Luglio 2010
Luglio 2011
Agosto 2011, Sestino (AR)
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dove la mente vede il deserto, l'esperienza contemplativa svela il seme della vita
Il canto dell’usignolo giunge dalla finestra spalancata insieme alla brezza fresca dell’aurora;
tutta la notte è stata pervasa del suo canto.
C’è un vento fresco che viene dai monti; al riparo della casa osservo gli alberi, la legna da sistemare e mi scorrono nella mente le scene del quotidiano: la Libia, le persone che attraversano il mare, il canto instancabile delle capinere, il dolore di persone che conosco.
Sono come una stanza senza porte e finestre.
Non c’è attesa; non c’è nemmeno un disporsi.
Nell’inverno del 2009-2010 abbiamo fatto un percorso con un gruppo di artisti ed educatori con lo scopo di gettare le basi di una pratica educativa che integrasse tutti gli elementi costitutivi dell’essere umano: fisico, emotivo, cognitivo, spirituale.
Grazie alla disponibilità di Laura Viezzoli tutti gli incontri sono stati filmati: negli undici brani di seguito riportati si possono trovare i passaggi più importanti dei primi due incontri. Il materiale di altri tre incontri verrà selezionato e pubblicato in futuro.
1- Preparazione
Ogni volta che iniziamo un’esperienza, ogni volta che incontriamo l’altro nella forma di un gruppo, chi guida è sempre in tensione.
Noi siamo un organismo composto da tante cellule. Chi guida è come se fosse il terminale di queste cellule, è come se con il suo sentire di coscienza le tenesse allineate.
All’inizio bisogna creare una condizione in cui chi è condotto sia flessibile.
Ciò che voi potete fare è abbandonarvi, diventare fluidi, concavi.
Ci sarà tra di noi uno scambio sulla base di un sentire più vasto, qualcosa che trascende l’ego e l’identità.
Il nostro fine è che la persona possa vivere la propria personalità formata, o in formazione, e nel frattempo consapevolmente trascenderla.
Si conosce con il corpo, con l’emozione e con la mente, si comprende con la coscienza.
Quando dai nostri corpi è stata fatta l’esperienza, i risultati si iscrivono nella coscienza, e quando questo avviene è per sempre. Il nostro compito è fare in modo che le persone con cui entriamo in relazione possono vivere compiutamente la propria fisicità, emotività, cognitività, ma anche il proprio sentire di coscienza.
Al centro c’è la coscienza, il sentire.
Voi potrete essere di qualche aiuto a qualcuno se vivete innanzitutto dentro di voi la dimensione della coscienza, se i vostri pensieri, emozioni e intenzioni, sono guidati dalla coscienza.
2- I 3 diritti: diritto a manifestarsi/diritto a essere riconosciuti/diritto a trascendere.
Diritto a manifestarsi.
Arriva una persona da noi, con una domanda esistenziale. Chi è questa persona? Cosa chiede a se stessa, alla vita? Cosa deve imparare e cosa deve trascendere e noi come possiamo aiutarla se possiamo farlo?
Capacità in un gruppo di vedere e riconoscere il singolo individuo.
La persona che si presenta a noi è innanzitutto coscienza, che si manifesta in un corpo, con delle emozioni e dei pensieri.
Inchinarsi di fronte all’altro e al suo mistero.
Trasformazione dell’altro e di noi stessi.
Se osservo più in profondità, entro in un ascolto più profondo di te.
Quello che vediamo manifestato nella forma come pensiero, emozione, azione, non è altro che emanazione della coscienza.
L’incontro con l’altro è il miracolo dell’incontro con la coscienza, se abbiamo chiaro questo, troveremo la via per costruire una relazione che agevoli il percorso di trasformazione dell’altro e di noi stessi.
3- Oltre gli schemi e le etichette
Mente/emozioni/corpo/ costituiscono l’Ego. L’ego è il veicolo della coscienza, la nostra identità.
L’altro è sempre un mistero. Non sappiamo quasi nulla dell’altro che giunge a noi.
Alla domanda: “Chi sei tu?”, abbiamo spesso la pretesa di dare una risposta e di definire l’altro, sulla base dei nostri schemi.
Assembliamo elementi di conoscenza relativamente alla nostra interpretazione, che è sempre soggettiva.
Se non lo riconduciamo a nessuno schema, l’incontro con l’altro sarà basato sempre sul rispetto.
“Ti conduco da qualche parte, come tu mi conduci da qualche parte”.
L’incontro con l’altro è la possibilità di conoscere noi stessi.
4- Da ego ad amore
I veicoli sono plasmati dalla coscienza e tramite essi, la coscienza apprende e si misura.
C’è un filo che è comune a tutte le vite. Tutte le individualità vanno dalla edificazione della propria egoità alla trascendenza. Il percorso è da ego ad amore
Se mi dimentico di me appare l’altro al mio sguardo.
In che cosa posso esserti utile? Semmai potessi esserti utile, sono qui. Qual è la tua necessità?
L’altro si sta trasformando, come noi.
Per sapere dov’è l’altro, è necessario sapere dove siamo noi.
Non lo sapremo mai, ma possiamo avere alcuni elementi per indagarci.
L’ ego è una emanazione della coscienza. Osservando l’ego capisco cosa la coscienza sta proponendo.
5- Coscienza come film a puntate
Cosa si intende per coscienza?
La coscienza si sviluppa come in un film a puntate e ad ogni puntata faccio un passo; più la persona vive le diverse puntate, più fa esperienza.
