La morale personale e il sentire che evolve

Se avette tempo, leggete quello che il Cerchio Ifior dice sulla morale.
L’esperienza dell’evoluzione del sentire è plastica, concreta, quasi fisica direi: si inscrive nei comportamenti quotidiani, nei pensieri che attraversano la mente, nella qualità e quantità delle emozioni, nelle relazioni soprattutto.
È nel rapporto con l’altro che tutto si palesa e si evidenzia: i passi compiuti e quelli da compiere, sono sotto i nostri occhi quando l’altro bussa con il suo essere, i suoi bisogni, le sue richieste, le sue paure.

continua..

Morale e armonia col sentire

d-30x30Morale. Dizionario del

Come abbiamo detto più volte il concetto di «morale» non è qualcosa di fisso e ben definito nel tempo, ma si tratta di un concetto estremamente variabile, di pari passo con i mutamenti della società.
Basta pensare al secolo scorso (quindi non molto tempo fa) quando suscitava scalpore e invettiva da parte dei moralisti la donna che mostrava «impudicamente» le caviglie, al punto che si racconta che la regina Vittoria facesse coprire le gambe dei tavoli per evitare l’insorgere di pensieri lascivi! Se la regina Vittoria fosse ancora viva si sentirebbe svenire guardando un vostro giornale o vedendo l’abbigliamento che viene usato.
Semplice moda o perdita dei valori morali e decadenza dei costumi? Secondo le Guide si tratta di un momento di confusione dell’umanità che, col loro solito ottimismo, affermano preludere a un cambiamento generale della coscienza di gran parte dell’umanità: perché i nuovi valori possano essere accettati è necessario che i vecchi valori vengano superati e questo cambiamento (come accade per ogni mutamento, in realtà) passa sempre attraverso a momenti di eccesso e di confusione morale prima che la massa si renda conto che non è quello che, in cuor suo, sta aspettando.

Messaggio esemplificativo (1)

Spesso l’uomo si dibatte nelle sue stesse trappole, aggirandosi negli angusti corridoi che i concetti che ha creato gli formano attorno, rimbalzando da una parte all’altra senza posa, senza riuscire a trovare il modo di interrompere quel moto falsamente perpetuo in cui si viene così a trovare. Sto parlando del gioco dei contrari, gioco che è necessario all’ampliamento graduale dell’autocoscienza, ma che può finire col rivelarsi una trappola senza sbocco allorché l’individuo non riesce a risolvere, in un modo o nell’altro, il dubbio su quale dei due opposti si addice facilmente e maggiormente a una data situazione.
Se io vi chiedessi se preferite bere un caffè amaro o un caffè dolce, è certo che ognuno di voi saprebbe risolvere immediatamente questo contrasto senza turbamenti di sorta, ma è solo quando il gioco dei contrari si sposta su piani più «interiori» – diciamo pure più «spirituali» – che il gioco cessa di essere tale e diviene invece causa di possibili afflizioni e tormenti.
Mi riferisco a quei contrari del tipo «giusto-ingiusto», «bene- male», davanti ai quali siete soliti rimanere più indecisi, più confusi, più incerti, perché non riuscite a decidere quale etichetta applicare a un’azione o a un concetto. Poiché una domanda ci è stata rivolta in questo senso, voglio soffermarmi in particolare sulla dualità, sulla coppia dei contrari, «morale-immorale».
Morale: «Complesso di principi di varia natura che inducono l’individuo a tenere un comportamento invece che un altro». Come tutte le definizioni, anche questa ha molti difetti e pochissimi pregi, tuttavia non voglio entrare in una discussione di questo tipo, così come non è mia intenzione fare una dissertazione filosofica sul concetto di moralità in quanto risulterebbe noiosa per tutti; intendo invece cercar di scoprire da dove nasce l’idea di moralità o di immoralità, analizzando un esempio pratico, perché ritengo che niente più di un esempio possa servire per chiarire i punti di vista.
Un bimbo, felice nella sua nudità, gioca con i suoi genitali. Questa è di certo un’immagine che ognuno di voi ben conosce in quanto è altamente improbabile che non vi sia mai capitato di vedere un bimbo, anche molto piccolo, compiere con spontaneità e divertimento questo atto. Nell’osservarlo certo avrete sorriso; alcuni di voi, magari, avranno brontolato; altri saranno leggermente arrossiti ma nessuno, ne sono sicuro, avrà giudicato, anche solo per un momento, immorale il comportamento del bimbo.
Un uomo, nudo, gioca con i suoi genitali.
Non è questa un’immagine che vi sarà capitata di vedere di frequente, anche in tempi permissivi come quelli che vi sembra di vivere! Quindi, se proprio non avete un episodio di vita vissuta direttamente a cui fare riferimento, sforzatevi di dare corpo alla vostra fantasia e di immaginarvi per un attimo come spettatori di una scena del genere. Vedo le vostre espressioni: chi sarebbe nauseato, chi correrebbe al telefono per avvisare la polizia, preoccupato per altri spettatori più giovani e «innocenti», chi – magari – darebbe una sbirciatina non vista tra le fessure delle mani poste pudicamente sugli occhi, per non vedere cotanto obbrobrio… tutti insomma, chi più chi meno, giudichereste scandaloso e immorale quanto state vedendo.

