meditazione

La caduta provocata dall’altro parla di un non compreso nostro

Un amico caro dice: “Accade che durante un intensivo, mentre tutto diventa rarefatto e la condizione contemplativa permea l’ambiente al punto che potrebbe essere sezionata con un coltello, qualcuno non ha di meglio da fare che porre una domanda che ci fa precipitare..”
A chi non è capitata una situazione simile? L’interrompersi di una esperienza costitutiva l’intero essere a causa di una banalità!
L’ordinarietà di questi “incidenti” ha portato molti “insegnanti” a strutturare i tempi, ad aumentare il controllo, a costruire rappresentazioni spiritualmente stringenti, con ritualità precise, con atteggiamenti esteriori senza sgarro possibile, con una serietà/severità interiore cui si aderisce senza ombra.
Nulla di tutto questo abbiamo fatto nel Sentiero, né mai lo faremo. Perché?
Perché se una data esperienze interiore ci svanisce nel mentre vi siamo immersi, qualsiasi sia la causa, significa che non è ancora costitutiva del nostro essere, non è ancora compiutamente compresa ed integrata. Lo dimostra il fatto che vi siamo attaccati e quando la perdiamo ci dispiace e dobbiamo faticare per ritrovarla.
Quando lo stato contemplativo è radicato nell’essere, ovvero nulla nella mente vi si oppone, esso viene e va come il vento, non a noi obbedisce, è puro accadere gratuito.
Prima di questo, siamo attaccati alla nostra pratica e alla nostra esperienza, vorremmo proteggerla e preservarla – ed entro certi limiti è giusto farlo – ma non possiamo imbalsamare la realtà, creeremmo quelle situazioni spiritualmente affettate, pompate, sostenute, cariche di liturgia; molto lontane da ciò che coltiviamo come spontaneità, immediatezza, assenza di forma, di pretesa, di presunzione.
Siamo stati sempre lontani dalle liturgie, abbiamo coltivato una ritualità minimale lasciando che i nostri gesti fossero radicalmente ordinari, inserendo parole e situazioni che, di proposito, dissacrano. L’ironia ci è compagna fedele e il sarcasmo qualche volta ci salva.
Lo facciamo per ragioni precise: al vento non deve aggiungersi altro. All’abbandono radicale non deve coniugarsi l’attaccamento. All’apertura alla vita non va posta condizione.
La nostra disponibilità a perdere tutto deve sempre guidarci, orientarci, sostenerci: quando non siamo più tanto disposti a perdere, qualcosa ci rammenta che quello è il centro del nostro cammino.
Concludendo. Quando uno stato è interiorizzato e compreso mai viene perso, è la piattaforma su cui ci muoviamo, il nostro vivere su quello appoggia.
Un disturbo, una caduta vibratoria attivano la mente e i suoi giudizi, le sue aspettative, le sue pretese: a quella attivazione leghiamo la nostra consapevolezza e la frittata è fatta.
Ma se non sorge giudizio? Se non c’è aspettativa caduta in frantumi? Osservata l’increspatura nella mente, subito quello stato ritorna.
Se dobbiamo faticare, può essere per alcune cause:
– non riusciamo a far fluire quell’increspatura perché siamo legati al giudizio/aspettativa e quindi, su quel fronte c’è ancora qualcosa che non abbiamo ben compreso;
– l’organismo nel suo insieme ha reagito scompostamente perché quella non comprensione riguarda molti e quindi il rientro è complesso;
– la bordata è stata consistente e reiterata e in quel caso bisogna provvedere con una gestione più oculata.

