Per una ragione a me inconoscibile, la vita mi ha condotto su una via di solitudine e di assenza di riferimenti certi: non in una religione, in una filosofia, in una pratica ho potuto confidare, ma solo sull’indagine del sentire, sull’attingere a quel pozzo la cui profondità è insondabile alla mente umana e si dichiara esclusivamente nell’osservazione, nell’ascolto, nello stare della contemplazione.
Per una qualche ragione, la vita mi ha condotto in mare aperto pur avendo io paura del mare.
Bene rappresentano il mio cammino esistenziale questi brani di Matteo/Luca/Marco:
scomparire
Un continuo nascere e scomparire
[…] Siamo partiti da un presupposto, che è il quietarsi degli aspetti che caratterizzano interiormente l’uomo, e siamo giunti all’imporsi di uno stato di immobilità interiore. È lì che sorge l’amore per l’impermanenza ed il riconoscimento di un mondo fino a quel momento inesplorato.
È un mondo che si disvela quando l’attenzione dell’uomo viene attratta unicamente da un quotidiano fatto di piccole cose – un piccolo quotidiano – in quanto muore in lui il bisogno di circondarsi di cose che continuamente rende grandi o importanti perché le riferisce ad un mondo per sé.
Il tempo vissuto da quell’uomo pare restringersi, poiché il suo sguardo si fissa su ogni frammento di tempo che si sussegue ad altri, e così la sua attenzione coglie di ogni momento il bussare, il variare e lo sparire.
La perdita di sé stessi e l’essere specchio
[…] Quando muoiono gli oggetti psichici che imprigionano l’uomo ancora identificato nella propria mente, cessano le aspettative, cessano le delusioni, cessano i timori ed emerge un fondo di dolcezza per tutto ciò che accade, sfaccettandosi ai suoi occhi.
L’uomo lo vive senza aggiungervi spiegazioni, finalità o etichette; ed è da lì che nasce una nuova tenerezza che è accoglienza per quell’altro da sé – fatti o esseri – che si presenta.
Se stesso e l’altro sono espressione del mondo dell’accadere, che lui può riconoscere perché è morto dentro di lui un mondo tutto suo.
Esiste già quel mondo al di là della vostra consapevolezza, un mondo di cui siete espressione, ma voi non lo riconoscete perché siete abituati a rappresentarvi un mondo duale legato al vostro “io”.
La conoscenza di sé, la contemplazione, la fiducia
Il nostro cammino appoggia sulla conoscenza di sé, ma non si esaurisce in essa.
Non basta leggere la propria vita in un’ottica esistenziale.
Non basta nemmeno cambiare lo sguardo sulla realtà e l’interpretazione di essa: tutto questo è propedeutico e prepara la disposizione contemplativa che può sorgere nella persona, insediarsi nel suo intimo e plasmarne le profondità dischiudendogli la comprensione di una vita radicalmente altra.
Se la conoscenza di sé non genera l’esperienza contemplativa, allora non parliamo di questo cammino, ma di altro.
“Benedetti coloro che hanno conosciuto la propria irrilevanza”
Beati gli umili: di essi è il regno dei cieli. Matteo 5,3. Traduzione Giuseppe Barbaglio. I vangeli, Cittadella Editrice.
Beati i poveri davanti a Dio, perché di essi è il regno dei cieli. Matteo 5,3. Traduzione di Secondo Migliasso. I vangeli, Oscar Mondadori.
Felici i poveri secondo lo spirito perché di loro è il regno dei cieli. Matteo 5,3. Traduzione letterale di Armando Vianello. Azzurra 7 Editrice.
Felici i poveri perché vostro è il regno di Dio. Luca 6,20. Traduzione letterale di Armando Vianello.
La meditazione e lo scomparire
Dice Alessandro commentando il post L’illusione di una mente intossicata: La disconnessione senza indagine del simbolo e delle cause che ci muovono porta alla rimozione ma non alla comprensione e quindi quelle stesse cause vengono ributtate più in profondità, nel buio, dove possono lavorare indisturbate. E’ quello che intendevi?
Si, intendevo proprio questo. Dal nostro punto di vista la meditazione, e con essa la pratica della disconnessione, ha senso se è inserita nel più vasto complesso del conosci te stesso, nel processo del conoscere, divenire consapevoli, comprendere.
Al centro c’è questo processo, non la meditazione, questo deve essere chiaro.
La paura di perdere e i fraintendimenti relativi
Nel linguaggio del Sentiero, i temimi perdere, scomparire, irrilevanza ricorrono di frequente: quando vengono letti, o ascoltati da una identità che li interpreta secondo il loro significato corrente, nascono quasi sempre degli equivoci e, non di rado, un rifiuto.
Eppure in ambito spirituale dovrebbero essere ampiamente sdoganati: è risaputo anche dai neofiti che la libertà, è libertà da sé.
Alcuni vedono in questa libertà da sé quasi la negazione della nostra umanità, del significato stesso del vivere, della sua importanza, della sua sacralità.
Provo un certo imbarazzo a discutere dell’ovvio: chiunque conosca l’esperienza dell’ascolto, dell’osservazione, dello stare, del darsi tempo, del pregare, del meditare, del contemplare dovrebbe aver avuto accesso ad una visione più ampia della realtà in cui ha sperimentato la limitatezza del sé personale.
