Agire nel non agire

Comunità per la via della Conoscenza | Voce nell’impermanenza
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Soggetto: Ognuno di voi è qui perché – comunque – ritiene di averne fatta di strada da quando ha cominciato a risvegliarsi al cammino interiore; anche se poi vi dite che di strada ne dovete fare ancora molta. E per incontrare che cosa? Che cosa volete incontrare, facendo altra strada, o passo dopo passo, o salto dopo salto?

Un partecipante: La parte nascosta di me stesso.

Soggetto: Andando dentro te stesso attraverso la via della Conoscenza tu incontri sistematicamente un’assenza; se incontri una presenza non sei dentro la via della Conoscenza, ma dentro una qualsiasi altra strada che parla di evoluzione, cioè di un qualcosa che ti appartiene e che migliora; ma in quel caso ci sei sempre tu e c’è sempre ciò che riguarda te, e così mai incontri tutto ciò che non è tuo.

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Doghen, Jinzu (1), L’autonomo e libero operare

Eihei Doghen Zenji
SHOBOGHENZO JINZU

L’AUTONOMO E LIBERO OPERARE (JINZU)
(Quale è il senso del vivere quotidiano?)

Introduzione e trasposizione
Watanabe Koho Roshi

La realtà fondamentale che è lo scopo, il significato vero per coloro che mettono in pratica il perseguimento della via di Budda, vale a dire l’autonomo e libero operare, non è la ristagnante ripetitività di gesti della vita di ogni giorno come bere il thè, mangiare i pasti. non è procedere per forza dell’abitudine e di inerzia, bensì agire vivacemente con freschezza.
Quello che a prima vista sono le azioni ed i comportamenti estremamente usuali della vita quotidiana, è l’operare straordinario, l’autonomo e libero lavoro, lo sconfinato funzionamento. Perciò, colui che con sincerità mette davvero in pratica il perseguimento della via di Budda. dedica fino in fondo con impegno tutta la propria energia e capacità a mettere in opera ogni cosa, ogni accadimento, uno per uno, che incontra momento per momento, situazione per situazione, nell’arco di tutta la propria vita di ogni giorno, uniformandosi alla necessità che è suggerita da quella particolare realtà: allora, proprio lì, si sviluppa e si svolge il modo di vivere libero ed autonomo, che non è limitato da alcuna restrizione. (1)

continua..

La coppia 4: la routine del quotidiano

La grande piallatrice. La convivenza dopo settimane o mesi conduce inevitabilmente all’esperienza della routine.
Per alcuni questa è rassicurante, per altri, i più, deprimente.
La mente/identità, per sua natura, ha bisogno di stimoli: la routine rende ogni aspetto del quotidiano uguale a se stesso.
L’altro che ci vive a fianco inizia a non essere visto più come colui o colei su cui è incernierato il nostro progetto d’esistenza, inizia ad apparire sbiadito nei suoi contorni, parte integrata nell’ambiente domestico incapace di produrre stimoli tali da porlo in rilievo.
Le sue manifestazioni ci appaiono come già note e mentre affiorano le etichettiamo come conosciute, ripetute, insistite, disturbanti.
Un caffè la prima volta è un’esperienza, alla trecentesima un fatto ovvio e non degno di nota; il sesso diventa una pappa riscaldata; la sclerata, una delle tante.
Ogni aspetto del quotidiano si appiattisce e si svuota di senso: noi, l’altro, gli accadimenti tutto sbiadisce e si appiattisce nel mare calmo della non rilevanza.
La routine è una delle più grandi sfide nella vita della coppia e, non di rado, porta a smarrire la consapevolezza delle ragioni stesse dello stare assieme.
In sé, come esperienza, appartiene alla fisiologia dell’identità e viene sperimentata in ogni ambito della vita, non solo nella coppia.
Da dove tre origine? Dal giudizio della mente sui fatti. Ogni fatto del quotidiano è etichettato, parametrato, archiviato: quando quel fatto si ripresenta nelle sue caratteristiche salienti non viene visto e vissuto in sé, ma viene richiamata dall’archivio la sua esperienza e la mente dice: “Lo conosco, già vissuto, non può produrre niente di rilevante!”
Quel giudizio toglie valore all’accadere, lo rende simile a tutti gli altri e crea il film sbiadito della routine.
E’ necessario vedere l’etichetta che la mente appone sui fatti e non abilitare oltre l’operazione; è necessario divenire consapevoli che la vita è fatta di piccoli fatti e se, ad uno ad uno, questi non vengono vissuti, la vita stessa non viene vissuta.
La routine ci svela uno dei meccanismi di fondo dell’identità, il suo proiettarsi nel passato o nel futuro alla ricerca di fattori eccitanti e significanti, rifuggendo dall’accadere del presente che, a priori, viene etichettato come non rilevante, tranne alcune eccezioni.
Questo conduce ad una inquietudine di fondo, alla frustrazione ed alla alienazione dalla propria vita: inizia l’inquieta ricerca dell’eccitante che porterà, il più delle volte, a farsi male.
Se la persona non comprende che la vita accade ora e mai più; che quel fatto è il primo e l’ultimo, l’unico che valga la pena di vivere; che la realtà non è quella contenuta nella mente ma quella che accade e che sollecita i sensi, l’emozione, il pensiero, il sentire proprio adesso: se questo non viene compreso la vita della coppia si immiserisce perchè la vita del singolo diviene vuota, viene da se stesso svuotata.
Non ci sono tecniche ed esercizietti, è necessario aprirsi su un dato evidente quanto banale: la mente con le sue aspettative e le sue pretese vela l’accadere della vita e la rende invisibile al nostro esperire.
Se siamo capaci di vedere il racconto della mente e da esso disconnettiamo l’attenzione, subito affiorerà ciò che è sempre stato lì: l’essere delle cose, dei fatti; il senso che essi portano, la bellezza intrinseca a ciascuno di essi, la pienezza del semplice gesto del respirare.