Aborto, morale, responsabilità nella visione del Cerchio Ifior

d-30x30Aborto. Dizionario del

Se accettiamo quello che dicono le Guide nell’insegnamento filosofico (ma la stessa cosa viene detta in molte altre religioni, persi no in quella cattolica, intransigente oppositrice della possibilità di abortire) tutto quello che accade accade perché è già scritto che accada (in ambito religioso: «niente può essere al di fuori della volontà di Dio, anche se le sue strade sono imperscrutabili», in ambito tradizionale: «non muove foglia che Dio non voglia») il problema non dovrebbe sussistere: sia che un bambino veda la luce sia che gli venga impedito di nascere questo accadrà perché così è scritto che debba accadere. Questo dal punto di vista filosofico.
Indubbiamente, dal punto di vista etico/morale il discorso diventa diverso, ma – secondo le Guide – non tanto per l’eventuale bambino che non nascerà (per lui esisterà, comunque, una nascita alternativa, quando ne avrà bisogno) quanto per le implicazioni collegate alle persone coinvolte nella situazione: la decisione di abortire o no avrà certamente un peso non indifferente non solo nel prosieguo della loro vita, ma anche nel loro percorso evolutivo.
L’importante – dicono – è che la decisione sia presa consapevolmente, e non dovrebbe essere condizionata dall’esterno ma appartenere soltanto alle persone direttamente coinvolte: come è stata loro la responsabilità di quella possibile nascita deve essere loro anche quella del possibile aborto.
È evidente che la questione è molto più complessa di così, dato che molte altre persone finiscono con l’essere coinvolte nella situazione (ad esempio i medici che dovrebbero praticare l’aborto, o gli scienziati che «inventano» pillole abortive) ma, secondo le Guide, il punto di vista non cambia: si tratta sempre e comunque di una personale assunzione di responsabilità da parte di tutte le persone che entrano in gioco.
La domanda che mi viene spontaneo pormi è se sia più giusto permettere l’aborto o lasciare venire al mondo bambini non desiderati, che nascono magari in condizioni sociali tali che, senza dubbio, la loro vita non potrà che essere un inferno?
Probabilmente, come dicono le Guide, le istituzioni dovrebbero mettere più impegno nel dare una corretta educazione sessuale ai
giovani, in maniera tale che il problema finisca col non sussistere… ma, indubbiamente, entrano in gioco fattori politici, economici e religiosi, l’esame dei quali esula dal compito che mi è stato assegnato di fare queste considerazioni iniziali prima dei vari concetti che vi proponiamo.

Messaggio esemplificativo (1)