Si passa dall’egoità primaria alla dimensione dell’amore, dove mi dimentico di me per chiedere “ di cosa hai bisogno tu?”.
Un bambino nasce con il corpo fisico, ma gli altri corpi sono da strutturare. Nel primo settennio si struttura il corpo emotivo (che si dispiega nel secondo), nel secondo il mentale (che si dispiega nel terzo) e nel terzo la coscienza(che dal 21° anno è “allacciata” ai suoi corpi inferiori).
Le esperienze vengono registrate nella coscienza, la quale diventa sempre più complessa e si costituisce come il corpo fisico e come tutti i corpi.
Questo percorso non lo si può fare in una sola vita, ma in tante vite, cioè in tanti film e ogni volta con una nuova rappresentazione. L’ego è una rappresentazione.
L’altro si può comprendere solo se ci è chiaro che lui/lei è coscienza.
Tu chi sei? Questa tua rappresentazione di che cosa mi parla? A che punto sei? Cosa posso fare per te?
Questo è il miracolo di accompagnare qualcuno, essere compagno di viaggio.
Il miracolo dell’educatore dev’essere visto alla luce di questa consapevolezza altrimenti siamo ciechi che accompagnano ciechi.
6- Scomparire e specchiarsi
Necessità di fondare meglio la propria identità e risolvere alcune affermazioni attorno a se stessi.
La maggior parte delle persone ha qualcosa da risolvere sul piano dell’identità.
L’altro specchia te e tu specchi l’altro.
Risuonare in un ambiente
Quando l’altro si presenta , il primo elemento è l’osservazione.
Si osserva perché dentro di noi c’è una concavità che dice “so che tu sei un mistero”.
L’umiltà di colui che osserva senza nessuna presunzione.
Se “il pifferaio magico” si dispone all’ascolto tutto l’organismo è permeato di ascolto.
Tutto fluisce più liberamente quanto più basso è il condizionamento egoico.
Se c’è troppa aspettativa e giudizio, non può esserci una sana accettazione di sé.
Se incontri qualcuno che ti lascia, impari a lavorare sull’abbandono.
L’importanza di non fuggire dalla vita,
Nella disperazione l’uomo precipita e poi nel fondo intravede una luce, una possibilità che anche se non la vedeva, c’era anche prima.
L’incontro con l’altro è la possibilità di conoscere noi stessi.
7- L’ambiente è fatto dal pifferaio, dall’organismo e da tante piccole cose.
Quando si entra in un ambiente si entra dentro un sentire di coscienza perché tutto parla del sentire di coscienza.
E’ fondamentale che lo stato emotivo di chi guida un gruppo sia quieto, che l’ambiente cognitivo sia fluido; ed è fondamentale che chi guida sappia cosa vuol dire risuonare sul piano della coscienza e non sul piano dell’ego.
Quando risediamo nel sentire di coscienza siamo in una neutralità, non c’è paura e condizionamento, ma il libero fluire della parola e del gesto di quel momento.
Viene per intuizione: l’intuizione è un affluire di una chiarezza in un istante.
A volte diciamo che quando l’ambiente non è favorevole tutto diventa più complesso, ed è vero in parte. L’ambiente complesso ci può far trovare le risposte dentro di noi.
La domanda di base è: “Come posso stare dentro di me?”
Il fare non è un problema quando c’è un giusto sentire. Quando si è in contatto con il proprio sentire si comprende di cosa l’altro ha bisogno. Se il nostro sentire risuona ad un certo livello possiamo condurci anche l’altro, se quel sentire gli appartiene.
La nostra logica non è quella del fare ma dell’essere.
Colui che indossa le vesti dell’educatore deve aver fatto esperienza della vita.
Non si tratta di condividere tecniche ma un sentire comune che utilizza varie modalità.
La relazione e tra un sentire e un altro sentire.
Per liberare un sentire dev’esserci un ego sufficientemente strutturato e fluido.
8- Giudizi e aspettative
L’ educatore come si può proporre all’altro sapendo che questo ha un’aspettativa?
L’altro ha sempre un’aspettativa e un giudizio su di noi. Si sta aspettando qualcosa da noi, ma prima sta giudicando se stesso e si aspetta qualcosa da se stesso.
Giudizio e aspettativa sono tra le catene principali dell’ego. L’altro spesso dice: “Non sono adeguato” e va a monitorare se tu sei adeguato.
E’ fondamentale che l’educatore sia oltre il giudizio e l’aspettativa: un educatore può accompagnare l’altro se ha visto come tutto ciò opera dentro di sé.
L’educatore è colui che dice: “Riconosco alcuni elementi, pian piano ti aiuterò a sciogliere quegli elementi che ti imprigionano, se e come mi sarà possibile farlo”
9- La danza dell’educare
L’organismo danza.
Nei gruppi e nelle classi, le persone e i bambini sono estremamente ricettivi e insieme si può creare una danza.
L’ego non come problema ma come rappresentazione
Nella via spirituale spesso l’ego è stato un problema. E’ necessario andare oltre questo schema.
L’ego è espressione di qualcosa che sta accadendo dentro di te, che dev’essere compreso e si manifesta come conflitto, resistenza.
L’ego non è in contrapposizione allo spirito ma è la manifestazione dello spirito.
L’ego è lo strumento per arrivare al costituirsi di una coscienza sempre più ampia.
Perché ci sia evoluzione c’è bisogno di ego, di rappresentazione e manifestazione.
L’ego è una rappresentazione della coscienza.
Osservando le dinamiche dell’ego possiamo capire tanto su di noi. Se vediamo le nostre paure, egoismi, chiusure, capiamo ciò che la nostra coscienza deve apprendere e su cosa si sta misurando.