Immagine tratta da: http://www.torange-it.com/Invoice-and-background/texture/Vernice-sbiadita-su-legno-13965.html


Con passo leggero

Attraversare la realtà dei piccoli fatti quotidiano, degli incontri, delle relazioni come si fosse privi di peso, senza impatto.
Quanto impatta un’emozione forte, un groviglio di pensieri, un’opposizione?
Quanto è lieve e trasparente la persona che con la consistenza di un velo attraversa la realtà e da essa si fa attraversare?
La via del perdere è anche la possibilità, passo dopo passo, di perdere consistenza: si diviene fragili e vulnerabili ma, nel contempo, la consapevolezza di essere solo vita e nulla di distinto da essa apre all’esperienza sconfinata dell’essere.
L’essere non ha né forma né peso, non impatta: è tutta la realtà, non qualcosa di distinto da essa.

Immagine tratta da: http://spaceintext.wordpress.com/2011/page/34/


 

Tornare incessantemente all’essenziale

Che cos’è l’essenziale? Ciò che ora la vita ci presenta privo di giudizio e di aspettativa.
Ciò che viene è riconosciuto come la nostra vita.
La mente sempre tenta di giudicarlo, di confrontarlo con altro e sempre lo lega al desiderio.
Vedere questo gioco, non alimentarlo, disidentificarsi.
Tornare al fatto, a ciò che accade.
Vedere le sensazioni, le emozioni e i pensieri che sorgono e lasciarli andare.
Quel fatto implica sempre un altro da noi, è portato da qualcuno: una persona, un animale, un evento meteorologico.
Ci accorgiamo di questo “altro”? O vediamo solo noi stessi, i nostri giudizi e ciò che ci aspettiamo?
Chi è, che vita ha, cosa sta simbolicamente narrando?
Questo altro ci svela perchè mostra la nostra distrazione, il nostro egocentrismo, la nostra diffidenza..
Torniamo incessantemente a ciò che la vita attimo dopo attimo ci presenta: in quel presente senza tempo comprendiamo chi siamo e veniamo trasformati; lì prende forma il senso del nostro esistere.

L’immagine è tratta da: http://goo.gl/dN9ClK

Imparare a vivere il quotidiano

“Tratta il riso come fossero i tuoi occhi” diceva Dogen al cuoco del monastero zen.
Noi diremmo: “Tratta ogni momento della tua vita come l’unico che hai a disposizione e vivi ogni fatto senza proiettarlo sul futuro e senza radicarlo nel passato”.
Sabato 8 febbraio, nel contesto del gruppo di base del Sentiero, Roberto affronterà i temi dell’imparare a vivere ciò che attimo dopo attimo si presenta alla nostra esperienza scendendo nella profondità di esso e lasciandosi fecondare.
Da questa disposizione interiore rivolta a tutte le cose piccole, minute e insignificanti germoglia il senso del nostro vivere.

All’Eremo dal silenzio, San Costanzo.
Inizio ore 16,20 puntuali.
Conclusione ore 19.

Immagine tratta da: http://goo.gl/JqDZW1

Qual’è la natura profonda di una giornata?

Una sequenza di fatti che apre sull’esperienza del “quel che è”.
Una intenzione è un fatto.
Un pensiero è un fatto.
Un’emozione è un fatto.
Un’azione è un fatto.
I fatti non vanno vissuti nella loro conseguenzialità come se fossero uno la prosecuzione dell’altro: vanno vissuti come se non fossero preceduti da niente e non dessero luogo a niente.
Sospesi nel senza tempo perchè non connessi ad altro che al loro accadere.
La consapevolezza di fatti così vissuti conduce la persona nella natura profonda di ogni fatto: ciò che viene vissuto non è positivo o negativo, costruttivo o distruttivo, attraente o repellente,
è semplicemente “quel che è”.
L’esperienza del “quel che è” apre orizzonti di senso difficilmente immaginabili da chi vive dentro la catena dei fatti e degli eventi.


Conversazioni sul quotidiano: la generosità.

Iniziamo la pubblicazione di una serie di conversazioni tra Anna Fata e Roberto Olivieri riguardanti i temi che nel quotidiano si presentano all’esperienza e plasmano l’interiore.