Questa volta voglio raccontarvi una storia, forse un po’ inconsueta – visti i protagonisti – ma vi sarete certamente accorti che i miei interventi sono sempre un poco sconcertanti, tanto da suscitare reazioni brusche e opposizioni varie… il che – ben lungi dal dispiacermi – mi sollecita invece ad andare avanti, perché significa che, malgrado il tono a volte indisponente che cerco di usare, in realtà ciò che dico – anche se non accettato e condiviso totalmente – per lo meno riesce a ottenere quello che è il mio scopo: aiutarvi a uscire dal vostro fermarvi in schemi di pensiero rigidi e, in quanto tali, più dannosi che utili all’avanzamento dell’individuo.
Un giovane ovulo innocente di nome Paola, se ne andava per la sua strada tranquillo e ignaro di ciò che il suo più prossimo futuro gli avrebbe fatto accadere. Stava attraversando un angusto vicolo quando, un poco più innanzi, fece la sua comparsa una banda di spermatozoi baldanzosi e spregiudicati.
Atterrita dallo spavento, la povera Paola non seppe fare altro che continuare ad avanzare, incerta sul da farsi; nel frattempo, la frotta di teppisti aveva preso a mormorare e ad agitarsi alla sua vista finché, improvvisamente, il più mascalzone di loro – un tal Francesco – si mise a correre verso la giovane Paola, trascinando con il suo esempio gli altri suoi compagni, cosicché l’intero gruppo si precipitò in avanti compatto non senza, però, che ognuno di loro non cercasse di intralciare in qualche modo gli altri, per cercare di essere il primo e l’unico ad arrivarle accanto.
Fu questione di pochi attimi, tanto che Paola non fece neppure a tempo a riordinare le idee, che Francesco – dimostrandosi il più furbo e il più veloce degli assalitori – le piombò addosso e, con determinata violenza, la costrinse a cedere alla sua passione, proclamando nel contempo, il diritto del più forte nei confronti dei suoi degni compari i quali, infatti, ligi alle regole del gruppo, si limitarono a gironzolare intorno, mascherando la delusione patita dietro l’indifferenza.
Questa – un po’ ravvivata a modo mio, per rendere meno noiosa l’esposizione dei fatti – è l’idea che l’uomo in genere ha di ciò che avviene al momento della fecondazione, al momento cruciale di quel «fattaccio» senza il quale non solo non vi sarebbe più nessun motivo di stare a discutere sulla giustizia o l’ingiustizia dell’aborto, ma anche non vi sarebbe nessuno con cui discuterne. Creature mie, è tutto sbagliato: non stiamo facendo della letteratura legata alla società di appartenenza e, quindi, facendo uso degli elementi che più possono fare acquistare il prodotto; stiamo invece parlando di un avvenimento naturale e concreto, che si ripete in tutte le civiltà di ogni tempo e di ogni luogo.
La nostra Paola non è poi così ingenua come si può credere, né subisce passiva e impotente gli attentati alla sua virtù; usa, invece, tutte le civetterie possibili per scatenare la corsa dei suoi assalitori; e non solo: prima di incominciare il suo percorso sapeva bene ciò che sarebbe successo e aveva mire ben precise su di un particolare spermatozoo che – guarda caso – era proprio quel Francesco che, alla fine della storiella, è risultato il suo conquistatore. Per continuare nel tono scherzoso con cui ho incominciato, vi dico che la scaltra Paola si era preventivamente informata sui gusti della sua anima gemella, e aveva fatto tesoro di quelle informazioni, procurando di usare il belletto che più le avrebbe messo le ali ai piedi, dandole quella spinta necessaria a farle battere i colleghi nella corsa! Non contenta di questo – per essere sicura della buona riuscita del suo «programma» – si era allenata a dare schiaffoni a quelli che, incuranti della sua scelta ben precisa, avessero osato cercare di soppiantare il suo amato, malgrado le «emanazioni di sdegno e di repulsione» che lei avrebbe emanato di continuo verso di loro.
Affermo così che, in realtà, l’incontro tra ovulo e spermatozoo «non è legato in nessun modo alla casualità», ma che Paola «doveva e poteva» venire fecondata «solo» da Francesco e non da un altro che, magari, malgrado tutte le sue precauzioni, fosse riuscito ad arrivarle vicino per primo.
Che significato può avere tutto questo? Vediamo un attimo che cosa afferma la vostra scienza genetica: l’individuo è formato dall’incontro tra ovulo e spermatozoo i quali contengono, separatamente, tutta una serie di piccoli attivatori chiamati «geni» i quali, combinandosi fra loro, formano le precise caratteristiche morfologiche del nuovo corpo che, in embrione, si costituisce all’atto della fecondazione. Parlando più semplicisticamente  si può dire che, dato un ovulo con il suo particolare patrimonio genetico e la frotta di spermatozoi emessa ad ogni eiaculazione – ognuno con una dote genetica diversa – si ha un’individualità fisica diversa e un corpo diverso, a seconda dello spermatozoo fecondante. Ma se è vero che solo quello spermatozoo può fecondare quell’ovulo, ciò significa «necessariamente» che era quell’individuo e non un altro che «poteva e doveva» essere costituito, «al di là di ogni possibile fattore casuale». A questo punto, un tipo moderatamente curioso si potrebbe chiedere a che scopo proprio quel corpo e non un altro, e che differenza può fare.
Una differenza grandissima: come spesso abbiamo affermato, l’entità che si incarna ha bisogno non solo del tipo di ambiente adatto ad espletare le esperienze che le sono necessarie all’evoluzione, ma anche ha bisogno del corpo più adatto a quell’ambiente e al tipo di esperienze che dovrà affrontare. Supponiamo, ad esempio, che l’entità abbia bisogno di sperimentare la maternità: è evidente che sarebbe una «grossa difficoltà» se finisse, per caso, col trovarsi in un corpo maschile! Si rende così necessario per lei che il sesso sia femminile, e il discorso può essere allargato a tutte le caratteristiche fisiche; così il fecondatore della nostra Paola «non poteva essere che Francesco», in quanto «solo dal connubio Paola – Francesco» sarebbe nato il «ricettacolo adatto» all’entità che «doveva» incarnarsi.
Lasciamo stare, per ora, come avviene questa scelta ben precisa e chi la opera, per non trovarci ad andare troppo lontano, rischiando di confondere un discorso già abbastanza confuso, e sentiamo che cosa può venire in mente al nostro ipotetico curioso. «Ma lo spirito entra già nell’embrione fin dal suo primo costituirsi?» Sì e no. L’entità che si incarna incomincia subito, infatti, attraverso i vari piani, ad operare tutti gli allacciamenti con il veicolo a cui sarà legata sul piano fisico; ma questo allacciamento non è immediato, bensì relativamente lento e graduale tanto che «in pratica» soltanto circa dopo il settimo anno di età entità e corpo saranno già in buona parte legati tra di loro.
Tutto ciò che ho appena detto, investe il problema più vasto e generale della libertà dell’uomo: se la casualità non esiste già a livello genetico, è mai possibile che essa esista a livello più macroscopico, ad esempio a livello di tessuto individuale umano? Io affermo che – almeno sul piano fisico – non è possibile e che tutto accade come doveva accadere; che non esistono il caso fortuito, la combinazione inattesa, la coincidenza improbabile, ma che nell’universo fisico è tutto preciso e regolato come e più del meccanismo del più perfetto orologio.
Attenzione però, creature care: ho parlato del piano fisico, di ciò che voi vivete; ma non dimenticate che il discorso investe anche piani ben diversi dal vostro e sui quali tutto potrebbe essere tale da soggiacere al caso più sfrenato… ma, accontentiamoci, per ora, di quanto detto fin qui.
Certo vi chiederete che cosa c’entri tutto questo con l’aborto. Il mio intento era quello di farvi pensare che, forse, il problema – sotto un certo punto di vista – non esisteva nemmeno. Se, infatti, niente accade per caso nel vostro piano di esistenza ma è tutto preciso e previsto nel disegno universale, allora anche l’aborto stesso non può non avvenire se così doveva essere; anzi, si può affermare che se esso fosse previsto dall’esistenza e non venisse procurato dagli uomini, in qualche altro modo l’aborto si sarebbe concretizzato ugualmente!
Perché questo? Forse perché l’abortista più convinto è proprio quel Dio – ironia della cosa – tirato in ballo da più parti per convincere la massa a fare o non fare una determinata cosa? Cari miei, i piani di Dio sono così immensi che sfuggono ad ogni possibile critica o valutazione e, nel nostro piccolo, possiamo solo cercare di trovare qualche elemento utile per comprendere – sul piano umano – gli aborti procurati dalla natura e quindi, in definitiva, da Dio stesso. Scifo

