Limitare l’uso delle parole e dei segni

Nel minuscolo teatro quotidiano personale, rappresentiamo il nostro esserci con una profusione di parole, di segni e di simboli.
Bisognosi di sentirci vivi, calchiamo il piccolo palcoscenico senza curarci, spesso, né della qualità, né della quantità del rappresentato.
Un passo indietro ci farebbe bene: un silenzio in più, un segno in meno ci permetterebbero un maggiore contatto con il nostro interiore, con il sentire e ci permetterebbero di compenetrare più a fondo l’accadere.

continua..

silenzio

Periodo di silenzio

Rispetteremo un periodo di silenzio.

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meditazione

La caduta provocata dall’altro parla di un non compreso nostro

Un amico caro dice: “Accade che durante un intensivo, mentre tutto diventa rarefatto e la condizione contemplativa permea l’ambiente al punto che potrebbe essere sezionata con un coltello, qualcuno non ha di meglio da fare che porre una domanda che ci fa precipitare..”
A chi non è capitata una situazione simile? L’interrompersi di una esperienza costitutiva l’intero essere a causa di una banalità!
L’ordinarietà di questi “incidenti” ha portato molti “insegnanti” a strutturare i tempi, ad aumentare il controllo, a costruire rappresentazioni spiritualmente stringenti, con ritualità precise, con atteggiamenti esteriori senza sgarro possibile, con una serietà/severità interiore cui si aderisce senza ombra.
Nulla di tutto questo abbiamo fatto nel Sentiero, né mai lo faremo. Perché?
Perché se una data esperienze interiore ci svanisce nel mentre vi siamo immersi, qualsiasi sia la causa, significa che non è ancora costitutiva del nostro essere, non è ancora compiutamente compresa ed integrata. Lo dimostra il fatto che vi siamo attaccati e quando la perdiamo ci dispiace e dobbiamo faticare per ritrovarla.
Quando lo stato contemplativo è radicato nell’essere, ovvero nulla nella mente vi si oppone, esso viene e va come il vento, non a noi obbedisce, è puro accadere gratuito.
Prima di questo, siamo attaccati alla nostra pratica e alla nostra esperienza, vorremmo proteggerla e preservarla – ed entro certi limiti è giusto farlo – ma non possiamo imbalsamare la realtà, creeremmo quelle situazioni spiritualmente affettate, pompate, sostenute, cariche di liturgia; molto lontane da ciò che coltiviamo come spontaneità, immediatezza, assenza di forma, di pretesa, di presunzione.
Siamo stati sempre lontani dalle liturgie, abbiamo coltivato una ritualità minimale lasciando che i nostri gesti fossero radicalmente ordinari, inserendo parole e situazioni che, di proposito, dissacrano. L’ironia ci è compagna fedele e il sarcasmo qualche volta ci salva.
Lo facciamo per ragioni precise: al vento non deve aggiungersi altro. All’abbandono radicale non deve coniugarsi l’attaccamento. All’apertura alla vita non va posta condizione.
La nostra disponibilità a perdere tutto deve sempre guidarci, orientarci, sostenerci: quando non siamo più tanto disposti a perdere, qualcosa ci rammenta che quello è il centro del nostro cammino.
Concludendo. Quando uno stato è interiorizzato e compreso mai viene perso, è la piattaforma su cui ci muoviamo, il nostro vivere su quello appoggia.
Un disturbo, una caduta vibratoria attivano la mente e i suoi giudizi, le sue aspettative, le sue pretese: a quella attivazione leghiamo la nostra consapevolezza e la frittata è fatta.
Ma se non sorge giudizio? Se non c’è aspettativa caduta in frantumi? Osservata l’increspatura nella mente, subito quello stato ritorna.
Se dobbiamo faticare, può essere per alcune cause:
– non riusciamo a far fluire quell’increspatura perché siamo legati al giudizio/aspettativa e quindi, su quel fronte c’è ancora qualcosa che non abbiamo ben compreso;
– l’organismo nel suo insieme ha reagito scompostamente perché quella non comprensione riguarda molti e quindi il rientro è complesso;
– la bordata è stata consistente e reiterata e in quel caso bisogna provvedere con una gestione più oculata.

Immagine di Roberto D’E.


Abbiamo perso il silenzio, o non lo abbiamo ancora scoperto?