Quindi l’ego non è un nemico, ma l’espressione di una personalità.
10- Spesso nei confronti degli altri non ci sentiamo adeguati.
Non siamo adeguati rispetto a che cosa?
Chi afferma che non è adeguato?
Perché si esprime su di sé un giudizio di non adeguatezza? Vorremmo essere ciò che non siamo.
Come si forma un ego? Con l’esperienza. E chi ci porta nell’esperienza? Chi è il regista? La coscienza ci porta nell’esperienza e poi l’esperienza torna alla coscienza. C’è un impulso di avvio e uno di ritorno. Noi cerchiamo le esperienze di cui la coscienza ha bisogno.
L’interpretazione dell’esperienza deriva dai nostri corpi ma anche dal sentire di coscienza.
Più il sentire di coscienza è vasto più l’interpretazione è vasta e viceversa.
Non sappiamo quando il percorso è finito, ma sappiamo che c’è un cantiere aperto e lo vediamo quando la vita ogni giorno ci mette di fronte le sue possibilità.
Se noi lo sappiamo possiamo vedere non degli ostacoli, ma delle opportunità.
11- Buttarsi a capofitto nella vita. Ogni stagione della vita è un’opportunità.
Ogni difficoltà ci modella. Qualsiasi ostacolo o paura è li per essere superato ed è alla nostra portata.
L’ego a volte ci fa credere che non è possibile superare l’ostacolo ma l’essere umano è in grado di affrontare e superare situazioni molto dolorose.
Mente/emozioni/corpo costituiscono l’Ego. L’ego è il veicolo della coscienza, la nostra identità.
La comprensione è quindi limitata se ci fermiamo a ciò che appare.
L’altro è sempre un mistero. Non sappiamo quasi nulla dell’altro che giunge a noi.
Alla domanda: “Chi sei tu?”, abbiamo spesso la pretesa di dare una risposta e di definire l’altro, in base ai nostri schemi.
Assembliamo elementi di conoscenza relativamente alla nostra interpretazione, che è sempre soggettiva.
Se non lo riconduciamo a nessuno schema, l’incontro con l’altro sarà basato sempre sul rispetto.
“Ti conduco da qualche parte, come tu mi conduci da qualche parte”.
E’ sempre un tornare. Ad ogni attimo.
Una casa ed il gesto del sedersi sul pavimento, lungo una parete; da quell’osservatorio nella penombra vedere scorrere il movimento del mondo.
Fermo, il tempo è fermo e bizzarra è questa percezione del divenire.
Immobile, osservo le palpebre battere: è solo rappresentazione.
Giorni di parole, giorni di silenzi;
giorni di accadere concitati, giorni di apparente immobilità;
giorni di quiete, giorni di sberle.
Posso solo prendere atto di ciò che accade e non ho nulla da aggiungere.
E’ un’esperienza che sorge dal nostro rapporto con il presente quando viviamo nella fiducia.
E’ la fiducia che illumina ogni attimo del nostro lavoro, dei nostri affetti, della nostra vita ordinaria e conferisce ad ogni accadere una presenza ed una integrità che possiamo definire dignità.
Ciò che in tutti i momenti ci attende è quel piccolo gesto, quell’accadere che già tante volte abbiamo vissuto e che, oramai, nemmeno più vediamo.
La nostra sfida è nel non cadere nell’atteggiamento del “ti conosco!”, ma rimanere aperti alla possibilità che in ogni cosa che accade – la più piccola e la più sperimentata – sempre si cela un abisso di senso che quasi mai abbiamo indagato.
La sensazione sale come un’onda,
abbandoni;
l’emozione vibra e pervade,
abbandoni;
il pensiero diventa circolare,
abbandoni.
Cosa rimane da fare?
Ad ogni sorgere segue
un abbandono:
qualunque aspettativa,
qualunque desiderio,
qualunque giudizio fiorisce
in un abbandono.
Vedi l’onda che sorge?
E’ l’atto di consapevolezza.
La vedi quando?
Quando è così espansa
che ti ha travolto?
O appena si increspa?
Non ha importanza,
quando la vedi l’abbandoni:
chi abbandona presto
non viene decorato
e chi è lento non viene bastonato.
Ciascuno manifesta il suo modo,
che non lo qualifica, ma lo nega
se può affermare: “io sono così,
ma questo mio essere così è privo
di qualunque interesse per me”.
Il mio modo non mi qualifica,
non mi identifica.
Io non sono il mio modo.
Vedo l’onda che sorge e l’abbandono.
Cosa significa abbandonare?
Un movimento della mente
verso uno Zero.
Zero, Spazio, Niente, Vuoto,
Assenza, Silenzio.
La mente sposta l’oggetto della sua consapevolezza da un pieno
(di sensazione, di emozione, o di pensiero)
ad un niente, si disidentifica dai suoi
oggetti e creazioni e accetta di posarsi
su di uno spazio vuoto.
• la mente diventa consapevole
• la mente abbandona il suo oggetto
• sorge uno spazio, per dinamica propria, non per opera della mente;
in quello spazio si manifesta un Niente.
Niente si manifesta di ciò che posso attendermi:
è il Niente che mi annulla e mi azzera
e si afferma uno Spazio che non è fatto di me,
che non dice nulla di me
e non dice nulla del Niente
eppure qualifica il Niente
come Essere.
Senza accadere, senza scorrere
senza volontà: E’ e basta.
Torna l’onda e si increspa
e abbandono e torno a Zero.
Così, così e ancora così.