Avere la consapevolezza che l’umano non è riducibile alla sua incarnazione, non credo significhi negare questa e ciò che essa può portare come esperienza, come possibilità, come dono.
Solo una mente prigioniera della propria dualità, può pensare che l’aprirsi sul non conosciuto, sul non riconducibile ai sensi e a ciò che riteniamo oggettivo, voglia dire negare il conosciuto. Tutti sanno, lo spero, che oltre il mondo dei sensi esiste il mondo che un tempo si chiamava il mondo dello spirito, che è possibile sperimentare, che viene quotidianamente sperimentato da tutti coloro che meditano, che pregano, che hanno consapevolezza del loro essere interiore.
Perché mai debba esserci contraddizione, o addirittura incompatibilità, tra l’esperienza del mondo dei sensi e l’esperienza spirituale, è per me un mistero.
Se si ha conoscenza dei propri processi interiori, si sperimenta che l’accesso ad una percezione più spirituale della realtà, l’aprirsi all’ascolto vero, all’osservazione vera, all’accoglienza vera richiedono un farsi da parte della propria centralità egoica.
Con me al centro, vedo solo me. Con la disponibilità a mettermi da parte, si apre un mondo sconfinato perché quella marginalità di me crea le condizioni di una ricettività, di una accoglienza, di una permeabilità alla realtà che accade, impensabile e inaccessibile finché la consapevolezza è occupata dal mio esserci.
Ecco perché noi parliamo di perdere, di scomparire, di irrilevanza: perché sono le condizioni per allargare il nostro sguardo, ma nulla hanno a che fare con la perdita del nostro essere incarnati, del nostro tragitto personale ed esistenziale.
Certo, comportano la perdita della nostra centralità egoica ed egoistica: sarà per questo che alcuni di noi sobbalzano quando usiamo quei termini?
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Compassione, forse
Siamo atomi d’aria nel respiro dell’Assoluto.
Ogni giorno, ad ogni ora proviamo a conoscere, divenire consapevoli, comprendere.
Piccolo o grande che sia l’asino in noi, ciò che esprimiamo è sempre e solo un tentativo, un approccio, un’approssimazione, il segno di un incedere.
Prima di aprire la bocca, dubio di quello che dirò.
Mentre compio un’azione, so che sarà limitata.
Quando mi approssimo a te, so che farò difficoltà a vederti, ad ascoltarti e, a volte, il mio accoglierti è solo maniera.
Vedo l’irrilevanza e l’irrealtà di me e mi fermo, non c’è ragione da dimostrare, qualcosa da aggiungere.
Non c’è tristezza, compassione forse.
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La nostra vita senza obbiettivi
Per molti anni ci siamo alimentati e dissetati alla fonte dell’amore che provavamo per il nostro partner: ci dava senso, esperienza, orizzonte.
Per tanto tempo il nostro lavoro è stato la nostra vita. Le nostre mansioni, la nostra funzione, le relazioni erano il nutrimento delle nostre giornate.
Quando tutto questo, e molto altro, viene meno, oscilliamo tra il non senso e la depressione che incombe.
Quando non abbiamo più adesioni a qualcosa e siamo privi di obbiettivi, di cosa si sostanzia il nostro vivere? Che cosa ci rimane?
Quello che abbiamo.
Quello che accade.
Quello che si presenta e ci chiede di essere vissuto.
Dobbiamo riconvertirci dall’essere protesi, dall’incessante edificazione di una interpretazione della realtà che ci gratifichi, al ciò che è, al ciò che accade.
Dal sogno dell’esserci, alla realtà dell’essere.
Immagine da http://goo.gl/t6xYtY
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Quando finisce la stagione dell’apparire e c’è solo la vita della coscienza
Che cos’è l’apparire? L’identificazione con la rappresentazione della propria vita, del proprio esserci.
E’ evidente che tutto ciò che consideriamo il nostro esserci, fare, provare, pensare, sentire non è altro che rappresentazione, puro ologramma che assume consistenza per due ragioni:
– perché la coscienza ha necessità di creare situazioni dalle quali estrarre dati di comprensione;
– perché la nostra identificazione con le scene le rende reali.
Pura consapevolezza della irreale consistenza del reale, eppure pura disponibilità a viverne i processi esistenziali che porta perché, se accade, se è stata generata la scena, significa che essa ha una sua necessità che va assecondata.
Risaltano con evidenza le scene che marcano dei sentire incompleti, approssimativi, che richiedono approfondimento.
Si sta sospesi tra l’inconsistenza del vivere e la sua ineluttabilità derivata dalla necessità di condurre a compimento ciò che ancora nel sentire è incompiuto.
E’ finito l’interesse per sé e l’identificazione con i propri vissuti, ma non è finito il vivere che perdura nella neutralità: accada ciò che è necessario, asseconderemo il processo.
Ciò che accade non è nostro, è ciò che accade e plasma un sentire che, anch’esso, non è nostro, è solo un sentire.
Tutti i processi accadono e non riguardano più un soggetto, non riguardano nessuno.
Immagine da http://goo.gl/wJrCf3