Se potete, leggete questo bell’articolo apparso su “comune info”.
La prima parte parla della situazione, del silenzio perduto, della fretta, del scivolare sulla vita.
La seconda, della necessità di insegnare ai nostri figli a vivere sottovoce.
Vorrei fare delle considerazioni sulla prima parte: abbiamo perso il silenzio, o non lo abbiamo ancora scoperto?
La mia tesi, molto semplice, è che l’umano vive ciò che ha compreso; ciò che non vive non è perché non lo vuole vivere, ma perché non ha compreso che esiste come possibilità per sé; lo vede magari vivere dagli altri, ma non lo sente adatto a sé, praticabile per sé: nei fatti, non lo considera perché non lo comprende.
Il bel brano di Orso parla di un’altra cultura, di altre priorità esistenziali, forse di un altro sentire: il nostro mondo ha ciò che crea e questo sorge dal suo sentire, da ciò che ha compreso attraverso le esperienze e la macerazione che queste producono.
Sorge anche dalla sua cultura? Certamente, ma questa non è che il riflesso del compreso e del non compreso dei singoli e dell’insieme.
Cosa dunque possiamo fare? Vivere il compreso, testimoniarlo con grande discrezione, operare nel piccolo come nel grande perché elementi di autenticità vengano inseriti in un impianto culturale ed esistenziale caratterizzato dalla futilità.
Quello che l’autrice dice nella seconda parte dell’articolo è veramente importante, da lì si può partire sapendo che nessuno aderisce a ciò che non ha compreso, ma il proporre modelli, stimoli, pratiche, abitudini attiva processi profondi e facilita il percorso delle comprensioni in maturazione.
Se comprendiamo che ciò che l’umano vive non è il frutto della malafede  – la quale, anche quando è presente, è conseguenza, non origine – ma solo della non conoscenza, della non consapevolezza, della non comprensione, allora il nostro sguardo sul mondo diviene intriso di compassione e questa è un fattore determinante nel produrre il cambiamento dei sentire, prima e ultima sorgente di ogni cambiamento.

Immagine da: http://goo.gl/51KNUk


 

L’ingresso nel silenzio della mente: vivere nella contemplazione del reale

Un’immagine: uscire da un ipermercato e trovarsi immersi in un bosco di faggi.
Nella faggeta non c’è silenzio, inteso come assenza di stimoli, c’è una vita che si dispiega secondo ritmi dilatati, distesi.
Nell’ipermercato c’è l’eccesso di stimoli di ogni genere.
I due esempi sono metafora della realtà della vita nella contemplazione, il primo; della vita nella mente/identità, il secondo.
E’ possibile a tutti il passaggio dall’ipermercato alla faggeta? Non lo so, credo che dipenda dal sentire di coscienza acquisito.
Coloro per i quali è possibile lo faranno: a passi lenti, o rapidi, supereranno le porte automatiche dell’ipermercato e si inoltreranno nel sentiero nel bosco, disposti a fare i conti con le proteste più o meno accese di quella parte di sé legata all’esistenza del passato.

Immagine da: http://goo.gl/gkB9U6


 

Oggi non userò alcuna parola polemica

E’ appena sorto il sole, ho davanti una giornata, delle esperienze, degli incontri: nell’arco di tutte le ore che mi aspettano non coltiverò alcun pensiero polemico e non pronuncerò alcuna parola critica e negativa rivolta a me, alle persone che mi stanno vicino, agli altri in generale.
Mi asterrò anche dall’usuale rosario di ingiurie rivolte ai politici, quasi fossero loro gli unici responsabile della situazione del paese.
Oggi non mi lamenterò, guarderò attentamente me stesso e mi disporrò ad un atteggiamento nuovo: mi assumerò la responsabilità delle mie intenzioni e delle mie azioni smettendo di puntare il dito sull’altro da me.
Potendo proferire dieci parole, rinuncerò alla metà di esse.
E’ una piccola cosa, ma comincio da questa.

