[…] Quando muoiono gli oggetti psichici che imprigionano l’uomo ancora identificato nella propria mente, cessano le aspettative, cessano le delusioni, cessano i timori ed emerge un fondo di dolcezza per tutto ciò che accade, sfaccettandosi ai suoi occhi.
L’uomo lo vive senza aggiungervi spiegazioni, finalità o etichette; ed è da lì che nasce una nuova tenerezza che è accoglienza per quell’altro da sé – fatti o esseri – che si presenta.
Se stesso e l’altro sono espressione del mondo dell’accadere, che lui può riconoscere perché è morto dentro di lui un mondo tutto suo.
Esiste già quel mondo al di là della vostra consapevolezza, un mondo di cui siete espressione, ma voi non lo riconoscete perché siete abituati a rappresentarvi un mondo duale legato al vostro “io”.
scomparire
La conoscenza di sé, la contemplazione, la fiducia
Il nostro cammino appoggia sulla conoscenza di sé, ma non si esaurisce in essa.
Non basta leggere la propria vita in un’ottica esistenziale.
Non basta nemmeno cambiare lo sguardo sulla realtà e l’interpretazione di essa: tutto questo è propedeutico e prepara la disposizione contemplativa che può sorgere nella persona, insediarsi nel suo intimo e plasmarne le profondità dischiudendogli la comprensione di una vita radicalmente altra.
Se la conoscenza di sé non genera l’esperienza contemplativa, allora non parliamo di questo cammino, ma di altro.
“Benedetti coloro che hanno conosciuto la propria irrilevanza”
Beati gli umili: di essi è il regno dei cieli. Matteo 5,3. Traduzione Giuseppe Barbaglio. I vangeli, Cittadella Editrice.
Beati i poveri davanti a Dio, perché di essi è il regno dei cieli. Matteo 5,3. Traduzione di Secondo Migliasso. I vangeli, Oscar Mondadori.
Felici i poveri secondo lo spirito perché di loro è il regno dei cieli. Matteo 5,3. Traduzione letterale di Armando Vianello. Azzurra 7 Editrice.
Felici i poveri perché vostro è il regno di Dio. Luca 6,20. Traduzione letterale di Armando Vianello.
La meditazione e lo scomparire
Dice Alessandro commentando il post L’illusione di una mente intossicata: La disconnessione senza indagine del simbolo e delle cause che ci muovono porta alla rimozione ma non alla comprensione e quindi quelle stesse cause vengono ributtate più in profondità, nel buio, dove possono lavorare indisturbate. E’ quello che intendevi?
Si, intendevo proprio questo. Dal nostro punto di vista la meditazione, e con essa la pratica della disconnessione, ha senso se è inserita nel più vasto complesso del conosci te stesso, nel processo del conoscere, divenire consapevoli, comprendere.
Al centro c’è questo processo, non la meditazione, questo deve essere chiaro.
La paura di perdere e i fraintendimenti relativi
Nel linguaggio del Sentiero, i temimi perdere, scomparire, irrilevanza ricorrono di frequente: quando vengono letti, o ascoltati da una identità che li interpreta secondo il loro significato corrente, nascono quasi sempre degli equivoci e, non di rado, un rifiuto.
Eppure in ambito spirituale dovrebbero essere ampiamente sdoganati: è risaputo anche dai neofiti che la libertà, è libertà da sé.
Alcuni vedono in questa libertà da sé quasi la negazione della nostra umanità, del significato stesso del vivere, della sua importanza, della sua sacralità.
Provo un certo imbarazzo a discutere dell’ovvio: chiunque conosca l’esperienza dell’ascolto, dell’osservazione, dello stare, del darsi tempo, del pregare, del meditare, del contemplare dovrebbe aver avuto accesso ad una visione più ampia della realtà in cui ha sperimentato la limitatezza del sé personale.
Avere la consapevolezza che l’umano non è riducibile alla sua incarnazione, non credo significhi negare questa e ciò che essa può portare come esperienza, come possibilità, come dono.
