Il linguaggio e la reponsabilità

d-30x30Linguaggio e responsabilità. Dizionario del

Il linguaggio e la sua espressione, la parola, – ci hanno insegnato le Guide – sono ritenute generalmente un grande dono di Dio, qualcosa che distingue l’uomo dall’animale, nobilitandolo e rendendolo più completo, tanto da far esclamare spesso, alla vista di un animale particolarmente intelligente: «Gli manca solo la parola per essere un uomo!»
Quest’idea del linguaggio come dono divino non è certo sbagliata, anche perché ogni cosa che l’uomo ha in dotazione – e non solo ciò che è dell’uomo ma anche tutto ciò che lo circonda – è un dono di Dio.
Tuttavia, fermarsi a quest’asserzione è un errore: non esiste, infatti, cosa nell’universo che sia definibile solo positiva o solo negativa, e non solo: non esiste cosa che sia o positiva o negativa per più di un individuo allo stesso tempo.
Infatti, il linguaggio e la parola, in se stessi, mancano di attributi specifici che li possano definire buoni o cattivi, doni o castighi, se non quando assumono una connotazione positiva o negativa dovuta al loro uso, alla loro funzione, al modo, insomma, in cui vengono valutati da chi li usa o da chi li osserva mentre vengono usati.
Come sempre, le Guide, hanno cercato, insomma, di riportare la nostra attenzione alle responsabilità personali: qualsiasi dono fattoci dall’Assoluto può essere usato bene o male. Non possiamo attribuire la responsabilità degli errori fatti nell’usare un dono all’infuori di noi stessi o, addirittura al dono stesso: essa non può essere che nostra, e il riconoscerlo ed accettarlo è un passaggio importante nell’evoluzione dell’individuo.

Messaggio esemplificativo (1)