Immagine da: http://goo.gl/qE77vc


 

Una piccola storia

Tra i monti, molto lontano dal mondo, c’era un eremo dove vivevano due eremiti.
La loro età era avanzata ma non definibile; abitavano l’eremo da molti decenni, si nutrivano dei frutti del bosco, delle erbe selvatiche e dei prodotti del loro minuscolo orto. Vestivano di abiti disadorni, larghi e piuttosto consunti, sempre gli stessi. Ai piedi portavano ciabatte in tutte le stagioni.
Si scaldavano con una stufa a legna e trascorrevano le loro giornate nella quiete e nel silenzio. Nessuno dei due amava parlare e lo facevano solo quando era necessario.
Nelle loro vite nulla mancava. Un tempo nel loro interiore molte erano state le domande e l’ansia di risposte li aveva sospinti a cercare e a sperimentare.
Da molto tempo nelle loro menti non c’era più alcuna domanda, né alcun bisogno di cui valesse la pena parlare, o per cui fosse necessario adoperarsi.
Dal mondo venivano a visitarli persone che avevano saputo della loro esistenza; queste percorrevano il lungo sentiero tra i monti sospinte da un’inquietudine, una insoddisfazione, una domanda.
I due eremiti ascoltavano e, senza la pretesa di possedere alcuna verità, dicevano ciò che secondo loro poteva essere detto in quella situazione.
Le persone, dopo aver lasciato dei doni fuori dalla porta d’ingresso, riprendevano il cammino per ritornare nel mondo alcune con il volto chiaro e fiducioso, altre preoccupate, altre ancora visibilmente insoddisfatte ed irate.
Così era da decenni e tutto questo avveniva nel ritmo di una vita senza pretese, semplice e discreta.
Un giorno giunsero all’eremo persone ricche di motivazione e di domande; esse furono accolte nella cucina illuminata dalla debole luce del giorno, ciascuna di loro portava sottobraccio doni voluminosi.
Gli ospiti posero le loro domande, ascoltarono in silenzio le risposte; fu loro servita una tisana di frutti del bosco con noci sgusciate e del pane raffermo.
A metà del pomeriggio, quando già la luce nella stanza era calata, i padroni di casa accesero due candele.
Uno degli ospiti osservò: “C’è poca luce, servirebbero altre candele!” Senza attendere la risposta, dall’involto sottobraccio tirò fuori due candelabri, ciascuno di sette candele e disse agli eremiti: “Datemi del fuoco e le accenderò, così vedremo meglio e potremo continuare a discutere confortati dalla luce”.
I due eremiti si guardarono un po’ stupiti, dei due l’uomo si alzò, prese una sola candela dai candelabri, la appoggiò in una ciotola e la accese.
L’ospite sembrò infastidito, forse in cuor suo desiderava che tutte e quattordici le candele fossero accese; all’eremita sembrava che le due candele accese all’imbrunire bastassero a fare una luce cui nulla mancava ma, per non offendere l’ospite, aveva accettato di accenderne una terza.
La conversazione continuò e oramai si avvicinava la sera, il fuoco nella stufa stava morendo e la temperatura nella stanza era diminuita.
Dall’attaccapanni gli eremiti presero due pesanti mantelle di colore scuro, semplici e piuttosto lise e con esse si coprirono; poi da una cassapanca tirarono fuori delle coperte e le offrirono agli ospiti.
Uno di questi, dal pacco che aveva portato come dono, estrasse una mantella molto bella, di un bel colore, ricca di decorazioni e la offrì dicendo: “Prendi questa, è fatta dai migliori artigiani secondo le ultime e più sofisticate tecniche di tessitura!”
I due eremiti si guardano perplessi: le loro mantelle scendevano sulle spalle come fossero parte del corpo e, sebbene fossero vecchie, ben assolvevano alla funzione, i loro corpi erano al caldo: quelle mantelle, i due eremiti, la cucina, l’eremo, il bosco, il tempo che scorreva erano come un unico essere cui nulla mancava; i due sentirono che indossare quella nuova mantella avrebbe significato rompere quella unità di tutte le cose.
Dissero all’ospite: “Alla nostra vita nulla manca: il bosco ci nutre, il torrente ci disseta, l’eremo ci protegge dalla pioggia, la legna ci scalda. Questa mantella così bella che ci hai portato può essere molto utile ad altri, donala a qualcuno che conosci e che sai che affronta l’inverno senza il conforto della stufa che arde”.
L’ospite insistette e l’eremita rispose: “Se osservi attentamente, se rimani qui con noi per alcuni giorni, o per alcuni mesi se vuoi, potrai fare esperienza del nostro modo di vivere, potrai comprendere il ritmo del giorno e della notte, delle stagioni, del divenire; potrai comprendere perchè la vivrai, l’unità sostanziale di tutte le cose e di tutti gli esseri, l’unico respiro che unisce le nostre vite al bosco, alla terra, al lupo e al capriolo. Quando avrai compreso e vissuto in te questa unità allora il tuo silenzio, il tuo occuparti della stufa, il tuo andare a fare legna nel bosco, il tuo ingegno nel costruire un sistema di convogliamento dell’acqua dal tetto al pozzo saranno un dono gradito, utile e necessario”.
Gli ospiti ascoltarono e tacquero, non furono necessarie altre parole; per tutta la sera e anche durante la cena nessuno parlò.
Gli eremiti si ritirarono nelle loro rispettive stanze, gli ospiti distesero le loro coperte, le tre candele furono spente e il silenzio della notte attraversata dal volo muto del barbagianni coprì il loro sonno.