Non c’è percorso, non c’è via
di perfezione, non c’è evoluto e non evoluto, maestro e discepolo.
C’è l’incessante ritorno a Zero.
Niente altro.
Tutti i paradigmi dell’uomo si svuotano
e le strutture mentali si frantumano
in questo atto che accade adesso:
abbandono, abbandono e abbandono ancora.
Non c’è via. Perche negare il passo dopo passo,
il ruolo dell’apprendimento e dell’insegnamento,
se tutto nella vita è apprendimento?
Perché tutto questo è nelle logiche della mente, è un costrutto della mente.
Da un altro punto di vista non esiste niente di tutto questo
se non il puro atto di resa, che non ha ne passato ne futuro,
ma solo un presente fatto di Niente.
Accade il Niente.
16.12.2002
Osservate questa piccola scena che è accaduta, che cos’è? Definitela. Una scena di disconnessione(2): attraverso la relazione tra me e lei, una relazione diretta, fuori da qualunque schema, abbiamo cercato di indurre una disconnessione, d’accordo?
E allora ditemi, non è la stessa operazione che una persona fa quando si mette davanti al muro a fare meditazione? Che cosa fa una persona quando si mette in una condizione meditativa?
Disconnette rispetto ai processi della propria mente, giusto? Ora guardate che cosa facciamo noi durante questi incontri: continuamente voi siete ricondotti a disconnettere dai processi che vi portate appresso e costantemente siete condotti ad aderire al presente che si manifesta, che è costituito dalle mie parole o da una situazione, o dal silenzio.
Stiamo compiendo un tentativo di superare le forme stereotipate di meditazione e di disconnessione per andare verso una pratica continua e costante di disconnessione: non l’ora o la mezz’ora che mi siedo davanti al muro, ma sempre, sempre, sempre, io ricordo che sono identificato con la mente e mi disconnetto, voglio disconnettermi perché sono stanco, voglio lasciar andare la mia mente.
Questa, secondo me, è una delle particolarità del nostro lavoro: sarebbe più facile vedersi e praticare una forma collaudata di meditazione: più difficile è in situazioni di vita comuni, dove pare si faccia dell’altro, dove invece nella sostanza si è richiamati costantemente a disconnettere.
Allora guardate come tra questa pratica e la vita c’è molta continuità, molta vicinanza, molta di più rispetto all’atteggiamento che sia assume nella meditazione comunemente intesa.
Vorrei arrivare alla meditazione, alla contemplazione come vita, e vorrei che ci allenassimo in queste situazioni, che comprendeste che queste situazioni sono fino in fondo momenti di meditazione in cui voi costantemente disconnettete rispetto a ciò che sorge nella vostra mente.
Ora né qui, né in meditazione, nella mente c’è mai il vuoto, se non in una fase, mi si perdoni l’espressione, “molto avanzata” del cammino.
Nella mente c’è sempre qualche oggetto, c’è sempre qualcosa che transita. Ieri, proprio lei mi citava le parole di un libro di un tibetano che diceva che il vuoto c’è tra pensiero e pensiero, e voi sperimentate che il vuoto c’è tra disconnessione e disconnessione, tra pensiero che lasci andare e pensiero che lasci andare.
Ogni volta si torna sul presente, che è la mia parola, che è la campana, che è la luce della candela, che è il profumo dell’incenso..
Uno ritorna al presente, l’attimo del ritorno è l’attimo del vuoto, dell’assenza: va da sé che quel vuoto in una mente addomesticata è sempre più vasto. E va da sé che ad un certo punto la mente è sempre meno abitata da pensieri e sempre più permeata di un silenzio vasto e profondo, finché qualcosa di più vasto di noi dispone che la partita va chiusa e la mente viene dissolta.
Vorrei trasmettervi la consapevolezza del nostro stare insieme come pratica meditativa e contemplativa: uno stare insieme che per alcuni aspetti nutre la mente, perché ci sono concetti che vi giungono e strumenti che acquisite, ed è giusto che sia così, perché la mente della persona deve anche sofisticarsi e deve diventare sempre più attrezzata, ma dall’altro, costantemente, siete ricondotti all’abbandono e alla disconnessione.
Allora, imparate a stare nella vita, a vivere una situazione, a interpretarla e ad abbandonarla; viverla, interpretarla, abbandonarla: ditemi se questo non è lo spettro entro cui si manifesta l’esperienza umana!
Per interpretarla intendo che ne cogli le intime strutture, vedi ciò che la mente porta come giudizio e come aspettativa su tutto ciò che gli si presenta; così facendo, quel qualcosa, diventa parte e struttura della tua mente e la conduce ad una sofisticazione sempre più alta.
L’attimo dopo l’abbandoni, e lì si manifesta quell’assenza, quel vuoto: piccoli o grandi attimi.
Qui si presenta tutta la questione del vivere compiutamente la propria identità e nello stesso tempo abbandonarla: vivere compiutamente la manifestazione di sé e nello stesso tempo abbandonare la manifestazione di sé, uscendo fuori da quelle visioni dualistiche che ci sono anche in vie non dualistiche.
Cosa voglio dire? Cos’è la visione dualistica? Da un lato la meditazione, dall’altro la vita. No, bisogna uscire fuori da questa separazione, tutta la vita può diventare meditazione e contemplazione, e tutta la vita può essere anche manifestazione di sé!