Il linguaggio è un dono di Dio allorché viene usato per dare più facilmente ai propri simili, per farsi comprendere e per comprendere più compiutamente, per esprimere e per ricevere più chiaramente l’espressione altrui; ma quanto spesso viene male usato in mille modi diversi e tutti sbagliati!
E sbagliati non secondo un qualsiasi giudizio formale, ma in quanto non sono altro che paraventi impenetrabili posti tra un’individualità e l’altra, tra un essere e ciò che lo circonda.
Prendiamo colui che parla tanto. Ascoltiamo il suo parlare, questo fiume di parole che esce ininterrottamente dalle sue labbra, abbastanza lento da permettergli di respirare ma abbastanza veloce da impedirgli di avere piena coscienza di quanto va dicendo.
Se la tecnica linguistica che il chiacchierone usa è buona, se la grammatica è corretta, se le immagini che forma quasi automaticamente sono colorite e ben disegnate, il chiacchierone viene definito un buon oratore, e la definizione è sfumata di ammirazione, tanto che l’oratore viene considerato un individuo intelligente e abbondantemente dotato dalla natura.
Ma ascoltate bene il suo discorso: togliete gli aggettivi, le parole inutili, i giri di frase volutamente complicati, le ripetizioni, e vi accorgerete che non ha detto nulla che un cattivo parlatore non avrebbe detto in poche frasi e, magari, in modo più comprensibile; vi accorgerete che l’oratore è un buon tecnico del linguaggio – questo è in- dubbio – ma che quello che vende sono solamente emozioni ben calcolate, che vengono stimolate in chi ascolta più dal modo in cui il discorso viene modulato che dal significato di quanto viene detto.
A questo punto è allora evidente che il linguaggio è – lasciatemelo dire – una solenne fregatura: è come la mano di vernice applicata su di un vecchio mobile tarlato, lucido e brillante per chi non sa osservare attentamente, ma screpolato e male in arnese per chi sa guardare sotto la crosta lucente senza lasciarsi impressionare dall’aspetto superficiale.
Se manca la stimolazione emotiva, l’enfasi, la dizione misurata ed espressiva, il variare sapiente della tonalità, ecco che non si ha più l’oratore bensì il pedante.
Costui può esprimere le stesse cose dette dall’oratore e può farlo anche in modo più chiaro e semplice ma – invariabilmente – chi lo ascolta poco alla volta comincerà a lasciar vagare la sua attenzione cosicché il pedante, alla fine, si ritroverà a parlare al vento, tanto che potrebbe inserire in un suo discorso le frasi più sconclusionate o gli insulti più offensivi che chi gli sta accanto non se ne accorgerebbe neppure.
Perché, allora, in questo caso vi è questa sovrabbondanza di parole?
È ancora un paravento; è un modo per nascondere non un secondo fine cosciente – come nel caso dell’oratore – ma per nascondere se stessi, per impedire – forse più ancora a se stessi che agli altri – di comprendere le proprie mancanze, le proprie esigenze, i propri impulsi.
Osservate bene colui che parla in continuazione, colui che spesso viene definito – con un’espressione genialmente intuitiva – uno «stancarcervelli». Potete ragionevolmente ritenere che ciò che egli dice sia davvero frutto di meditazione e di comprensione? Pensate davvero che egli sappia ciò che sta dicendo? Credete sia possibile che egli, in realtà, stia usando la parola come mezzo per esprimere il suo essere consapevole?
Provate a interrompere il chiacchierone inveterato e a chiedergli:
«Perché hai detto così? Cosa c’è dietro alla tua frase fatta, al tuo lungo discorso? Cos’è che ti ha fatto dire tutte le cose che hai detto?» Se riuscirete a interromperlo – e vi dico «se» perché spesso è difficile che il chiacchierone possa essere interrotto, in quanto una lunga pratica in costruzione di paraventi gli ha fatto capire che se riesce a costruirne tanti e in fretta, e ben ravvicinati, difficilmente qualcuno riuscirà a trovare uno spiraglio in cui introdursi per interrompere il loro fluire – lo vedrete annaspare, incespicare, noterete un lampo d’ira o una reazione improvvisa e – magari – oltraggiata che sfocerà poi, quasi sempre, in una brusca ripresa del parlare, in un improvviso aumento nella produzione di paraventi, perché la coscienza si rifiuta di essere portata in superficie e di venire messa a nudo.
Ecco quindi che il dono diventa pericolo.
Immagino che qualcuno di voi possa asserire, a questo punto, che io stesso sto usando il linguaggio in modo complesso e molto simile a quella valanga che do mostra di voler criticare. È giusto. L’unica differenza sta nel fatto che io ho piena coscienza di ciò che sto dicendo e del perché lo sto dicendo.
Così non vi dico di non parlare molto, ma vi dico che c’è modo e modo per farlo: se la parola diventa causa di se stessa, se diventa un bozzolo in cui avvolgersi, se diventa un impedimento all’evoluzione della persona, della coscienza e della consapevolezza, allora si trasforma in un difetto e non in un pregio. Ma, se la parola è espressione cosciente del sentire, se è un mezzo per esprimere, per cercare di arrivare a una maggiore comprensione di se stessi, per impedire all’individuo di restare bloccato nelle sue stesse trappole, allora la parola non solo è un dono divino ma diventa Dio stesso!
Ritorniamo all’inizio del nostro discorso.
Così come si dice che all’animale manca la parola per essere un uomo, si dovrebbe dire che nell’uomo vi sono troppe parole per essere un animale.