Solo una mente prigioniera della propria dualità, può pensare che l’aprirsi sul non conosciuto, sul non riconducibile ai sensi e a ciò che riteniamo oggettivo, voglia dire negare il conosciuto. Tutti sanno, lo spero, che oltre il mondo dei sensi esiste il mondo che un tempo si chiamava il mondo dello spirito, che è possibile sperimentare, che viene quotidianamente sperimentato da tutti coloro che meditano, che pregano, che hanno consapevolezza del loro essere interiore.
Perché mai debba esserci contraddizione, o addirittura incompatibilità, tra l’esperienza del mondo dei sensi e l’esperienza spirituale, è per me un mistero.
Se si ha conoscenza dei propri processi interiori, si sperimenta che l’accesso ad una percezione più spirituale della realtà, l’aprirsi all’ascolto vero, all’osservazione vera, all’accoglienza vera richiedono un farsi da parte della propria centralità egoica.
Con me al centro, vedo solo me. Con la disponibilità a mettermi da parte, si apre un mondo sconfinato perché quella marginalità di me crea le condizioni di una ricettività, di una accoglienza, di una permeabilità alla realtà che accade, impensabile e inaccessibile finché la consapevolezza è occupata dal mio esserci.
Ecco perché noi parliamo di perdere, di scomparire, di irrilevanza: perché sono le condizioni per allargare il nostro sguardo, ma nulla hanno a che fare con la perdita del nostro essere incarnati, del nostro tragitto personale ed esistenziale.
Certo, comportano la perdita della nostra centralità egoica ed egoistica: sarà per questo che alcuni di noi sobbalzano quando usiamo quei termini?
Qui puoi iscriverti alla Newsletter del Sentiero contemplativo
(invieremo 6 mail/anno)
Compassione, forse
Siamo atomi d’aria nel respiro dell’Assoluto.
Ogni giorno, ad ogni ora proviamo a conoscere, divenire consapevoli, comprendere.
Piccolo o grande che sia l’asino in noi, ciò che esprimiamo è sempre e solo un tentativo, un approccio, un’approssimazione, il segno di un incedere.
Prima di aprire la bocca, dubio di quello che dirò.
Mentre compio un’azione, so che sarà limitata.
Quando mi approssimo a te, so che farò difficoltà a vederti, ad ascoltarti e, a volte, il mio accoglierti è solo maniera.
Vedo l’irrilevanza e l’irrealtà di me e mi fermo, non c’è ragione da dimostrare, qualcosa da aggiungere.
Non c’è tristezza, compassione forse.
Qui puoi iscriverti alla Newsletter del Sentiero contemplativo
(invieremo 6 mail/anno)
La nostra vita senza obbiettivi
Per molti anni ci siamo alimentati e dissetati alla fonte dell’amore che provavamo per il nostro partner: ci dava senso, esperienza, orizzonte.
Per tanto tempo il nostro lavoro è stato la nostra vita. Le nostre mansioni, la nostra funzione, le relazioni erano il nutrimento delle nostre giornate.
Quando tutto questo, e molto altro, viene meno, oscilliamo tra il non senso e la depressione che incombe.
Quando non abbiamo più adesioni a qualcosa e siamo privi di obbiettivi, di cosa si sostanzia il nostro vivere? Che cosa ci rimane?
Quello che abbiamo.
Quello che accade.
Quello che si presenta e ci chiede di essere vissuto.
Dobbiamo riconvertirci dall’essere protesi, dall’incessante edificazione di una interpretazione della realtà che ci gratifichi, al ciò che è, al ciò che accade.
Dal sogno dell’esserci, alla realtà dell’essere.
Immagine da http://goo.gl/t6xYtY
Qui puoi iscriverti alla Newsletter del Sentiero contemplativo
(invieremo 6 mail/anno)
Quando finisce la stagione dell’apparire e c’è solo la vita della coscienza
Che cos’è l’apparire? L’identificazione con la rappresentazione della propria vita, del proprio esserci.
E’ evidente che tutto ciò che consideriamo il nostro esserci, fare, provare, pensare, sentire non è altro che rappresentazione, puro ologramma che assume consistenza per due ragioni:
– perché la coscienza ha necessità di creare situazioni dalle quali estrarre dati di comprensione;
– perché la nostra identificazione con le scene le rende reali.