J.Krishnamurti, il rumore delle parole

Ascoltare è un’arte che non è facile acquisire, ma che porta con sé bellezza e comprensione profonda.
Ascoltiamo dalle profondità del nostro essere, ma il nostro ascolto è sempre alterato da preconcetti o dai nostri particolari punti di vista.
Non siamo capaci di ascoltare direttamente, con semplicità; in noi l’ascolto avviene sempre attraverso lo schermo dei nostri pensieri, delle nostre impressioni, dei nostri pregiudizi…
Per poter ascoltare ci deve essere calma dentro di noi, un’attenzione distesa, e non deve esserci il minimo sforzo tendente ad acquisire qualcosa.
Questo stato vigile e tuttavia passivo è in grado di ascoltare quello che è al di là dei significati delle parole.
Le parole portano confusione; sono solo un mezzo di comunicazione esteriore, ma per trovarsi al di là del rumore delle parole è necessario ascoltare in uno stato di vigile passività.
Coloro che amano sono capaci di ascoltare, ma è estremamente raro trovare chi sia capace di farlo.
La maggior parte di noi è troppo occupata a raggiungere degli obiettivi, a ottenere dei risultati; stiamo sempre cercando di andare oltre, di conquistare qualcosa, così non siamo in grado di ascoltare.
Solo chi ascolta veramente può cogliere la melodia delle parole.

Tratto da: J.Krishnamurti, Il libro della vita, Aequilibrium
La foto è tratta da: http://kficc.org/j-krishnamurti/advantages-of-j-k-teachings/

 

Senza il tempo, senza una direzione, nella vicinanza

Nella buca delle lettere
un fringuello dormiva
con il capo coperto dall’ala.
A passi lenti
Enni ed io siamo tornati
il silenzio era assoluto.

Questa è la nostra vita qui, all’Eremo dal silenzio: noi sappiamo che per tanti le giornate e le ore non sono facili, mai la consapevolezza di questo ci viene meno.
Il nostro modesto contributo al cambiamento della realtà è vivere secondo ritmi, valori, disposizioni interiori non condizionate dai bisogni del proprio piccolo e limitato orizzonte.
Ora che l’alba è già chiara e prende forma questo primo giorno del nuovo anno, mentre ci prepariamo al lavoro del mattino, un sentimento di vicinanza, un inchino profondo al cammino di ognuno è ciò che possiamo donare.

L’immagine è tratta da: http://alessiodileo.blogspot.it/2009_12_01_archive.html

 

Natale 1993-2013: vent’anni di esperienze e lo scomparire nel silenzio

Ho smesso di lavorare pochi giorni prima del natale 1993 e da allora vivo qui, nell’Eremo dal silenzio, con Catia e Letizia.
Sono accadute tante cose e tante trasformazioni in venti anni; in questo sito trovate scritti, libri, testimonianze e tracce di un cammino: non è necessario aggiungere altro.
Qui voglio brevemente parlare dell’esperienza del silenzio che è maturata in questi anni e che oggi, ogni giorno, mi stupisce nel profondo perché senza sosta narra dello scomparire del protagonista per lasciare sul palcoscenico solo sequenze di fatti, accadere senza passato, senza futuro, senza soggetto.
Silenzio significa assenza di un artefice, di qualcuno che si attribuisce un accadere, un pensiero, un’emozione.
Una benedizione la libertà da se stessi.