Sento già l’indignazione di coloro che propugnano l’elevatezza dell’uomo nella scala gerarchica della natura, che difendono l’iniziativa dell’uomo che è riuscito a salire dallo stadio animale fino alle attuali vette della civiltà! Calma, creature, non agitatevi troppo poiché non ho nessuna intenzione di svilire ciò che l’uomo è arrivato ad essere, e ve ne renderete conto alla fine del mio discorso. Intendevo solo dire che l’uomo, assieme allo sviluppo del linguaggio – sviluppo che ha scandito anche il mutare della civiltà in seno alla razza umana attuale – ha anche sviluppato ciò che più lo differenzia dallo stato animale, cioè l’Io.
Perché, vedete, ciò che diversifica l’uomo dall’animale non è certamente il fatto che l’uomo possieda un’anima e l’animale ne sia privo – se questo fosse vero, altrimenti, il nostro caro Dio non sarebbe poi così buono ed amante delle sue creature avendo fatto, già in partenza, una preferenza simile – ma è il fatto che l’uomo si identifica in se stesso: Pinco Pallino, figlio di…, nato a…, il…, e così via, estremo dopo estremo; è cioè il fatto che ogni uomo è un Io, separato e diverso – secondo lui – da tutto ciò che gli sta attorno.
La nascita dell’Io – che abbiamo visto svilupparsi gradatamente e strutturarsi a partire dai primi vagiti del neonato – è contemporaneamente un passo avanti e un passo indietro, positivo e negativo; segue, insomma, quella logica dell’ambivalenza che è in ogni cosa o fatto dell’universo. Se da un lato, infatti, l’Io diventa un vincolo, una catena, un impedimento apparente all’evoluzione dell’individuo, dall’altro lato lo sforzo di superarlo porta l’individuo al raggiungimento di uno stadio più elevato nel quale non sarà più l’animale che agisce, seguendo inconsapevolmente il suo istinto, ma sarà l’essere che agisce armonicamente e consapevolmente secondo la propria natura. Ma, attenzione: questa natura non sarà più solo quella propria del piano fisico, i cui impulsi sono tipici degli animali, ma sarà quella più complessa che è formata dalle parti dell’individuo che risiedono in piani di esistenza al di là di quello fisico e che l’uomo, poco alla volta, sente filtrare alla sua consapevolezza. Questo discorso porta troppo avanti e necessita di spiegazioni che ancora non tutti possedete, quindi ritorniamo al linguaggio, sperando che non vi sentiate come il coniglio a cui è stata sottratta, senza giustificazioni, un’appetitosa carota.
Se qualcuno di voi affermasse che il linguaggio e la parola sono necessari, e che senza di loro non potrebbe venire espressa la complessità della società attuale, io non potrei fare altro che inchinarmi in segno di tacito consenso. Infatti il linguaggio esprime chiaramente lo stadio che una società sta attraversando, ne è uno specchio, una perfetta esemplificazione. Questo spiega perché l’uomo attuale ha un linguaggio estremamente complicato, prolisso, cervellotico e, perché no, pieno di quelle che siete usi definire «parolacce»!
Quanto ho appena detto può apparire detto in tono ironico ed in effetti era proprio quella la mia intenzione, anche se non perché intendessi criticare la cultura attuale, ma solo per dare un attimo di respiro alla tetraggine di ciò che stiamo esaminando. In realtà sono felice di tutto ciò che sembro criticare nell’umanità attuale; anzi, vi dirò di più: spero che le cose vadano ancora peggio e che il linguaggio diventi così complicato e individuale che, alla fine, ogni essere umano abbia solo la possibilità di capire se stesso e non gli altri, come se si rinnovasse la storia della torre di Babele.
E – infatti – la torre di Babele è lì, che lentamente sta venendo nuovamente innalzata, bomba dopo bomba, satellite dopo satellite, ideologia dopo ideologia, religione dopo religione, teoria dopo teoria; e la storia si ripete esattamente come millenni fa: gli uomini stanno parlando sempre più linguaggi diversi fino ad arrivare alla completa incomunicabilità: il matematico è incomprensibile al letterato, il filosofo sembra che parli in marziano all’ingegnere, il politico – che è il più avanti di tutti, il più astuto nel saper cogliere e sfruttare la realtà umana del momento – parla proprio allo scopo di non farsi capire, il prete non si intende con i comunisti, i figli sembrano appartenere a un gruppo etnico totalmente diverso ed estraneo a quello dei padri, e via e via.
Che fare? Nulla: lasciamo andare avanti le cose come stanno andando perché ciò è un buon segno, fa sperare e rende ottimisti coloro che sanno guardare un po’ più innanzi: la torre di Babele crollerà da sola e da solo l’uomo si accorgerà che, per cercare e trovare Dio, non ha bisogno di violare i cieli, di proiettarsi all’esterno; che questa proiezione all’esterno è solo una tappa del cerchio che è la ricerca della sua divinità e che, in realtà – mentre sembra proiettarsi all’esterno in linea retta – sta curvando verso l’altro polo che è rappresentato dalla proiezione all’interno di se stesso. L’ubriaco che era tanto sbronzo da non riuscire a trovare la strada di casa sua, si sedette per terra e disse: «Se è vero che il mondo gira, la mia casa deve passare di qua!» Voi direte che questa è una logica da ubriaco. Niente affatto: questa è la logica dell’universo, dico io! Infatti, se è vero che esiste un Assoluto e che tutto fa parte di un Suo piano ben preciso in cui è contemplato che l’uomo ha un cammino davanti a sé da percorrere, allora qualunque strada l’uomo prenda o – come l’ubriaco – non prenda, il suo cammino, in realtà, sta proseguendo. Scifo