E allora come la mettiamo? Qui è l’interessante, perché finché c’è mente, finché c’è identità, finché quella Vastità non decide che il nostro esserci come mente individuale è finito, la vita è necessariamente quell’oscillare tra identità e non identità: ora emerge il mio esserci, ora la disconnessione dal mio esserci e con essa quello spazio. E’ questo fluttuare, ma non con un artifizio ritmico: allora, io sono in monastero e ho le mie ore di meditazione e di preghiera e quando non ho quelle allora studio, lavoro: passo dalla preghiera alla vita, dalla vita alla preghiera. Tutti voi sapete benissimo che in tutte le vie c’è il problema di far diventare la meditazione, la preghiera, la contemplazione, vita!
Noi ci andiamo diretti su questo, diretti. Non creiamo situazioni particolari dove si raggiungono stati particolari; ci andiamo diretti, voi siete qui e siete interpellati ogni attimo nel vostro intellelletto, nella vostra identità, nell’espressione di voi ma anche nel lasciare andare tutto questo: lasciarlo andare, lasciarlo andare, lasciarlo andare, capite? Pratichiamo la meditazione mentre parliamo, non separiamo, non ritmiamo tra meditazione e parola.
Secondo me il grande scoglio è quello di vivere tutti i piccoli momenti in cui tu sei al computer, tu sei con i tuoi malatini, in cui lei è con i suoi clienti, e lì riuscire ad abbandonare: riuscire da un lato a vivere questa manifestazione di sé che deve esserci, ma dall’altro, mentre la vivi o l’attimo dopo, sorriderci ed essere lì, dentro la cosa che fai, libero da qualunque finalità, lì, dentro quel lenzuolo che stai piegando dopo che il tuo paziente ci ha fatto la pipì! Per un attimo sei completamente colei che si manifesta con il suo giudizio e la sua aspettativa e per un altro attimo sei semplicemente colei che sta dentro l’azione, dentro quel presente che accade, libera da giudizio e aspettativa, senza mordere l’osso, senza niente.
Di più: mentre sei nel giudizio e nell’aspettativa li vedi e mentre li vedi, mentre accadono sai che anche loro sono la Realtà, sono mente è vero, ma se tu non dividi tra mente e realtà, allora sono la Realtà; così impari a sorriderci e loro muoiono!
Quante volte le situazioni che incontri ti costringono a mordere l’osso e ti rodi, ti rodi, ti rodi. E invece impari, da un lato a vederti mentre ti rodi e dall’altro a lasciar andare. In fondo il rodere l’osso è una manifestazione di sé, il lasciar andare è un andare oltre sé, ma entrambe sono la Realtà, non è che il rodere sia illusione e il lasciar andare Realtà!
Che cosa consegue da questo? Consegue qualcosa di molto semplice, ma di veramente semplice: accade che quel lasciar andare ti risucchia, quel gesto del lasciar andare ti prende, si espande, perché in quel lasciar andare interviene qualcosa di più vasto che pian piano ti risucchia. (3)
Attorno a questo ci sarebbe da discutere a lungo, ora getto soltanto dei sassi, poi durante la discussione li sviluppiamo. Voi capite quante cose ci sono da dire su questo, ci sarebbe da fare tutta una analisi su tutto ciò che l’uomo recita da migliaia di anni, quando si ferma e dice” questo è un momento speciale”; stiamo cercando di rovesciare tutto questo, io credo che per persone nuove, in tempi nuovi, ci vogliano interpretazioni nuove, bisogna avere il coraggio di osare interpretazioni nuove, sapendo una cosa fondamentale: il processo di trasformazione non è nelle mani nostre.
Tutto questo non funziona se partiamo dal presupposto che a trasformarci siamo noi: se a trasformarmi sono io allora bisogna che mi applichi in un’ascesi e in una disciplina: ma se a trasformarmi non sono io, mi fate capire, se l’artefice della mia trasformazione non sono io ma è qualche cosa di più vasto di me che interviene nello spazio aperto dal mio “lasciar andare”, l’unica cosa che conta è il mio mettermi a disposizione. Io posso andare al night, fare le mie cose e poi mettermi a disposizione, non ha niente a che fare con la vita morale e con tutto il resto, se permettete.
C’è quello che è andato a donne per tutta la vita – vi ricordate questo esempio? lo faceva Soggetto – e poi arriva la Vita e gli spazza via la mente, e invece tu sono cinquanta anni che sei lì in meditazione, davanti al muro, immobile come una statua, e sei ancora inchiodato ai tuoi processi!
Conta il disporsi, il disporsi all’abbandono, avere quella leggerezza lì, avere quella disponibilità a dire basta, a che il “basta” si affermi.
Avere quella disponibilità a dire basta, non è una questione di doti morali, mi spiace! Tu puoi anche essere pieno di contraddizioni e dov’è il problema se con queste contraddizioni ci fai pace, ci convivi e trovi il modo, non caricandole, non enfatizzandole, non dando loro importanza, e poi ti abbandoni a qualche cosa di più vasto e dici “va bene in me c’è anche questo, ma c’è anche quella vastità e io sono disposto ad abbandonarmi..”. Questo processo avviene consapevolmente o inconsapevolmente, in qualcuno avviene inconsapevolmente e lui si abbandona senza nemmeno saperlo, ha quella leggerezza.
Se entriamo nella logica che non siamo noi a trasformarci ma siamo trasformati, le cose bisogna che impariamo a guardarle da tutto un altro punto di vista, non dal punto di vista dell’ascesi e non dal punto di vista delle discipline, da un altro punto di vista.
Questa storia del lasciar andare, voglio prendere lo spunto da una cosa che diceva lui in una delle passate riunioni: lui ad un certo punto è uscito fuori con una affermazione “perché tanto siamo tutti quanti abbandonati!”, quella frase è interessante perché svela su che cosa lui costruisce la sua identità.