In ciò che noi vi diciamo esiste un pericolo che non dovete sottovalutare: noi abbiamo appena affermato che, in definitiva, l’uomo non può che «vivere un certo tipo di vita» e che in realtà, qualunque cosa egli intenda fare, non potrà mai evitare un’esperienza che gli era stata assegnata. Questo concetto è alquanto pericoloso, perché può indurre a quel tipo di fatalismo e supinità che, ad esempio, l’uomo occidentale crede di percepire nella maggior parte delle popolazioni orientali, all’interno delle quali questi concetti – facenti parte da generazioni del loro modo di pensare – sono stati spesso travisati dalla gente comune. Così può accadere che qualcuno, ascoltando le nostre parole dica: «Se è così, allora non mi preoccupo minimamente di ciò che faccio o che non faccio: tanto l’esistenza, o il destino, o Dio hanno fatto i piani per me e io non posso fare altro che vivere subendoli». No, figli, se pure in un certo senso ciò può anche essere vero, non è una cosa da farsi, e cercherò di spiegarvi il perché.
Noi vi abbiamo detto che ogni uomo vive la sua vita per fare delle esperienze che lo aiutino a scoprire la divinità che esiste da sempre dentro a lui – anche se egli ne è inconsapevole – per trovare in se stesso la consapevolezza della sua vera natura; la quale non è limitata al corpo che temporaneamente possiede, né alla sua personalità, al suo Io, che è solo una creazione fittizia per cucire e regolare, secondo certi schemi, le sue azioni, in vista delle esperienze che da esse derivano. E questa consapevolezza di cui stiamo parlando non appartiene al mondo concreto, bensì al mondo interiore.
Mi spiego meglio con un esempio. Come vi ha detto Scifo, quando una persona si trova davanti alla possibilità di impedire a una nuova creatura – un figlio – di nascere, quando cioè si trova di fronte alla decisione di un aborto, sotto un certo punto di vista potrebbe anche sedersi e aspettare che i piani dell’esistenza vadano a buon fine poiché, qualunque siano le decisioni di questa persona, la nascita o la non nascita di quella creatura non dipende veramente da lei.
Infatti, se la persona – mettiamo il caso – decidesse di farla nascere comunque, e ciò non dovesse invece accadere nel tessuto della storia umana, vi sarebbe comunque un aborto; così, allo stesso modo, se la persona prendesse la decisione di interrompere quella gravidanza prima del tempo e ciò non fosse previsto, succederebbe certo qualcosa che le impedirebbe di concretizzare la decisione presa. L’importante, figli cari, non è tanto la decisione che l’individuo ha preso, quanto il cammino interiore che l’ha portato a prendere proprio quel tipo di decisione, poiché il muoversi nella propria interiorità – sia sbagliando, eventualmente, che agendo nel modo giusto – è ciò che schiude, poco alla volta, il cammino che rende sempre più ampie e accessibili le vie che portano alla consapevolezza della propria realtà interiore.
Ecco quand’è che il sedersi e l’aspettare passivi che l’erba cresca diventa un errore, un comportamento inutile, che non ottiene altro che rimandare ad una successiva occasione l’acquisizione di una nuova e utile esperienza. L’esperienza va vissuta, figli cari, non tanto agendo esteriormente quanto introiettandola ed esaminandola dentro di sé; l’azione nel mondo concreto non è che un mezzo per smuovere le cause interiori che portano all’autoconoscenza, alla scoperta di se stessi, allo svelare la propria realtà interiore e, quindi, a raggiungere il Dio del quale ogni creatura è parte. Moti