1  Il canto dell’upupa, pag. 104 e segg.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte seconda, Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

La responsabilità personale

d-30x30Responsabilità. Dizionario del

La responsabilità di quello che facciamo – ci ammoniscono le Guide – è sempre nostra in tutti i casi; e dobbiamo sempre tener presente che quanto facciamo ha sempre delle ricadute sugli altri, cosicché queste ricadute diventano, sì, anche un problema dell’altro che reagisce alle nostre azioni e quindi ha a sua volta delle responsabilità sulle scelte che metterà in atto per reagire, però la responsabilità dell’innesco della situazione resta comunque la nostra.
L’unico modo per gestire nel modo migliore le proprie responsabilità non può che essere lo stesso che le Guide ci propongono da sempre: conoscere noi stessi ed eliminare dalle nostre azioni, per quanto ci è possibile, gli influssi dovuti al nostro Io, ai nostri desideri egoistici.
Certamente, vi sono dei modelli che vengono presentati all’individuo fin dal suo nascere, modelli dovuti alle regole della società, modelli dovuti a dettami religiosi, addirittura – come chi segue l’insegnamento sa o forse comincia ad aver capito – anche modelli provenienti dai piani superiori, dai famosi archetipi. Però, tutti questi modelli che noi mettiamo dentro noi stessi, non è che sono diventati nostri, in realtà: sono andati a combinarsi con quelle che sono le nostre esigenze di comprensione, le nostre esigenze evolutive; tant’è vero che, se ci osserviamo bene, scopriremo con facilità che andiamo continuamente contro questi modelli che abbiamo apparentemente introiettato.
Se, per esempio, la religione cattolica, la religione cristiana ci avesse messo all’interno veramente i modelli predicati dal Cristo… noi saremmo tutti santi! Invece nessuno di noi è un santo, nessuno di noi – se soltanto può – perde l’occasione per accrescere un po’ il suo patrimonio materiale in maniera, magari, non del tutto lecita, secondo il modello cristiano; se qualcuno di noi, magari, vede una bella ragazza o un bel ragazzo e «ci prova» anche sapendo che non era il caso di farlo, e via dicendo… tutte queste cose le facciamo comunque, al di là degli ipotetici modelli morali che abbiamo all’interno.
Questo significa, allora, che questi modelli che introiettiamo è vero magari che esistono dentro di noi ma, poi, vanno a scontrarsi con quelle che sono le nostre realtà, le nostre esigenze di esperienza e, quindi, hanno una validità molto relativa se non, appunto, come esempio a cui fare riferimento per avere un confronto tra ciò che, alla fin fine, per noi risulta giusto o risulta ingiusto.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte prima. Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

La responsabilità delle proprie scelte e il karma

Le cronache parlano di una giovane donna che si è tolta la vita non reggendo il giudizio mediatico conseguente alla pubblicazione di materiale molto personale. Parlano anche, le cronache, dell’accanimento contro di lei sui social quando quel materiale uscì, un anno addietro.
E’ un dramma che ci ricorda l’importanza del discernimento e la responsabilità che sempre accompagna ogni nostra scelta.
Qualunque scelta io operi, ho la capacità e una struttura identitaria sufficientemente stabile da reggere le conseguenze che dalla mia scelta possono derivare?

