In qualunque posto Tu risieda,
dovunque Tu sia,
qualunque cielo Tu possa occupare,
qualunque dimensione Ti appartenga,
io a Te dedico la mia gioia,
io a Te dedico la mia allegria,
io a Te dedico le mie passioni,
io a Te dedico i miei desideri,
io a Te dedico la mia sofferenza,
preghiera
Se ancora ha un senso pregare
E quale può essere la mia preghiera, se ancora ha un senso pregare?
Come posso rivolgermi a Te, se tu non sei una persona?
Come posso pregarti per chiederti qualcosa, quando già tutto tu mi dai prima che lo chieda?
Come posso pensare di capire qual’è il mio bene e quello domandare, quando il mio sguardo non va oltre le mie limitazioni ed il mio giudizio di conseguenza è così parziale?
Posso pregare solo di scusare la mia presunzione di sostituirmi a te nel sapere che cosa mi è necessario, senza considerare che solamente il vero bene è la vera mia necessità, non quella che credo tale.
La mia preghiera può essere solo un ringraziamento.
Sull’esperienza della preghiera, del pregare e del soggetto che prega
Serena chiede di approfondire l’esperienza della preghiera: il tema è molto vasto, proverò a gettare le basi di una possibile discussione.
– La preghiera è un movimento verso.
Un andare attivo, alimentato da un atto di volontà dell’orante.
– Un andare passivo, privo di volontà, un essere condotto a.
Nell’intimo della persona nasce una spinta a pregare.
L’interpretazione comune secondo cui la persona in preghiera si rivolge a un Tu, è solo una delle possibili letture dell’esperienza.
La persona sente nel proprio intimo la necessità di andare oltre sé, di aprirsi ad altro, di ricevere conforto su un piano diverso da quello umano e identitario: questo nella preghiera attiva.
Oppure avverte, nella preghiera passiva, il sorgere del pregare come forza che la attraversa e la trascende.
Il pregare è l’infinito di “io prego”, è l’esperienza della preghiera che trascende il soggetto, indipendente dalla sua volontà.
Anche quando il pregare ha un soggetto e un oggetto, un “io” che prega e un “Tu” cui si rivolge, in realtà, in sé, l’atto del pregare è l’esteriorizzazione della spinta che conduce dal limite personale al non limite, dal piccolo ambito dell’io allo spazio non condizionato cui ci si affida, dalla dimensione del soggetto che prega a quella del soggetto che è pregato, dunque trasceso.
Un esempio: chi scrive è uso pronunciare questa frase prima di addormentarsi, o in situazioni che gli producono ansia: “Nelle Tue mani affido la mia vita”.
E’ una preghiera attiva, pronunciata attraverso un atto di volontà che posiziona la consapevolezza dell’orante nell’ambito della fiducia senza condizione, sposta la consapevolezza dal piccolo e ristretto fatto all’orizzonte senza fine.
In altre situazioni, quando nascono commozioni profonde, stati di gratitudine, consapevolezze che abbracciano l’insieme unitario delle realtà, l’orante pronuncia un “Grazie!” e questa è preghiera passiva: l’esperienza interiore fiorisce in una parola, in un ringraziamento che ha la tangibilità di una parola pronunciata. L’esteriorizzazione dell’esperienza interiore chiude il ciclo di ciò che è stato sperimentato: la parola è la forma materiale che completa l’esperienza che si è sviluppata su molti piani e che è completa solo quando è anche incarnata, resa fatto, manifestazione.
La preghiera è tale perché usa la parola; esiste anche la preghiera silenziosa che si sviluppa come evoluzione della preghiera orante, ma la preghiera nasce e prende forma nella relazione con l’orazione, attraverso il veicolo della parola che è, lo ripetiamo, solo esteriorizzazione di un moto interiore.
Anche la meditazione è esteriorizzazione di un moto interiore: la persona sceglie di fermarsi, o viene condotta a fermarsi, sedersi, coltivare lo stare. In questo caso la spinta diviene forma fisica, nell’altro caso diviene parola.
La preghiera può essere ritmica come nel rosario, può essere cantata come nella liturgia delle ore monastica, può essere semplice stare che sboccia nella contemplazione.
La forma ritmica e quella cantata placano e distendono la mente e conducono la persona incontro alla spazio neutrale che è il lievito della contemplazione: una mente agitata, o focalizzata sul particolare, è schermo ottuso che non concede apertura, che non apre orizzonte. La preghiera ritmica permette la disidentificazione, la disconnessione dalla quale sorge poi lo spazio per la preghiera attiva o passiva e per la contemplazione dell’esistente.
La preghiera che si esprime attraverso l’orazione non è esperienza concettuale, non si prega con la mente: quando la preghiera è essenzialmente fatto mentale si stanno dicendo “le preghiere”, questa è esperienza altra dalla preghiera e dal pregare.
L’essere nel suo insieme prega: il corpo, l’emozione, la mente si dispongono all’esperienza, la esprimono, sono attraversati da essa.
La frattura tra sentire e vivere, tra coscienza ed identità si sana nell’atto del pregare, nel momento in cui la preghiera afferma se stessa, quando il pregare diviene tutta la realtà e il soggetto orante scompare: scomparendo il soggetto tutta la realtà è coscienza, stare, essere.
L’illusione dello spirituale e la semplice realtà della vita
In ambito spirituale ed esistenziale nulla di ciò che apparteneva al mio immaginario di ricercatore è divenuto realtà.
Non saprei nemmeno di cosa fosse pieno quell’immaginario, c’era solo una tensione a divenire altro e quella spirituale mi sembrava la strada che in quella alterità mi potesse condurre.
Carlo Maria Martini nelle parole di Enzo Bianchi, priore di Bose
«Dapprima impariamo, poi insegnamo, poi ci ritiriamo e impariamo a tacere. E nella quarta fase, l’uomo impara a mendicare»
(proverbio indiano citato da p. Martini alla fine del suo incontro a Bose con la comunità, gli amici e gli ospiti il 24 novembre 2002)
La preghiera, il dialogo interiore
Presentiamo un testo illuminante del Cerchio Firenze 77 sulla preghiera e sul pregare, tratto dalla pagina Facebook del Cerchio.
In sé le parole di Kempis esauriscono l’argomento e poco possiamo aggiungere. Nella nostra didattica noi parliamo di “dialogo interiore” e preferiamo questa espressione perché meno condizionata.