È difficile trovare qualcosa di nuovo sull’argomento di questa volta, anche perché – per quanto riguarda il problema morale della questione – in altre sedi son già stati espressi concetti ai quali è difficile aggiungere qualche cosa. Tuttavia eccomi qua, anche se un po’ in imbarazzo, dato che mi è stato detto: «Figliola Zifed, va e dì anche tu il tuo autorevole parere!»… Be’, forse «autorevole» non c’era, ma perdonatemi la mia civetteria!
È possibile fare un discorso genericamente valido su questa questione? Voi non lo sapete, ma mi piace molto andare in giro e mettere il naso nelle situazioni del mondo materiale e, credetemi, se ne vedono di tutti i colori!
Ho visto un importante e venerato uomo – uno dei più accesi sostenitori del diritto alla vita – sfogare le sue frustrazioni su un bimbo di dieci o undici anni ospite di un orfanotrofio. In questo caso mi chiedo: il diritto alla vita non conta più niente? Non era forse meglio, umanamente parlando, che a quel bambino venisse impedito di nascere e di vivere, per dover vivere a quel modo? Io – molto umanamente, lo riconosco, e troppo spesso dimentica dei «perché» di Dio – preferirei che una creatura non venisse alla luce piuttosto che vivesse in quelle condizioni; perché quella non è certo una vita su cui qualcuno possa aver voglia di reclamare un diritto.
Anche un suicida ha diritto alla vita, eppure nessuno si scandalizza poi molto se qualcuno si suicida. Potete dire, in questo caso, che la decisione è presa dallo stesso interessato, consapevolmente e, in qualche frangente, ciò può anche essere vero; ma io sono sicura, per averlo vissuto direttamente, che molto più spesso chi si suicida lo fa perché sono le persone che lo attorniano e la società stessa che lo ospita a negargli il diritto alla vita, negandogli il diritto al lavoro, alla sicurezza, alla famiglia, all’amore, alla serenità, alla felicità, a tutto ciò che, per egoismo e disinteresse altrui, viene di continuo negato a gran parte della gente e che costituisce delle componenti del più generico diritto alla vita; mancando le quali lo stesso diritto alla vita, poco alla volta, viene ad essere privo di senso e a decadere.
Ho visto famiglie già numerose e nella più grande ristrettezza economica, procreare senza sosta solo perché qualcuno ha detto loro che prendere delle precauzioni è contro natura, e che il volere di Dio sta nelle parole «Crescete e moltiplicatevi»… chi glielo ha detto? Se non sbaglio, persone che hanno fatto della non procreazione una regola, un modo di vita.
Ho visto donne decidere di interrompere una maternità, per non dover interrompere i loro divertimenti mondani.
Ho visto qualcuno discutere e accalorarsi con degli amici, difendendo con decisione il diritto alla vita, proprio durante una battuta di caccia.
Eh sì, queste cose sono del mondo e nel mondo in continuazione!
Io penso che abbia proprio ragione chi affermava che il problema sta ancora più a monte; che, in realtà, il momento dell’aborto è solo un momento finale e che è come discutere se mangiare o no un piatto di spaghetti, quando il sugo è fatto e la pasta è già stata condita!
Il problema risale per lo meno al momento dell’accoppiamento, perché già lì gli interessati decidono il diritto alla vita di un potenziale nascituro; e, allora, perché non chiedere al popolo di varare una legge sulla tutela o sul divieto dell’atto sessuale? Perché mi sembra chiaro che qualunque atto sessuale completo crea un potenziale diritto alla vita, così come qualunque mezzo anticoncezionale lo vieta.
A chi, dunque, spetta il compito di decidere se avere o meno un rapporto sessuale completo e senza precauzioni? Ahi, ahi, non mi ci raccapezzo più amici, non so più cos’è giusto e cos’è sbagliato; anzi, non so neppure più dov’è e di chi è il problema. Sono proprio terra – terra, amici, consolatevi!
Già, creature care, di chi è il problema? Zifed