Pura consapevolezza della irreale consistenza del reale, eppure pura disponibilità a viverne i processi esistenziali che porta perché, se accade, se è stata generata la scena, significa che essa ha una sua necessità che va assecondata.
Risaltano con evidenza le scene che marcano dei sentire incompleti, approssimativi, che richiedono approfondimento.
Si sta sospesi tra l’inconsistenza del vivere e la sua ineluttabilità derivata dalla necessità di condurre a compimento ciò che ancora nel sentire è incompiuto.
E’ finito l’interesse per sé e l’identificazione con i propri vissuti, ma non è finito il vivere che perdura nella neutralità: accada ciò che è necessario, asseconderemo il processo.
Ciò che accade non è nostro, è ciò che accade e plasma un sentire che, anch’esso, non è nostro, è solo un sentire.
Tutti i processi accadono e non riguardano più un soggetto, non riguardano nessuno.
Immagine da http://goo.gl/wJrCf3
Accettare la propria natura significa cambiare senza sosta: il cammino da ego ad amore
Accettarsi nel proprio limite è la condizione di fondo per non ritrovarsi a mendicare approvazione per tutta una vita.
Accettarsi non è affermare: “Sono così, non posso, non puoi, farci niente!”.
Questo lo afferma la persona che per pigrizia, per opportunismo, per limitatezza di sentire non coglie ciò che continuamente nell’intimo la spinge al mutamento.
Ciascuno di noi ha un dato corpo, un dato carattere, determinate disposizioni, abilità, incapacità: sono la dotazione che ci serve, che ci è utile e funzionale nel cammino dell’esistenza per comprendere ciò che al nostro sentire è necessario.
Se accogliamo la dotazione senza opporre resistenza, senza rifiutarci, senza lottare contro noi stessi, si apre uno spazio immenso. Quale?
Quello del vivere assecondando una spinta, una propulsione interiore che ci conduce nei giorni, negli anni ad imparare da ciò che viviamo.
Imparare cosa? Questioni interiori, questioni di fondo. La prima di tutte: conoscere il nostro egoismo e il nostro egocentrismo e, in vario grado, poterli superare.
Per cosa vive un umano? Per conoscere il proprio egoismo e superarlo.
Per imparare a dimenticarsi di sé.
Conosciuto il volto dell’ego nelle sue varie declinazioni, vista e incarnata la propria irrilevanza sorge una possibilità, quella di amare, che non si impara, ma che viene come dono, come fiore che germoglia nel deserto.
Immagine da: http://www.generazionevaselina.it/?tag=nietzsche
Esserci con dedizione, privi di scopo: la vita guidata dal sentire, non dalla mente e dall’egoità
“Sento forte l’esigenza di scomparire, mi metto però a disposizione, dove ritenete più concreto il mio supporto, io ci sono.”
Questo afferma un amico, membro della Comunità del Sentiero. E’ una disposizione che riguarda diversi di noi, è quello che perseguiamo, l’orizzonte esistenziale del nostro cammino: esserci, darci, osare, non stancarci, accettare la sfida della trasformazione continua e, simultaneamente, essere vuoti di scopo, non avere nulla da raggiungere, nulla da dimostrare.
Tutto inizia e tutto finisce in quella situazione, in quell’atto, in quel gesto; conciliando le esigenze personali, quelle della famiglia, quelle del lavoro con la vita della comunità, a nessuno è chiesto qualcosa in modo diretto: tutti offrono, possono offrire sulla base di una spinta che sorge nel loro intimo e ad essa obbedire.
Ad essa, a quella spinta che sorge dal sentire, si obbedisce, non a qualcuno nella comunità, nella società: l’azione senza scopo vale per tutte le situazioni, certamente non solo nella piccola realtà di una comunità.
Quell’obbedire, quello scomparire dicendo sì, avviene senza discernimento? Si obbedisce alla propria vita, non a qualcuno; si dice sì al proprio sentire, non ad un capo; si va, si risale all’origine stessa della spinta che ci conduce ad operare e a vivere. Certo, si può fraintendere quale sia il proprio sentire: si imparerà da questi fraintendimenti e si aggiusterà il procedere di conseguenza.
