalmente questo non significa che la mente cambia nelle sue leggi di fondo ma, pur rimanendo se stessa, cambia modalità.
Come tu sai il nostro tentativo non è quello di cambiare la mente, ma di andare oltre la mente, faccenda molto differente. Per andare oltre è condizione importante che questo attrezzo sia affilato: diciamo  che utilizziamo la mente come grimaldello, scalziamo la mente con la mente. Questo fino ad un certo livello, poi la cosa si presenta in termini differenti.
Questo è tutto ciò che l’altro produce, consapevole o inconsapevole che sia.
G: Quando l’altro non è consapevole è molto più difficile.
R: E’ chiaro che tra due che utilizzano gli stessi criteri interpretativi e che hanno un buon livello di consapevolezza il lavoro è più semplice; tu sai che di fronte a qualsiasi tua reazione o azione l’altro mette in atto atteggiamenti che obbediscono ad una logica che conosci, sai il lavoro che l’altro fa e lui sa quello che fai tu. Di certo c’è che, consapevole o inconsapevole che l’altro sia, ti mette di fronte a te stessa e tu devi fare i conti con lo sballottamento che ti produce.
Adesso andiamo all’ultimo aspetto della seduta di oggi e che prepara anche il discorso sull’amore che faremo tra due sedute.
Allora tutto questo è vero, ma lo è fino ad un certo punto: cosa significa? Lungo il cammino fino ad un certo punto l’altro ti parla di te, da un certo punto in poi è semplicemente se stesso e non dice più niente di rilevante su di te.
Giunge una stagione della vita in cui sei sempre meno interessata a te, all’analisi e all’investigazione su di te; sorge uno sguardo che sempre di più si compenetra della comprensione che la mente è la mente che tu non sei la mente e quell’interesse per te con quel nome, con quelle sembianze, con quella certa manifestazione, con quel certo ruolo, in te pian piano va morendo e, nel momento in cui questo accade, muore anche l’altro in relazione a te.
Muore l’altro come quel qualcuno che ti mangi a tuo uso e consumo per i tuoi scopi, e si afferma l’altro come presenza che compare nella tua vita ma che parla soltanto di sé. Non parla più di te, non racconta più niente di te, per la semplice ragione che tu hai perso interesse per te e non hai più alcuno stimolo particolare ad interrogarti su di te.
Allora l’altro è quel qualcuno che si presenta ora in un modo, ora in un altro, ora con una modalità che ti può suscitare simpatia, ora con una che ti suscita antipatia, ma tu vedi la reazione della mente, in un verso o nell’altro, prendi atto che è la mente e lasci che l’altro sia quel che è.
L’altro è quel che è, parla di sé, parla del suo essere altro da te e parla del tuo non conoscerlo, non poterlo ricondurre ai tuoi schemi, parla del suo essere mistero.
Un qualcuno che la vita ti ha presentato e di cui non sai dire. Questo accade perché tu non hai più interesse per te: ti si presenta quella persona, quella situazione esistenziale, quel fiore lungo il sentiero che stai percorrendo; ti si presenta quel vento, quel cielo azzurro o quelle sferzate di bora, tu prendi atto. Non dici: “Povero me come ho freddo, o come ho caldo o come sono a disagio”, prendi atto che sta accadendo quello, non lo riconduci a te, ad un tuo giudizio, ad un tuo bisogno, ad un sentirti vittima, ad una mancanza: prendi atto.
Allora finalmente l’altro è l’altro e basta, e qui veramente inizia ad aprirsi un mondo sconfinato che è tutto quello che noi affronteremo nella seconda parte del nostro lavoro.