Da come sono prospettate le cose sul vostro piano di esistenza, sembrerebbe proprio che il problema non sia del singolo ma della comunità, della società; può anche essere vero, e allora spendiamo due parole per esaminarlo sotto questo punto di vista. Cos’è giusto per la collettività: permettere o impedire l’aborto?
Se vediamo la cosa dal punto di vista economico – finanziario della collettività – intesa come il maggior utile per la maggior parte degli individui – non vi sono dubbi: l’aborto non solo va permesso, ma deve addirittura essere incoraggiato al massimo. Quale soluzione migliore, infatti, potrebbe esservi per gran parte dei problemi che rendono asfittica e traballante la situazione, non solo di uno stato ma dell’intero pianeta? In un colpo solo – anche se proiettato nel tempo di qualche decennio – si risolverebbero contemporaneamente quei grossi problemi che sono la sovrappopolazione, la disoccupazione, la mancanza di cibo, la crisi degli alloggi e la carenza di strutture per l’infanzia.
Abbiamo però fatto i conti senza il volere di coloro che dovrebbero esprimere la volontà della collettività; senza coloro, cioè, che stanno ai vertici dei governi e delle organizzazioni mondiali.
Anche per loro non vi sono dubbi: l’aborto deve venire impedito con tutti i mezzi, perché per loro significa minor numero di consumatori, aumento delle paghe per carenza di mano d’opera, minori introiti aziendali, minore profitto personale, minor potere. Ma è giusto che il diritto alla vita debba essere definito da tali questioni utilitaristiche ed economiche?
Allora, forse, il problema appartiene essenzialmente alla sfera religiosa… ma anche per le varie religioni – stati negli stati – si può fare un discorso molto simile a quello che è stato appena fatto, perché anche in questo caso l’utilitarismo e l’economia la fanno da padroni, sfruttando la questione per fini che, anche se non del tutto individuali, sono per lo meno partitici.
Lasciamo stare, poi, la sfera politica poiché già il fatto che una questione prospettata come «diritto alla vita» venga usata come strumento di sopraffazione tra un partito e l’altro (partiti che – non dimentichiamolo – sono costituiti da esseri umani aventi a loro volta diritto alla vita), squalifica la possibilità che il problema le appartenga davvero. Appartiene allora alla sfera morale? Scifo

