Si cerca finché si è divisi nell’interiore

Divisi da chi? Dalla natura di sé: il senza origine e senza fine non coglie l’essenziale e trova interesse solo per i colori del divenire.
Divisi nel compiersi del processo della manifestazione di sé.
Divisi nella consapevolezza di sé e dell’accadere.
Divisi nell’interpretazione dello sperimentare e del suo senso.
L’interiore è lo specchio dove tutto si riflette e lì viviamo e patiamo quella divisione, se ancora è in atto.
Quando quella divisione è superata nel sentire, nel pensare, nel provare e nell’agire, finisce l’esperienza del sentirsi separati e frantumati,

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Tutto perde importanza

Da dove deriva l’importanza che diamo ai fatti, agli stati, ai processi?
Da due fattori almeno:
– dalla spinta della coscienza ad imparare;
– dall’identità che ne trae sostanza d’esistere.
Viene una stagione in cui entrambe queste spinte si attenuano fino a scomparire.
Nella persona si afferma uno stato fondato sul non agire, sullo stare: uno stato contemplativo.

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Saggezza e radici

Nel mondo puoi mettere un “like” senza nemmeno aver letto quello che l’altro scrive; puoi dire che ci sarai e poi dimenticartene e non curartene.
Puoi dare la tua parola, fare promesse e poi rimangiartele senza battere ciglio: nel mondo dell’effimero, puoi essere effimero e potete farvi compagnia uniti dall’inconsistenza.
Nel mondo della via interiore, un si è un si, un no, un no; un impegno, un impegno; una parola data, un obbligo.
Il mondo della via interiore ha bisogno di stabilità, di radici, di esperienza e di quella saggezza che dalle radici e dall’esperienza matura.

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Lo stato interiore del risiedere

Un brano di Soggetto, maestro della via della Conoscenza.
La versione integrale.

La via della Conoscenza parla di stare in, di risiedere, che significa essere fissi in ciò che ogni essere porta in sé come radice profonda. Vivere è essere in relazione con ciò che vi circonda, scoprendone una profondità che va al di là della superficie su cui ancora vi attestate: è un mondo che esiste, ma che voi potete intravedere soltanto attraverso fugaci flash che vi fanno intuire che c’è altro che non è possibile trattenere, e far proprio, perché è irriducibile ad ogni pretesa.

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Credere che vivere sia “fare”

Fino ad un certo punto del suo cammino esistenziale, l’umano ha bisogno di misurarsi con il fare, con la manifestazione attiva e preponderante di sé.
Da un certo punto in poi, questa propensione diminuisce e la persona diviene più riflessiva, più attenta alla sostanza e meno identificata con la produzione e la eccitazione, meno desiderosa di collocarsi sul palcoscenico della vita.
Noi ci rivolgiamo a questa seconda categoria di persone, per la prima non abbiamo risposte.

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Imparare e contemplare

Iniziare un giorno, una settimana è come iniziare una vita: quando una coscienza si incarna ha il proposito di imparare, di divenire consapevole, di acquisire le comprensioni che le necessitano.
Direi che ad ogni giorno che sorge noi possiamo avere gli stessi propositi, ma a questi aggiungerei anche la possibilità di ascoltare, di osservare e di stare.
Imparare e contemplare. Sperimentare e semplicemente lasciarsi attraversare dalla vita.

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Le stagioni dell’umano e della natura

Se faccio un parallelo tra le stagioni della natura e quelle dell’uomo, mi viene da porre in relazione l’estate con la vecchiaia.
L’estate è dominata dallo stare, dal giungere a compimento di processi la cui genesi è nell’autunno.
L’autunno è l’inizio della vita perché accoglie in sé il frutto maturo, il seme, dell’estate: una vita che finisce deposita il compreso in una vita che inizia.

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Fermarsi e tacere

Il sabato molti non lavorano, la domenica quasi nessuno. Se non ci sono necessità urgenti, possono essere due giorni di raccoglimento, di gesti misurati e di poche parole.
Di ridotta frequentazione, di tempo per stare in solitudine: osservando, ascoltando, tacendo.
Affrontare la giornata sentendosi compenetrati da un silenzio che ci attraversa e ci pervade: il silenzio di noi, dei nostri bisogni, dei nostri lamenti.

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La pace dopo il cambiamento

Una via interiore è colei che ci accompagna, ma anche colei che ci toglie la pace delle pantofole.
Quando pensiamo di aver compreso, veniamo scalzati e rimessi in discussione.
E’ un cambiamento senza fine: i giorni si portano appresso un processo di svelamento continuo che quasi sempre è attivato dalla presenza dell’altro, ma anche dall’affiorare, per via intuitiva, di frammenti di comprensione.
Squarci di realtà, e della nostra realtà, affiorano nella opacità di tanto nostro procedere.

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Finire in pace

Scrive una lettrice che qui chiameremo Ina:
“Anni fa ho avuto la sensazione netta della chiamata, una forza irresistibile che mi ha dirottata dalla vita solita, ho frequentato gruppi spirituali, fatto ritiri. […] col tempo ho lasciato i gruppi […] non c’è più nessuno con cui rapportarmi […] andrebbe bene anche così se ogni tanto non pensassi (come dici tu) di essermi persa […] vuoto..quello sì, la chiamata non la sento più, sono tornata a una realtà insipida […] non ho una pratica spirituale, meno che mai ne vedo il senso, i miei compagni di pratica sono i canti dei merli, i cespuglietti d’erba […] potrei dire che vivo di questo e in questo trovo gioia […] le paure […] mi hanno lasciata da lungo tempo […] ci sono per tutti ma così lontana da tutti […] è un po’ quello che ho sempre desiderato, l’eremitaggio.. e ora ci sono per davvero nell’eremo, rabbrividisco solo al pensiero di tornare in un gruppo di pratica, non amo i ritiri e le letture si sono ridotte..non c’è più ricerca […] È qui che si arriva? Distacco dal mondo, isolamento? Sì, c’è pace….e poi

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