Il maestro nello zen, alcuni brani
Mauricio Yūshin Marassi
Il testo è tratto dal sito: http://www.lastelladelmattino.org/
pubblicato con il titolo “Senza maestro o senza MAESTRO”
[…] A mio vedere, il dar per scontato l’esistenza di una figura chiamata “Maestro” (con annessa la conseguente possibilità di far carriera diventandolo) e l’accostamento, almeno verbale, tra la pranoterapia e lo Zen, sono due parti di un medesimo discorso. La prima parte si lega ad un processo storico all’interno del quale gli occidentali (prima gli americani e poi gli europei) hanno dato vita (anche con interessate complicità giapponesi) ad una attività, quasi un mestiere, che è una vera e propria degenerazione: il Maestro Zen. E’ un nome/figura che nella tradizione viene negato sin dall’inizio: nel Butsu Yui Kyō Gyō, componimento considerato contenere le ultime raccomandazioni di Shakyamuni morente, una larga parte è riservata a spazzare via ogni velleità di costruire maestri o di atteggiarsi tali. In questo sutra si afferma con chiarezza che il vero maestro, la lampada che illumina il cammino e la realtà tutta, è la scintilla di vita pura che sgorga continuamente in noi e che ascoltata ci guida. La trasmissione può avvenire solo tra pari (cfr.Shōbōgenzō Bendōwa), così come è possibile indicare la giusta direzione solo a chi si trova già sul sentiero. Chiamiamo forse “Maestro” chi ci guida in un’escursione in montagna? Lo rispettiamo, gli siamo grati, forse ci ha salvato più volte la vita, ma non eleviamo ogni sua attività a puro insegnamento che salva, anche fuori dei sentieri dei monti. Il maestro di sci o il maestro di musica, non sono “Il Maestro”.
[…] In tutta la tradizione cinese e giapponese, sino ai nostri giorni, non c’è né il ruolo né il termine che corrisponda a ciò che si (fra)intende con la parola occidentale “Maestro”. Vi sono appellativi onorifici, quali zenji erōshi, ma questi non corrispondono ad un ruolo o ad un livello di realizzazione dell’insegnamento. Qualsiasi vecchio monaco può essere definito tale per rispetto o perché, in quel periodo, è abate di uno dei due monasteri più importanti. Ma anche in questo caso non è in alcun modo un’investitura sacra, un riconoscimento della buddità o dell’illuminazione di qualcuno. Anche il termine “kyōshi”, sebbene significhi comunemente “insegnante, professore”, nella realtà dello Zen Sōtō, in Giappone, è tutt’altro dalla patente da Maestro (che non esiste), come è a volte inteso in occidente. Consiste in un certificato, rilasciato dall’amministrazione del clero (Sōtōshū Shūmuchō) ed abilita a condurre un tempio o qualsiasi attività ufficiale (in Giappone o altrove) utilizzando il nome della Scuola Sōtō Zen. Non ha nulla a che vedere con la presunta realizzazione di un alto livello dell’insegnamento. Devono avere il “kyōshi” (assieme ad un complicato intrigo di altri certificati) tutti i preti del Soto Zen, altrimenti, non potendo gestire un tempio, non potrebbero, per esempio, neppure officiare funerali. Che, in Giappone, sono la principale fonte di sostentamento del clero.
E’ vero che in Giappone ogni ruolo, civile o religioso, appartenendo ad una società a forte contenuto tradizionale (ancora fondata sul presupposto che il suddito che ubbidisce all’imperatore/dio compie così il volere divino, ossia è esso stesso la longa manus del dio imperiale nella realtà spicciola) ha una valenza anche sacrale. Quindi il religioso preposto alla conduzione del tempio, per quanto poco versato nelle “cose” dello Zen è, per il suo stesso ruolo, in una posizione a contenuto sacrale. Tuttavia è così anche per il capotreno o per il capoufficio, come pure ha una forte autocoscienza/autostima (e per molti versi questo si traduce in carisma e in sacralità di ruolo) l’anziana signora che pulisce il pavimento della stazione o il poliziotto che regola il traffico. C’è chi sta sopra e chi sta sotto ma ognuno è re nel proprio regno.