[Anna] Amo osservare, me stessa, gli altri, il mondo. E m’interrogo. E spesso sono più le domande che le risposte, ma non me ne curo, sono e restano capitoli sempre aperti, in lavorazione, cantieri senza fine a cui ogni tanto si aggiunge o si toglie un pezzo.
Stasera tornavamo in auto con mio padre. Un extra comunitario lo aveva aiutato a portare in auto un grosso e pesante scatolone, in cambio lui gli ha lasciato una mancia. Mentre guidava, ad un certo punto, ha rievocato la scena con questo commento: “Se un giorno diventiamo poveri a Quello lassù ricorderò che la mia parte a suo tempo l’ho data e che ora a diritto mi spetta di ricevere”.
Sorridevo, tra me e me, e insieme abbiamo condiviso la risata. Ma l’amarezza di un rapporto commerciale che sembra permeare tutta la nostra esistenza è durata per ore, e ancora me la sento addosso.
Forse sono un’illusa, ma ancora vorrei poter credere che esistano in questo mondo brandelli anche solo estemporanei e accidentali di generosità. Ma il dubbio s’insinua e mi porta a chiedere, in fondo, se ha veramente un senso utilizzare tale espressione.

[Roberto] La mente di tuo padre ha fatto quella considerazione a posteriori ma nel momento in cui dava la mancia quale era la sua intenzione?
Ha dato perché doveva? Per ricevere la divina ricompensa? Oppure ha dato semplicemente perché così gli è venuto da fare?
Non puoi sapere che cosa ha mosso tuo padre, ma puoi sapere che cosa muove te nelle mille occasioni che la vita ti presenta. Il tuo dare è condizionato dal tuo bisogno, dal dovere, da cosa?
Per parte mia ho scoperto che ci sono due livelli che operano in me e lo fanno simultaneamente: c’è un livello di fondo, una grande direttrice che ha dato e dà alla mia vita un’impronta fortemente tesa al bene comune, al bene dell’altro e c’è una sovrapposizione più superficiale che valuta, considera, pondera.
Questa parte più superficiale è quella che mi rende realista nell’andare nel mondo, che mi porta all’apertura, all’offrirmi ma con discernimento.
In questa parte confluiscono anche le resistenze, gli egoismi spiccioli, le paure..

[Anna] Per chiudere il cerchio, se devo andare a vedere, un discorso sulla generosità ha ben poco senso. Chi o cosa s’interroga sul proprio e altrui essere generoso se non l’identità? Chi ha bisogno di sentirsi gratificato da questa bella etichetta di sé o sentirsi accolto dal mondo buono e rassicurante se non l’ego?
E, allora, quando c’è il momento del dare/ricevere – già, perché in ultima analisi sono la stessa cosa, solo che nel solito nostro dualismo li vediamo separati, esattamente con noi stessi e gli altri – non c’è altro se non questa dimensione interiore.
Tutto il resto è frutto della mente: la fantasia del paradiso futuro, il senso di colpa per non avere concesso abbastanza, il ripensamento di buoni propositi per il futuro, e chi più ne ha, più ne metta …

[Roberto] Certamente è l’identità che si interroga ma essa è lo specchio della coscienza e finchè c’è la domanda: “Sono abbastanza generoso?” significa che la coscienza non ha risolto la questione. Quando l’ha risolta non c’è più domanda.
Personalmente credo che finchè c’è vita c’è quella domanda e tutti i giorni e in diverse situazioni mi interroga.
Sarebbe interessante analizzare la questione della generosità non come fatto compiuto ma come processo..

[Anna] Generosità come processo .. mi fa venire in mente per associazione che alla base della generosità ci debba essere una meta, un obiettivo di fondo..

[Roberto] Nel divenire, nelle nostre vite immerse nel tempo tutto è in successione.
La generosità non ha un fine, essa muta di pari passo con le nostre comprensioni.
La condizione dell’egoista è, potenzialmente, la più evolutiva: egli ha un ampio spettro di generosità sul quale addestrarsi..
Noi guardiamo le persone e diciamo:”Quello mi sembra un po’ egoista, quello invece ha una bella generosità!”, dovremmo considerare che entrambi stanno imparando e quindi uscire dalla morsa egoismo/generosità per guardare al processo; in questo modo lasciamo morire il giudizio e ci limitiamo a prendere atto che ognuno opera in relazione al proprio sentire, quindi a ciò che gli è possibile.
Essere generosi non è un merito; essere egoisti non è una colpa, è semplicemente la realtà di sentire differenti.

[Anna] Poi, magari, arriva un giorno in cui non notiamo più tutto ciò, perdiamo d’interesse relativamente a questi aspetti, soprattutto non soppesiamo più né il nostro, né l’altrui dare-prendere, ma iniziamo, semplicemente, a darci ..
A volte ci arriviamo senza tanto dolore, in modo quasi fisiologico, altre volte è la Vita che togliendoci tante possibilità materiali ci conduce a tale nuova dimensione.


Immagine tratta da: http://www.immaginidivertenti.org/tag/donare/