Già in precedenza, figli, parlando della morale abbiamo affermato che molto meglio sarebbe riuscire a essere «amorali», cioè «al di fuori di ogni morale imposta da convenzioni non sentite». La prospettiva nella quale avevamo fatto questo discorso non era stata capita da alcuni, così – prima di continuare sull’argomento di cui stavamo parlando – vorrei cogliere l’occasione per chiarire alcune cose. Noi non abbiamo affermato che le regole morali in un vivere collettivo non siano necessarie: abbiamo invece affermato che la vera morale è quella che nasce dalla coscienza dell’individuo e che – essendo ogni individuo ad un diverso grado di contatto con la propria coscienza, cioè ad una diversa ampiezza del suo sentire – è ingiusto da parte di chiunque giudicare morale o immorale il comportamento altrui, basandosi sulla propria personale concezione morale o – peggio ancora – su di un ideale morale non suo, ma fornitogli dalla società di appartenenza.
Affermavo, insomma, che il vero individuo morale è quello che non ha morale, che non agisce legato a schemi preordinati da altri, ma compie veramente e in modo sentito ciò che la sua coscienza gli detta.
Così avremmo potuto dire, per fare un esempio semplicistico, che è più morale un libertino che compie le sue azioni in pieno accordo con il suo vero sentire, di un asceta che mortifica il suo corpo in tutti i modi per non sentire e per sopprimere gli impulsi libertini che dal suo essere emanano.
Questo, naturalmente, vale solo in relazione all’individuo in questione e non in relazione a coloro sui quali le sue azioni possono ripercuotersi negativamente.
In poche parole, sostenevamo che la morale è solo un fatto puramente individuale, e in questa prospettiva intendo proseguire il discorso che Scifo aveva incominciato.
Il problema dell’aborto, infatti, non può essere in realtà legato ad altro che a chi si trova in quella particolare situazione: dover scegliere se mettere al mondo o meno un’altra creatura. E’, quindi, un problema non generalizzabile, né di competenza della società, ma è individuale e, come tale, agganciato a una situazione in cui esso si può presentare.
Dal punto di vista morale, si può affermare che il problema appartenga, al massimo, ai potenziali genitori che si trovano di fronte alla questione e che la soluzione della questione stessa non può venire risolta con l’imposizione dall’esterno, ma deve essere lasciata alla coscienza di coloro che vivono direttamente la situazione. Solo loro, infatti, sono in grado di sentire se, in piena coscienza, possono davvero espletare il compito, assumersi la responsabilità che, più o meno volutamente, si trovano a dover affrontare.
Essere genitori vuol dire avere l’obbligo interiore di cercare di dare ai figli il massimo che si può loro dare, e questo non riguarda certo in prevalenza l’aspetto materiale: riguarda invece soprattutto quella sfera emotiva fatta di calore, affetto e amore, in cui una nuova vita ha bisogno di essere nutrita e accresciuta. Certo, l’uomo non è mai uguale da momento a momento, e una decisione presa oggi in piena coscienza può domani essere anche vista e percepita come una decisione sbagliata, come un errore che, se fosse possibile, non verrebbe più ripetuto.
Ebbene, figli cari, ciò rientra in quella necessità di esperienza di cui parlavamo all’inizio; e ricordate anche che ciò che conta – allorché verrà fatta l’autocritica sulle proprie azioni, all’abbandono del corpo fisico – non è tanto la conseguenza che la decisione avrà portato, quanto l’intenzione con cui quella decisione è stata posta in essere.
Qualcuno potrebbe obiettare, a questo punto, che nei nostri discorsi abbiamo proprio trascurato il principale oggetto della questione, proprio colui per il quale si reclama il diritto alla vita. Ebbene, figli, lasciamo da parte il fatto che, in realtà, fino al momento della nascita il potenziale bimbo non è ancora altro che una parte stessa della madre: se è il destino dell’entità che deve occupare quel posto che vi preoccupa, annullate le vostre preoccupazioni in quanto essa è proprio quella che meno soffre; nessuno le può negare il diritto alla vita, poiché anche al di fuori di un corpo di carne ed ossa è viva; e anche posto il caso che non sapesse già in partenza il destino riservato alla sua nascita in quel particolare caso, l’esperienza le è comunque utile e, inoltre, l’occasione per ritornare in un veicolo fisico nel quale avanzare, lungo il suo cammino, è solo rimandata al momento in cui avrà assimilato e compreso l’esperienza che ha appena affrontato. Moti