Immagine di Roberto D’E.


contemplazione

La mente contrappone lo stare al fare, la contemplazione all’azione

La mente sa ben poco della realtà che sorge oltre i propri recinti, ed opera nella presunzione di conoscere la natura del reale catalogandolo tra le sbarre della propria cella, finendo per costruire tra sé e ciò che è muri di pregiudizio.
La mente non conosce quanto viva e vivida sia la vita del contemplativo, la vita intrisa di contemplazione; lei contrappone il risiedere, lo stare all’agire, al fare.
La mente non sa che nello stare, nel risiedere nel presente che è, non c’è alcuna passività, nessuna negazione del fare e dell’agire; non sa che per poter risiedere, estrema deve essere l’apertura a ciò che giunge dai sensi, dalla mente, dal sentire.
Per poter accogliere il presente, bisogna lasciar andare tutto il passato e tutto il futuro, tutto quello che adesso non è: in una frazione di tempo, in un battito di ciglia è compendiato un lavoro enorme, possibile perché tutte le comprensioni acquisite in innumerevoli esperienze, in un attimo, si rendono disponibili.
La contemplazione, lo stare, il risiedere è la risultante del massimo dell’azione possibile ad un umano, attuata senza sforzo volitivo alcuno.
Perché non c’è sforzo, non c’è agitazione, non c’è tensione?
Perché c’è la comprensione di quella realtà che accade; perché c’è la compassione che l’avvolge e la copre; perché il soggetto che la vive non ha interesse per sé; perchè l’amore, che è la radice del vivere, quando è riconosciuto e liberato come forza, guida la volontà affrancata dal dovere.
Queste parole sono solo un accenno superficiale all’immenso mondo che si apre quando la mente non domina più la scena e ben altro si presenta all’esperienza del vivente, non di colui che vive.

Immagine di Lee Scott


L’esperienza della vacuità e dell’inutilità da non confondere con la depressione

Non credo esista persona della via spirituale che non si confronti con l’esperienza dello svuotamento di senso.
Probabilmente non esiste persona che non si confronti con questa condizione interiore che, ciclicamente, si presenta all’esperienza umana.
La realtà viene sperimentata come vuota, priva di senso, incapace di attivare risposte e reazioni interiori: di fronte ad un accadere, a dei fatti, a delle situazioni o al semplice essere dei giorni la persona non prova interesse particolare, non sente l’accadere suo, non le riesce di attivare processi di identificazione.
La realtà le appare come fatto né interno, né esterno.
E’ un preciso passaggio esistenziale che si ripete ciclicamente, come tutte le cose che hanno bisogno di essere rivisitate più volte per essere conosciute e comprese.
La mente tende a mettere etichette su tutto e anche su questa esperienza esistenziale opera le sue riduzioni e approssimazioni: le sembra che definirsi depressa sia una sintesi accettabile, che quell’etichetta possa almeno contestualizzare uno stato.
Se fossimo capaci di utilizzare paradigmi esistenziali per leggere i nostri stati, non parleremmo di depressione; purtroppo, siamo così limitati nella interpretazione di noi che spesso non sappiamo guardarci con altri occhi e sviluppare altre letture.
Lo svuotamento e la perdita di senso sono il pane del cammino interiore e la loro esperienza ci interroga e ci interpella: se nulla ci appare apportatore di senso, è perché siamo ammalati? Siamo sani quando la nostra vita ci sembra valga la pena di essere vissuta?
Sano/non sano; senso/non senso: c’è una possibilità di non lasciarsi stringere dentro questa morsa duale?
Quale esperienza si può configurare, ci può attendere oltre quella del senso o del non senso?
E’ possibile vivere non curanti, non prigionieri di questa dicotomia?
Certamente, l’orizzonte altro si chiama gratuità.

