Tra divenire ed essere: oltre la nozione di limite

La realtà si può osservare, interpretare e vivere dal punto di vista del divenire, o da quello dell’Essere.
Ciò che nel divenire è un’evidenza, nell’Essere può non avere senso alcuno.
Dal punto di vista del divenire, tutto diviene: l’umano diviene da ego ad amore, la coscienza amplia il proprio sentire, il tempo scorre insieme alle esperienze e la visione di sé e del mondo muta con esse. Tutto diviene ed è logico affermare che il seme diverrà pianta e che tutti gli esseri giungeranno ad essere Uno.

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L’identità desidera il nuovo, il contemplante osserva il reale

Argomento su cui torniamo frequentemente perché mai risolto una volta per tutte: l’identità cerca e desidera il nuovo e il suo gioco può oscurarci lo sguardo fino a non farci vedere più niente: vediamo a quel punto solo il desiderio che non trova soddisfazione, avvertiamo una frustrazione che non trova appagamento essendo mai il presente corrispondente a ciò che desideriamo, o crediamo di desiderare.
La via contemplativa per realizzarsi, per prendere forma, ha bisogno di non essere inficiata e condizionata dal desiderio: il contemplante non può coltivare il desiderio, pena la perdita di se stesso e del proprio cammino esistenziale.

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Educare l’Io e la mente al pensiero unitario

Continuo la riflessione iniziata nel post: La differenza tra il ringraziare e l’essere quel grazie.
Premessa: non possiamo educare la mente al pensiero unitario se il sentire non ha il gusto grado di comprensioni maturato.
L’educare è primariamente un facilitare l’emersione di ciò che già è contenuto nel sentire e, secondariamente, è un plasmare i veicoli, e l’identità che da essi risulta, affinché quell’emergere non solo non incontri una opposizione, ma sia veicolato da strumenti idonei a condurlo a piena manifestazione.
Se il sentire è maturo, allora l’opera può essere perseguita:

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La differenza tra il ringraziare e l’essere quel grazie

Durante gli intensivi a Fonte Avellana, recitiamo prima dei pasti il testo che trovate alla fine di questo post: è un testo complesso che parla al sentire più che alla mente e che descrive un principio: noi non ringraziamo una entità divina per il dono della vita, noi siamo l’entità, il dono e la vita.
Il tentativo nostro è quello di andare oltre il pensiero duale, di plasmare le menti e le interiorità con la forza della visione e dell’esperienza unitaria.
È un tentativo non semplice perché nell’umano il duale opera in modo implacabile e permea ogni piega del suo essere.
Nel ringraziare c’è chi ringrazia e chi è ringraziato, nello specifico l’umano ringrazia il Creatore di sé e di tutto l’esistente.

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La natura del mondo che costruiamo ogni giorno

Commenta Nadia al post Il mondo nuovo che costruiamo ogni giorno: Parole toccanti, oggi però non riesco a coglierne la piena portata. O meglio non riesco ad abbandonarmi a quel senso di fiducia a cui rimandano. So che il disegno non è utopistico, ma la strada per la realizzazione, è ancora molto, molto, molto lunga. Le gravi questioni internazionali attuali alimentano un senso d’impotenza. Anche se conosco il perché di certi accadimenti, e anche sapendo che io posso “lavorare” partendo da me, oggi sono inquieta. Probabilmente è l’identità che sa di non poter vedere quell’orizzonte a cui le parole rimandano, il motivo per cui non riesco a gioirne.
Se il mondo è un’immensa officina delle coscienze immerse nel divenire, fino a quando sarà abitato da individualità in apprendimento non vedrà realizzato quanto nel post descritto.

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Un nuovo monachesimo per i senza religione

“Per parlare a Dio non c’è altro da fare che leggere, ascoltare, ruminare e poi ridire a Dio tutto ciò che Lui ci ha detto, dopo aver trasfuso in quelle parole tutto il pensiero, tutto l’amore e tutta la vita. La parola di Dio diventa così il luogo e il mezzo dell’incontro con Lui. ” (M. Magrassi, La preghiera a Cluny e a Citeaux, pag. 640, in La preghiera nella bibbia e nella tradizione patristica e monastica, ed. Paoline)
Da Dio a Dio attraverso l’umano che risuona come uno strumento, questo è il percorso interno alla preghiera cristiana.
E in noi che non frequentiamo quella modalità, ma solo la contemplazione del reale?

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Solo il giudizio ci separa dall’Uno

Se ogni forma vivente altro non è che aspetto ed essenza dell’Uno, cosa ci separa dalla piena consapevolezza di quell’unità?
Il giudizio che diamo su noi stessi, i nostri pensieri, le nostre emozioni ed azioni.
Non esiste un censore che sia altro da noi stessi, noi blocchiamo l’accesso alla conoscenza, consapevolezza, comprensione ultime semplicemente etichettando, parametrando, giudicando ciò che siamo.
Senza giudizio ogni fatto è solo un fatto, natura ed essenza dell’Uno né alta, né bassa; né evoluta, né inevoluta; né unita, né disunita: il giudizio, che senza sosta opera in noi, è stato proiettato all’esterno ed è divenuto il Dio che chiede, che esige perfezione per essere conosciuto. Una mostruosità.

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Ciò che ci separa da noi stessi e dall’Assoluto

Per ciò che pensiamo, proviamo, agiamo c’è sempre un cosa, un come, un perché.
Qui voglio sostenere una comprensione: non è tanto il cosa e il come pensiamo, proviamo, agiamo, ma il perché che ci mantiene connessi al sentire, a noi stessi, all’Assoluto, o ci aliena da esso.
Il perché riguarda l’intenzione: cosi muove quel pensiero, quell’emozione, quell’azione?
Qui parliamo di una persona consapevole, che sa osservarsi, non parliamo di chi vive e impara sperimentando e sbattendo.

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Il perdersi e la natura della preghiera non duale

Prendo lo spunto da alcuni commenti al post Il dolore, la sua ragione, la funzione della preghiera per approfondire alcuni aspetti inerenti l’esperienza del pregare.
Premetto che, secondo la mia comprensione, esistono almeno due filoni d’esperienza distinti nella pratica della preghiera:
– la pratica che avviene nell’ambito duale, in una relazione dove esiste un io che interloquisce con un Tu considerato altro-da sé, il totalmente-altro;
– la pratica interna alla dimensione unitaria d’Essere, dove non c’è interlocuzione tra due soggetti ma confidenza, intimità, relazione interna ad un Unico Essere.

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Il tempo necessario per contemplare il reale

Ho avuto bisogno di tempo, di molto tempo, di una vita intera da dedicare all’osservazione, all’ascolto, allo stare.
Non avrei potuto vivere diversamente da come ho vissuto e da come vivo: il tempo altro non è che la possibilità di guardare nell’abisso.
Una possibilità che si ripete, che viene offerta ogni giorno, ad ogni ora.
Ho avuto bisogno che il mondo non vorticasse, che la mia mente fosse vuota il più possibile affinché potesse affluire il ciò-che-è.
Non essendo prigioniero del tempo imposto, non dovendo sottostare ai bisogni miei, ho potuto dedicare la grande parte delle energie alla contemplazione del reale, di ciò-che-è, di ciò-che-viene-senza-scopo.

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