1  Il canto dell’upupa, pag. 109 e segg.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte seconda, Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

La necessità delle esperienze

Si chiede Caterina: “La coscienza ha bisogno di attingere ai dati che le servono. Può aver bisogno di attingere da un’adozione, da un bambino di zero giorni, o dalla vendita di organi. Se regolamentiamo qualcosa possiamo cambiare i dati che servono alla coscienza di qualcuno? A quella coscienza servono i discorsi su cosa è giusto? Nel divenire un venditore di organi può attingere dati dai discorsi di qualcuno e cambiare idea? Anche sì, anche no. Quindi non si può far nulla. All’infuori che rispettare tutte le esperienze che servono alla coscienza. E aspettare che le esperienze si esauriscano?”
Una coscienza è spinta dalla necessità di acquisire comprensioni e in questo suo tentativo non è la morale a trattenerla.

continua..

I limiti della morale e la necessità di sperimentare della coscienza

Gruppo di approfondimento del Sentiero contemplativo, sabato 9 novembre, ore 15,45-18,30.
Il tema:
La piena manifestazione di sé e il pieno dimenticarsi per lasciare spazio a qualcosa di più vasto.
Osare esistere ed essere.
I limiti posti dalla morale e le necessità della coscienza di sperimentare.

Immagine tratta da www.ilpost.it, Keith Haring.

Chi crea la realtà in cui viviamo?

Dice Eddy: “..è possibile che per capire che l’energia atomica è pericolosa si debba arrivare a tragedie della portata di Chernobyl o di Fukushima? O buttare una bomba su Nagasaky?
Sicuramente questi avvenimenti hanno permesso di comprendere qualcosa a molti esseri, ma non vi sembra eccessivo, folle, malsano?..”
L’Assoluto, se è assoluto, contiene in sé tutte le possibilità; se così non fosse sarebbe solo parte tra parti.

continua..

Giusto, non giusto

Tratto dal periodico Vidya, Novembre 2009

Giusto e non-giusto, come ogni altra coppia di opposti, appartengono al mondo del divenire; sono il risultato di una frammentazione, di un vedere parziale perciò imperfetto. Il non-giusto, come il giusto, nasce infatti da una concezione riduttiva della Vita, dall’incapacità da parte della coscienza di accogliere in se stessa la totalità.
All’individuo, nel suo viverre fondato sul dualismo, il non-giusto fornisce un alibi alla “guerra” e ammanta la sua coscienza di “eroismo” e “nobiltà”. Le crociate nascono dalla passione, che è cieca, e, nel voler imporre il “giusto”; esse non si avvedono di imporre l’ingiustizia, che è assenza di comprensione, è auto-affermazione e violenza.
Ciò che è moralmente giusto per un individuo può non esserlo per un altro e, per lo stesso individuo, quello che è giusto oggi può non esserlo domani. La morale è frutto di opinione, è un parto della mente, un prodotto dello spazio e del tempo. Qualunque giudizio, dunque, è mutevole e sempre inesatto. Il Giusto tuttavia esiste, a livelli di Principio, e alla sua nota universale, che è l’imparzialità, tentano di rifarsi le leggi umane nel regolare i rapporti interindividuali. Ma l’individualità è, per sua natura, faziosa; agisce sotto la spinta dell’attrazione-repulsione; pareggia sempre per se stessa, innanzitutto, e, momentaneamente, per questo o per quello. L’individualità è giustiziera. La sua giustizia, perciò, non può essere Giusta. La Giustizia appartiene solo all’Anima. E l’Anima non giudica e non condanna. E’ di là dal sentimento; fa solo aprire gli occhi alla coscienza perché veda, perché ritorni consapevole, anche se questa potrà agire verso se stessa senza amore, come ha sempre fatto con tutti, giudicandosi e condannandosi. La sofferenza, allora, pur inevitabile, non sarà inutile se servirà a disporla alla comprensione, sia dell’errore-oggetto, sia di colui che lo ha commesso-soggetto. Ma per comprendere il “giudicato” bisogna porsi al di là del “giudice” (la mente), in quel punto al centro che consente al riflesso di coscienza incarnato di ricongiungersi al suo Principio, a quell’Uno che è Saggezza e perciò libertà dal giusto e dal non-giusto.