Immagine da: Susanna Bertoni http://is.gd/xRMCwt


Aver cura di sé: il valore insostituibile del fermarsi

Quando si è impegnati in attività che coinvolgono il nostro prossimo a volte è difficile fermarsi, dire no, creare uno spazio o una pausa.
Le ragioni di questa difficoltà sono tante, non è possibile generalizzare e non è quello di cui voglio parlare qui.
Penso in particolare ai tanti che si occupano di attività sociali o politiche, o a coloro che sono impegnati nelle relazioni di aiuto.
Queste persone hanno, molto spesso, una forte spinta interiore, un impulso creativo che si dispiega nella loro attività sociale: ciò che nel loro interiore è stato compreso diviene forza plasmatrice nelle relazioni.
Spesso, se queste persone non hanno relazione, non riescono a veicolare quelle forze: solo nella relazione sentono di esistere, forse perché solo in presenza dell’altro sentono di avere una dimensione individuale, di esistere come individui.
Con questa disposizione interiore le possibilità di eccedere non mancano: la persona è sempre proiettata in avanti e, avendo difficoltà ad accorgersi di questo sbilanciamento, o non sapendo bene come gestirlo, non riesce a fermarsi.
In genere la qualità delle relazioni che crea patisce dell’eccesso di presenza e comunque, nel tempo, la persona è soggetta al logoramento.
Qualunque sia la ragione che spinge al fare, l’imperativo di fondo da cui non si può prescindere è che bisogna essere capaci di introdurre delle pause.
L’attività senza pause è come il giorno senza notte, l’inspiro senza espiro.
Essere capaci di fermarsi è essere capaci di ammettere che non si è indispensabili.
Perdonate, ma non si può agire socialmente o politicamente e pensare di essere indispensabili, o comportarsi come se lo si fosse: quella pretesa smaschera il canto della nostra egoità e condiziona tutto l’operare con il proprio limite.
Bisogna essere capaci di fermarsi, di creare delle pause e di osservare sé e la propria spinta a partire da quello spazio privo di moto.
Nel momento in cui la spinta interiore viene vista, osservata, analizzata e lasciata andare, lo slancio stesso che da essa è generato cambia, assume un altro respiro.
Non essere capaci di fermarsi significa finire, prima o poi, contro il muro, l’unico modo che ha la vita di indurci ad un altro sguardo e ad un altro atteggiamento.

Immagine da: http://goo.gl/Qc67PP


 

Momenti di un intensivo del Sentiero contemplativo (agosto 2013)

Il respiro di una giornata durante un intensivo di meditazione e contemplazione del Sentiero contemplativo. Queste immagini, riprese da Roberto d’E., si riferiscono all’intensivo del 3-9 agosto 2013 al monastero camaldolese di Fonte Avellana.
Descrivono la giornata dallo zazen all’aperto del mattino, alla passeggiata meditativa, alle due sessioni formative quotidiane, ai pasti, fino alla cena e al ritiro nelle proprie stanze.

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Silenzio. Neve. Stare

Immagini dall’intensivo del 22-24 febbraio al monastero di Fonte Avellana
(foto di Massimo R.)

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Lo sguardo equanime

Nei giorni scorsi mi sono trovata nell’orbita di una persona impietosamente ingabbiata nell’individualismo.
Impigliata in una descrizione identitaria prepotente, schiacciante, aggrappata alle cose, arida, sfiduciata, fragilissima, ciecamente opportunista.

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L’azione senza pensiero: aderire al ciò che è

Autore: Soggetto, La via della Conoscenza (11)
Se l’uomo arriva al punto nel quale abdica alla mente, ciò che egli esprime è un’azione senza pensiero. Ma l’azione senza pensiero entra in contraddizione con tutta la vostra struttura logica, perché per voi ogni azione è segnata almeno dall’emozione e più spesso dal pensiero che si nasconde dietro l’emozione

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Il bisogno di tacere

Se guardassimo attentamente nel nostro intimo scopriremmo quanto è grande il bisogno di tacere, di abbassare gli occhi per non essere travolti dal fiume di stimoli, di immagini, di sensazioni ed emozioni.

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Senza direzione

Non dovendo i giorni produrre alcun risultato e condurci in alcuna esperienza o realizzazione, il tempo e lo spazio interiori che si presentano 

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