Una affermazione di questo tipo porta in luce un meccanismo mentale comune a tutte le menti: la costruzione dell’identità fondata sull’esperienza del passato, su ciò che sono stato, su quelle che sono le mie esperienze. Anche nella via interiore quanto è difficile lasciar andare l’identificazione con ciò che sono stato, con ciò che mi ha qualificato, con ciò che in qualche modo ha espresso il mio essere? Allora, lui ha vissuto l’esperienza dell’abbandono, oggi a cinquanta anni, ancora l’esperienza dell’abbandono è ciò che lo qualifica come individuo. Allora, innanzitutto di fronte alla domanda ” chi sei tu?” risponde “io sono un abbandonato!” poi sono molte altre cose, ma innanzitutto sono un abbandonato.
Guardate come operano le strutture della mente nel presente! Messa così non c’è soluzione: finché tu tieni dentro di te quel programma che recita “io sono un abbandonato” se permettete, non c’è soluzione.
P: io ero quella, l’abbandonata, il mio essere individuo era basato su quello..
S: era basato su quello, come in altri era basato su un lutto, su una violenza. Vedi come le menti a volte recitano un qualcosa, lo danno per scontato e non si accorgono che è li che si stanno fregando, in quella identificazione con il loro passato, perché finché c’è quel passato in piedi il nuovo non può sorgere, come fa a sorgere, dove sorge? Non c’è alcun lasciar andare, non si apriranno spazi perché l’identificazione chiude ogni spiraglio.
P: Anche nel momento in cui sei consapevole dell’uno e dell’altro, però continui a tenere il vecchio, perché anche se ti dà dolore, è tuo, e finisci per cercare quello; è contorto effettivamente..
S: Cosa conferisce?
P: Una identificazione della mente che sente che c’è..
S: Che sente che c’è, specifica..
P: Che si riconosce, lei si è sempre vista così, e questo le da sicurezza, una sorta di sicurezza.
P: Le dà vita, esistenza.
S: Un senso d’essere, di esistere. Guardate che una delle questioni fondamentali nostre è il poter sperimentare il senso di esistere, innanzitutto, e poi di esistere distinto dall’altro, ma le due cose vanno di pari passo: il senso di esistere con il senso di esistere come individualità. Ma certe situazioni di dolore, ad esempio fondate su eventi tragici dell’esistenza, ci conferiscono una pregnanza, come una gioia ci dà una pregnanza, come una esperienza spirituale particolare ci dà una pregnanza, ci conferisce quell’intimo profondo senso di esistere.
Dicevamo, non ricordo più in quale gruppo, che ad un certo punto, lungo il percorso, all’inizio le montagne sono solo montagne, poi divengono straordinarie, poi ridiventano solo montagne; c’è una fase in cui anche lungo la via spirituale, la mente si nutre di esperienze particolarmente pregnanti, tipo esperienze spirituali di un certo rilievo: quella sensazione di vastità, quella sensazione di gioia, tutte cose che ti gratificano particolarmente e che sono la droga di tutti i viandanti della via interiore, che ogni tanto si fanno delle pere con questo! Allora vanno all’incontro con quel maestro lì, con quel maestro là, ovunque possono trovare queste forti sollecitazioni.
Questo è fisiologico lungo il cammino, ma ad un certo punto scompare, e scompare perché? Perché tendi ad abbandonare tutto ciò che è eccitazione della mente, e queste sono manifestazioni eccitatorie della mente anche se estremamente sofisticate. Ad un certo punto c’è solo una piccola normalità; diceva Suzuki -un maestro dello zen- l’illuminazione? Niente di straordinario, un fatto normale! La riduceva ad un fatto ordinario, interessante!
Ed ha ragione, finché l’illuminazione è un fatto straordinario tu sei ancora nei processi eccitatori delle mente!
Tante volte penso a quel che ha vissuto Ramana Maharshi dopo che da giovanissimo ha avuto questa manifestazione eclatante e ha trascorso lunghi periodi in stati di coscienza veramente particolari: se voi andate a vedere siamo dentro a tutto un ambito di manifestazione di una struttura mentale ancora attraversata da processi molto profondi che la disarticolano; il Ramana illuminato non lo vedi lì, in quelle manifestazioni vedi semplicemente una rappresentazione che avviene all’interno di un copione individuale e culturale.
Il Ramana illuminato lo vedi dopo, in quest’omino gentile che tutti i giorni faceva sulla sua collinetta lo stesso tragitto, che parlava pochissimo e stava quasi sempre zitto, gentile, riservato; lì lo trovi, non nei fenomeni che rappresentano una fase di passaggio, lì siamo nelle “montagne eccezionali” .
Dopo sono persone calate in una normalità, veramente in una normalità e qui sarebbe interessante comprendere a fondo quale è la “normalità” dell’uomo, perché è chiaro che questo termine si porta appresso un’ambiguità!
Tutto questo processo richiede l’abbandono del passato, vedete come le menti si riconoscono in uno stato, in una modalità: io sono l’abbandonato, io sono il ferito, io sono il tradito, questo lo dovete vedere, vedere mille volte, perché questa è proprio la natura intima della nostra pratica e del nostro cammino.
Vedere ciò che la mente recita e attimo dopo attimo disconnettere;però, anche qui, attenzione, perché questa del disconnettere è una faccenda che ha molte implicazioni. Tu disconnetti in un qualche modo quando ci sono delle condizioni: per disconnettere devi essere stanco, non poterne più, altrimenti se ancora non c’è questa stanchezza per certe modalità della propria mente, si finisce per aderire alla pratica della disconnessione quando ancora invece abbiamo bisogno di spenderci sul piano dell’identificazione e dell’espressione di sé.