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Le basi di un nuovo monachesimo. Quasi un manifesto

  • Al sentire guardiamo e non alla tradizione del monachesimo.
  • Al sentire e non alle religioni.
  • Al sentire affidiamo il nostro procedere, a quella comunione che celebra l’incontro di tutti coloro che vibrano all’unisono con il compreso comune.
  • Sul sentire confidiamo perché ci conduca in seno all’Assoluto.

Il sentire è ciò che costituisce il compreso delle coscienze: un nuovo monachesimo è pensabile solo nell’ottica della comunione dei sentire.

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Dove arriva la responsabilità dei genitori?

Commentando il post Il tempo e il modo di morire di ciascuno, Natascia si chiede: “Perché la vita mi ha posto di fronte a certe scene, quali resistenze, incomprensioni e limiti hanno determinato quelle scene? E non potevo davvero far nulla per evitarle? Se davvero, come dici, la vita ci pone in più occasioni la possibilità di comprendere, qual’è la mia responsabilità nel non aver compreso?”.
A volte i nostri figli hanno cammini complessi e dolorosi e questo loro procedere inevitabilmente ci interroga e, non di rado, ci suscita un senso di inadeguatezza ed anche di colpa.

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La scuola, la frustrazione, la responsabilità personale

Amiche di questo Sentiero, hanno figlie che si approssimano all’esperienza del liceo: chiedono e si informano su chi, precedentemente, ha frequentato quella scuola, ha avuto quell’insegnante.
Spesso sono preoccupate le madri e intimorite le figlie: si va incontro ad una incognita e i genitori temono per i loro figli cinque anni in salita.
So di cosa parlano, abbiamo avuto una figlia a scuola, conosco la salita e le difficoltà durante e in cima.
Voglio riflettere brevemente su due aspetti della scuola.
1- L’organismo è composto dagli insegnanti, dagli allievi, dai dirigenti scolastici, dal ministero, dai genitori.

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La paura e le basi per il cambiamento

Un video Unicef pone la questione dello nostre reazioni di fronte ad una persona bisognosa: nello specifico vengono registrate le reazioni di fronte ad una bambina sola per strada, ma ben vestita e curata, e di fronte alla stessa bambina truccata da povera. La prima bambina viene accudita, la seconda ignorata.
Perdonate, ma in sé il video non dimostra niente se non che abbiamo paura e diffidenza rispetto a tutto ciò che può comportare un problema, o un’aggiunta di complicazione nella nostra vita.
Di fronte ad una bambina sola, ma curata e ben vestita, noi sappiamo che la soluzione non sarà complessa; stessa certezza non abbiamo di fronte alla bambina sola e in cattive condizioni: qui si può spalancare un mondo che non consociamo, che possiamo avere difficoltà nel gestire, che ci richiederebbe forze che non abbiamo, o che non vogliamo mettere in campo. Poi, magari, non sarebbe così e la gestione del primo caso e del secondo richiederebbero, alla prova dei fatti, lo stesso impegno, ma noi abbiamo paura della situazione che si configura come più complessa e meno gestibile.

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Ancora su gratuità e responsabilità

In merito al post Gratuità e responsabilità, ho risposto alle questioni poste da Marco nella sezione del sito dedicata alle domande e alle risposte.
Caterina, operare il bene, la gratuità non è mai conseguenza di un’intenzione perfetta: sgomberiamo il campo dalla perfezione, l’umano opera sempre sulla base di spinte complesse e finché c’è incarnazione, c’è un tasso di egoità.
Con il termine egoità non intendo egoismo, ma l’esperienza, ad esempio, del proprio esserci come individuo nel momento in cui la propria esistenza è minacciata.

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