Questo osservare la spinta e le sue conseguenze, è il discernimento che si opera:
– si ascolta il sentire;
– si aderisce all’impulso ricevuto;
– si sperimenta;
– si osserva il processo che dall’intenzione ha condotto all’azione e ai risultati di questa;
– si operano le correzioni necessarie;
– si impara dagli errori, dai limiti.
Se quella spinta non è condizionata da sfumature egoiche, gli impegni presi non costano, sono magari faticosi ma di quella fatica che apre vie, non le seppellisce sotto il logoramento e la frustrazione.
Il movimento dello scomparire è dato dal soggetto che inizia a interpretarsi come irrilevante, non importante, non necessario: dalla sua inutilità sorge l’aprirsi dell’orizzonte esistenziale che, allora, è occupato solo dall’essere.
La scomparsa di sé apre l’immenso spazio dell’esistere: non dell’io esito, ma del ciò che è.
Immagine da: http://goo.gl/Wch7vL
Saper stare nelle situazioni indipendentemente da ciò che producono in noi in quel momento
Qui trovate le interessantissime osservazioni di Roberto D’E. e di Silvano sulla loro esperienza dell’ultimo intensivo di formazione e contemplazione a Fonte Avellana.
E’ possibile vivere ore e giorni aldilà del giudizio e dell’aspettativa? Oltre la frustrazione? Oltre la fatica? Senza lasciarsi condizionare da ciò che nell’ambiente muta, si avvicenda, si genera?
E’ possibile risiedere così tanto nello stare, nella consapevolezza che la vita accade e lo fa secondo la sua intenzione che non ha bisogno di un nostro commento, di un ricamo, di un’aggiunta?
E’ possibile abitare un’officina esistenziale sapendo che ogni respiro ci trasformerà, anche se i polmoni soffrono nell’inalarlo?
E’ possibile sperimentare la vita come insegnante, l’altro come maestro, le situazioni come le mani che ci modellano facendoci argilla?
I nostri intensivi sono momenti di vita intensa, radicale e parlano all’interiore di ciascuno, lo provocano, lo scuotono, lo logorano, lo sostengono, lo accompagnano.
I nostri intensivi di formazione e contemplazione non sono e non danno consolazioni, sono anni luce lontani dal circo dello spirituale a consumo.
Potrei paragonarli alla vita di coppia, a quella intensità, complicità, tensione esistenziale: se i partner, in una coppia, cercano solo il benessere e il piacere durano poco, la vita di coppia è un processo esistenziale di lungo corso e di intensa pregnanza.
La vita comunitaria, le giornate di un intensivo hanno la stessa natura profonda, la stessa pregnanza esistenziale: solo una persona che non ha compreso ciò che ha vissuto può dire:”Mi è piaciuto, non mi è piaciuto. Sono stato bene, sono stato male”.
Chi è davvero entrato nel ventre dell’intensivo ha visto se stesso, i suoi molti volti e non sempre si è sentito rassicurato; ha visto la gioia e la leggerezza, la pesantezza e il logoramento; ha visto la solitudine e la comunione dei sentite; ha visto la vita nella sua radicalità e ha imparato, ha dovuto imparare se voleva restare, ad andare oltre il giudizio e l’aspettativa, oltre il lamento, oltre il vittimismo, oltre tutto ciò che lo definisce come soggetto personale.
La natura degli intensivi è tale che il partecipante è portato passo passo, a volte in modo docile, altre in mezzo alle resistenze, ad andare oltre di sé, a dimenticarsi di sé.
C’è fatica? E’ un fatto. C’è leggerezza? E’ un fatto. C’è rifiuto? E’ un fatto. C’è fusione? E’ un fatto.
Chi in questo atteggiamento risiede sa che la propria vita è dentro ad un vortice di trasformazione della cui portata non può dire, ma avverte chiaramente che nulla può rimanere come è stato, ogni aspetto dell’essere proprio viene scarnificato, ricostruito, rimodulato, fatto nuovo dalle esperienze.