Le cose le abbandoni quando veramente le hai vissute, le hai portate a compimento, quando hai condotto ad una qualche maturità i tuoi processi di individuazione e sei sufficientemente stanco di te, allora puoi cominciare a mollare.
Attenzione al discorso dell’ascesi: allora, nell’alimentazione abbandono la carne perché in certe vie interiori è indicato questo; in alcuni casi va bene ma in altri magari il tuo corpo o la tua mente hanno ancora bisogno di questo, allora è meglio che la mangi, finché dentro di te qualcosa ti porterà a non mangiare più carne.
Questa fiducia nella Vita che ci accompagna e ci sostiene noi non l’abbiamo! Da perfetti sapientoni dobbiamo intervenire e attuare questa o quell’altra pratica che accelera il percorso! Ma non è così, la Vita ci accompagna e quando il tuo sistema non vorrà più carne ti dirà basta! In mille modi te lo dirà ma devi imparare ad ascoltare, devi fidarti della Vita, fidarti di Lei e dubitare della tua mente.
Naturalmente ti vedi come colui che mangia carne, ti vedi come colui che sta approfittando della vita di qualcun altro che è stata donata per la tua alimentazione, ti vedi in tutto questo, ti vedi ma non forzi i processi. lasci che i processi sorgano dal tuo intimo, questa è la chiave.
Tu vedi, osservi, manifesti, sei stanco, lasci che i processi sorgano dall’intimo: ti disconnetti quando ci sono le condizioni per la disconnessione, cioè quando tu sei stanco, perché finché una cosa ci attrae vuol dire che non siamo stanchi e allora direi che è bene viverla.
Ora facciamo un po’ di silenzio ad occhi chiusi.
Ora aprite gli occhi e state semplicemente con i sensi vigili ad osservare il presente: chiaramente gli occhi chiusi ci portano ad una forte introversione, gli occhi aperti creano una condizione completamente diversa, attraverso i sensi giungono mille stimolazioni alla mente e noi viviamo normalmente con gli occhi aperti, non con gli occhi chiusi. Imparate ad osservare, a vivere, a stare, a vedere i pensieri che transitano come nubi nella mente e a non seguirli, questa è la chiave, non seguirli. Il problema non è se la mente pensa, il problema è se io mi identifico con il contenuto della mente! Attenzione su questo.
Che la mente sia attraversata da pensieri fa parte del gioco; lungo il cammino, di disconnessione in disconnessione, poi diventa sempre più silenziosa, la questione non è lì, ma nell’identificazione con quanto essa recita.
Ora c’è questo suono, c’è quella luce, ci sono questi colori, c’è la mia voce, tutto questo noi lo consideriamo la realtà e ad essa aderiamo, però se un pensiero transita nella nostra mente non lo consideriamo la realtà, lo consideriamo un problema. Abbiate pazienza, un pensiero che transita nella mente non è altro che un pensiero, ha lo stesso valore della campana che suona o degli uccellini che cantano!
Una emozione che sorge dal nostro intimo, dal nostro ventre ha lo stesso valore del cinguettio di quell’uccello, abbiate pazienza!
Cos’è questa divisione tra ciò che è mente e ciò che è realtà, che divisione è? E’ una formulazione didattica, per farsi comprendere, ma bisogna superarla; il problema non è la mente, ma l’identificazione con i suoi processi! Nell’identificazione c’è un trattenere, un portare nell’attimo presente tutti i contenuti della mente: c’è un giudizio che viene apposto, una etichettatura, quindi non c’è la Realtà ma il pensiero sulla realtà.
Più non ti identifichi e più la mente diventa vuota, è l’atto di non identificazione che svuota la mente, perché è come quando qualcuno ti chiama e ti dice “vieni con me, vieni con me, vieni con me!”, e tu gli dici una volta, due volte, un milione di volte “no con te non ci vengo!” prima o poi si stanca e se ne va. Con la mente è la stessa cosa; se tu non la alimenti, non la accrediti, pian piano si svuota; è un organismo energetico, ogni volta che ti identifichi le conferisci forza ed energia, ogni volta che non ti identifichi le togli energia e spazio.
Quindi ripeto il concetto: noi tendiamo a considerare la realtà e la mente, e in questa visione didattica la mente è rappresentata come colei che si oppone alla realtà: non funziona così, ciò che si oppone alla realtà è l’identificazione con i processi mentali, non la mente in quanto tale. Poi va da sé che il processo di identificazione è un processo mentale; qui ci interessa dire delle parole chiarificatrici sul pensiero e sull’emozione che non sono un problema in sé nella via interiore, diventano un problema a seconda di come ci si relaziona con essi. Non abbiamo l’obiettivo di cambiare la mente ma, vedendola, di non andarle dietro. Utilizziamo la consapevolezza che è una proprietà della mente per disconnetterci dalla mente stessa.
Non è una questione di lana caprina, c’è tutta una saggezza dietro a questo, altrimenti finisci per demonizzare alcuni aspetti di te, per non accettarti. Il fatto che nella tua mente possa transitare questo o quello, o il fatto che dal tuo ventre possano salire degli istinti o dei desideri: è quel che è, come il canto degli uccelli fuori, in questo momento.