Forse proprio per questo, in America, nei primi decenni del secolo scorso, quando cominciarono ad arrivare i primi monaci/preti buddisti e (anche grazie ai libri di D.T. Suzuki) si guardò a loro non tanto come officianti di riti per i Giapponesi defunti in terra straniera (quali in parte erano), ma come portatori di insegnamento sapienziale altissimo (come avrebbero dovuto essere), avvenne che la prosopopea (di alcuni) ed i titoli di cui quasi tutti si fregiavano (che in patria erano semplicemente appellativi rispettosi) furono tradotti col nome ed il ruolo sacrale di “Zen Master”. Caricando questo ruolo/espressione di tutti i significati più elevati. Sino alla cosiddetta “Presentazione Idealistica” di Richard Baker (cito, tradotto, da “Means of Authorization” di Stuart Lachs, reperibile sudarkzen):
“Richard Baker, nell’introduzione al più venduto libro sullo Zen in lingua inglese, Zen Mind, Beginner’s Mind (Mente Zen, mente di principiante) descrive il termine “rōshi” nel seguente modo:
« Un roshi è una persona che ha realizzato quella perfetta libertà che costituisce la potenzialità di tutti gli esseri umani. Egli vive libero nella pienezza di tutto il suo essere. Il flusso della sua coscienza non è fatto di strutture fisse e ripetitive come la nostra coscienza egocentrica, ma sorge anzi spontaneo e naturale dalle effettive circostanze del presente. Tutto ciò comporta una vita dalle caratteristiche straordinarie – capacità di rimanere sempre a galla con le proprie risorse, vigore, spontaneità, semplicità, umiltà, serenità, allegria, incredibile perspicacia e incommensurabile compassione. Il suo intero essere attesta che cosa significhi vivere nel presente. Anche senza che si dica o si faccia nulla, l’impatto puro e semplice dell’incontro con una personalità così evoluta può essere sufficiente perché cambi l’intero sistema di vita di una persona[…]». [Cfr. anche S.Suzuki, Mente zen, Ubaldini, Roma 1976, pag. 15].Bisogna tener presente che quanto sopra fu scritto come introduzione alle parole ed agli insegnamenti dell’insegnante del signor Baker, ossia Suzuki rōshi. Quindi questa introduzione intendeva descrivere una persona reale, e, per estensione, come è chiaramente affermato all’inizio della citazione, tutti coloro che si fregiano del titolo di “rōshi”. Non è il riferimento idealizzato ad un essere celeste oppure a qualche figura religiosa di una lontana mitologia”.
Penso sia facilmente comprensibile che presentare (siamo nel 1970, agli albori del buddismo Zen in America…) un titolo/persona/ruolo/funzione con quegli attributi può portare solo a due tipi di conseguenze, ambedue catastrofiche: che nessun essere umano venga ritenuto degno, idoneo, di rivestire quel ruolo (non si troverà nessuno così apparentemente santo da soddisfare sempre tutte le condizioni: il nostro idealismo troverebbe sempre qualche cosa per cui “il tale” non è all’altezza) oppure che, quando qualcuno (come Suzuki Shunryu in America o Deshimaru Taisen in Europa) è accettato in quel ruolo da uno o più seguaci/discepoli, altri se ne aggiungano acriticamente divinizzando il poveraccio di turno. Quando lo scorso anno (ossia 30 anni dopo le parole di Baker!) andai a San Francisco, alcuni confratelli che conoscevano la propensione iconoclasta o poco rispettosa delle forme e dei riti da parte di noi Italiani, mi raccomandarono di far bene attenzione a come parlavamo, con i fratelli Americani, di Suzuki Roshi “perché, dissero, qui in America è considerato alla stregua di un dio”. Ora Suzuki Shunryu, per quello che mi consta, era un brav’uomo e non approfittò di quella pericolosa situazione in cui tutto gli era permesso perché, per definizione, ogni suo atto, anche il più assurdo, essendo lui “roshi”, era di fatto un profondo insegnamento dharmico. Ma, alla sua morte, quando la palla passò ad altri (a cominciare proprio da Baker) immediatamente cominciarono gli abusi e continuano tuttora. Il perché, a mio parere, è abbastanza semplice. […]
(Articolo pubblicato sulla rivista Dharma, n. 5 Aprile 2001)
L’immagine è tratta da: http://www.psicologianeurolinguistica.net/2010/04/sviluppo-personale-13-consigli-per.html