E’ la realtà, su tutti i piani, è la realtà e basta. Adesso la dico grossa: se tu sei completamente identificata con il maestro tale, che si esprime da un altro piano eccelso di coscienza e via dicendo, abbi pazienza, qual è la differenza tra l’essere identificato con quello che il maestro eccelso dice e l’essere identificati con la propria pulsione sessuale? Dov’è la differenza? Non sei nel niente, nella vita che ti attraversa come un vento: non sei in quel nascere e morire, nascere e morire, non sei lì, senza aggiungere niente a ciò che accade. In quello che vivi porti la tua identificazione, ci sei tu con il tuo giudizio, con la tua aspettativa. Quella realtà ti riguarda, ha per te una pregnanza particolare, non è vento che va, è vento che ti tocca. Sei in una identificazione, certo la puoi considerare una identificazione estremamente evoluta e ti risulta più digeribile di una identificazione con il muladhara, ma sempre identificazione è, abbiate pazienza!
Siamo nella logica dell’alto e del basso, sei prigioniero di un qualcosa di molto sottile o luminoso, oppure sei prigioniero di qualcosa di rosso, sanguigno, legato alla terra, sempre prigioniero sei! Quando tu vai oltre il piano del maestro che trasmette insegnamenti di valore incommensurabile, quando vai oltre le pulsioni che salgono dal tuo muladhara, che cosa c’è?
C’è la realtà semplice, semplice; da quell’osservatorio semplice semplice puoi vedere la somma eccitazione dell’uno aspetto e dell’altro!
Pian piano vorrei demolire tutto questo continuo dividere tra alto e basso, nobile e non nobile: quando tu vivi in una disconnessione costante, ripetuta, continua, quando abiti nella disconnessione, c’è la realtà nella sua estrema semplicità, ordinarietà.
C’è lo svuotamento di te e del tuo essere anche colui che vive le grandi esperienze, e veramente ti percepisci come un essere irrilevante, assolutamente insignificante. Ed insignificante è tutto ciò che ti accade, e da tutta questa insignificanza nasce da un lato una grande leggerezza e dall’altra una grande risata. A quel punto ciò che accade non ti riguarda, è ciò che accade, non ti interpella, non dice “accade per te”. Accade e basta, appartiene alla Vita, non a te. Qualsiasi cosa, pensiero, emozione, azione, accade e basta!
P: tu parlavi di questo lasciar andare gli schemi, in me uno schema molto forte è quello di dover far qualcosa per abbandonare, il mio impegno nell’abbandonare: sono dentro uno schema che mi dice di disconnettere e devi fare questo, questo e questo e allora avrai abbandonato la presa..
S: tutte le volte che entriamo nel “debbo fare questo” dobbiamo sospettare, tendiamo ad introdurre una forzatura. L’unica domanda è: che cosa sta accadendo? Non che cosa debbo fare ma che cosa sta accadendo; nel momento in cui ti vedi, che cosa sta accadendo? Nell’atto di consapevolezza c’è già gran parte del lavoro; a quell’atto di consapevolezza può essere associato un desiderio di vivere ancora quella realtà e quindi la vivi, oppure può essere associata una stanchezza. Nel primo caso, semplicemente, devi osare di vivere quella realtà perché la vedi e perché c’è ancora un qualche cosa che ti spinge a viverla, quindi devi osare di viverla fino in fondo. Nel secondo caso invece c’è una stanchezza e allora su quello essere stanca tu puoi far sorgere la disconnessione. Però stiamo attenti: la disconnessione come un qualcosa che ti imponi o come qualcosa che sorge?
P: a volte sorge, a volte me la impongo..
S: tu ti accorgerai, nel tempo, mentre cammini o fai qualsiasi altra cosa, che quando vedi una determinata dinamica che ti invade la mente, quando la vedi, l’attimo dopo sei già tornata alla consapevolezza dei tuoi passi.
P: mi accorgo che non riesco più ad impormi certe pratiche, ad esempio una meditazione dinamica per scaricarmi..
S: all’inizio c’è un ricordarsi di disconnettere, un gesto volontario che porta l’attenzione da un oggetto psichico ad un altro o a niente – e questo è un passaggio indispensabile – ma, man mano che ci si allena, non c’è più sforzo né volontà: la disconnessione semplicemente sorge dal nostro intimo per moto proprio. Allora, a volte, vorresti rimanere attaccato a qualcosa e non ti è possibile, vorresti ricordare e invece sparisce, vorresti stare in quello stato e quello sparisce. Ad un certo punto la disconnessione è veramente un tarlo che lavora in profondità e scava, scava..
(1) Trascrizione di parte di un gruppo di approfondimento (11.03.2007)
Nel testo: P=Partecipante, S=Settembre
(2) Disconnessione è un termine ampio: lo si può intendere, riduttivamente, come distacco o, andando più in profondità, come non connettere tra loro pensiero, emozione ed azione. Di norma la mente pone in relazione continua questi tre elementi e li ordina in un tutto coerente, giudicandoli e etichettandoli per, infine, attribuirli al soggetto che li sperimenta. L’atto del disconnettere equivale ad affermare “c’è un pensiero, c’è un’emozione, c’è un’azione”. Non viene affermato “c’è un mio pensiero”, oppure, “quel pensiero è legato alla tal emozione”. Si prende atto di quel pensiero in sé, di quell’emozione in sé e non la si attribuisce ad un soggetto. “Dico che ci sono, non che sono miei!”
(3) Il lasciar andare è rinunciare alla pretesa di essere gli artefici della propria esistenza. Quando si opera in questo modo si apre la porta all’Ineffabile, al Non Essere che opera una disaggregazione e una dissoluzione del percepirsi come unità definita e separata.