Zazen come Buddhadharma

Un’intervista con Uchiyama Kosho Roshi a cura di Takamine Doyu.

Presentazione di Jiso Forzani
Il testo che segue è la traduzione dall’inglese, pubblicata sulla rivista The Open Gate edita a Kyoto da Takamine Doyu e Daitsu Tom Wright, del resoconto di un incontro fra Uchiyama Kosho Roshi e Takamine Doyu. Alcuni cenni di presentazione appaiono necessari per chiarire il contesto al lettore.

Uchiyama Kosho Roshi (quest’ultimo è un termine di rispetto che significa anziano maestro) era un monaco buddista zen che ha dedicato la propria vita alla pratica, allo studio e alla trasmissione dell’insegnamento di Buddha.
Il suo stile di vita molto sobrio e il suo rapporto molto concreto con il dharma buddista hanno attirato, fin dagli anni settanta, l’attenzione di numerosi giapponesi e occidentali, alcuni dei quali si sono recati nel piccolo monastero di Antaiji, a Kyoto, per condividere con lui la pratica religiosa e per ascoltare la sua esposizione dell’insegnamento buddista.
Uchiyama Roshi rifuggiva da qualunque forma di imposizione della propria personalità, tentazione latente del rapporto maestro discepolo che pure è parte non accessoria della via buddista, e proponeva come capisaldi dell’esperienza religiosa una pratica costante e intensa e un rapporto diretto e non settario con lo studio dei testi religiosi.
Autore di numerosi libri, ha sempre dedicato un’attenzione instancabile a far sì che la dottrina venisse ascoltata in modo non condizionato da pregiudizi e riconsiderata alla luce della propria effettiva esperienza di vita. Ne deriva un’esposizione semplice in termini di linguaggio e profonda in termini di significato. Dove per semplicità non si intende riduzionismo ma intelligibilità, perché rifugge dalla terminologia tecnica e stereotipata, che spesso è un alibi per celare la mancanza di comprensione di chi la usa; e per profondità non si intende indederminatezza e oscurità, ma spessore e pluralità di livelli, perché così è la vita, che nell’apparente similarità dei casi che produce ha una ricchezza inesauribile che si svela solo vivendola con attenta adesione.
Lungi dal voler fare un’apologia della persona, che non sarebbe che un estremo torto, dico però con convinzione che Uchiyama Roshi è stato, per molti di coloro che hanno avuto l’occasione di conoscerlo e di frequentarlo anche solo un po’ come è il mio caso, uno stimolo che continua a operare a non sprecare la propria vita ed anzi ad onorarla fino in fondo.
Con questo spirito, di essere veicolo, anche attraverso le parole scritte, dello stesso rispetto verso la totalità dell’esperienza di esistere cui Uchiyama Roshi ha dedicato la sua vita, proponiamo la lettura delle sue parole, nella speranza che il loro vero significato rieccheggi nel cuore di chi legge.
N.d.R. Quanto segue è una traduzione di uno degli ultimi discorsi tenuti da Kosho Uchiyama Kosho. L’autore dell’intervista ha fatto una breve visita ad Uchiyama nella sua residenza di Noke-in, in Giappone, il 6 di Gennaio del 1998.
Egli parlò di alcuni aspetti più di tutti essenziali riguardo la pratica dello zazen come Buddhadharma. Il 13 marzo seguente, all’età di 86 anni, Uchiyama morì nella sua casa, poco dopo aver finito la sua poesia Tada Ogamu – Solo inchinarsi.
In traduzione italiana è possibile leggere di Uchiyama: Istruzioni a un cuoco zen (un commento al Tenzo Kyokun di Doghen), pubblicato da Ubaldini (Roma, 1986) e La realtà della vita (Bologna, EDB, 1993).

Il testo dell’intervista in formato pdf

L’intervista è tratta da:
http://www.lastelladelmattino.org/rivista/index.php/inverno-2001/zazen-come-buddhadharma

La nostra esperienza

Non è facile per noi rappresentare attraverso le parole un’esperienza interiore che si svolge ormai da molto tempo, che è diventata anche un insieme ordinato di concetti ma, essenzialmente e prioritariamente, è esperienza, vita quotidiana, un modo di stare davanti ai giorni, a sé, all’altro.
Riportiamo di seguito alcuni brani, scritti all’incirca nel primo decennio del duemila, che fissano alcuni aspetti dell’esperienza e della visione che sperimentiamo.
La nostra vita è intessuta della pratica della meditazione e della contemplazione: il processo della conoscenza di sé diventa consapevolezza che si espande in meditazione e, da questa, in contemplazione: questa è la nostra pratica di ogni giorno e di ogni momento e questo, senza pretese, cerchiamo di comunicare.
Altri brani si trovano in Taccuino spirituale.

Il sentiero: consapevolezza, disconnessione, contemplazione
Il sentiero contemplativo è una piccola via alla libertà interiore attraverso il quotidiano insignificante. Il sentiero è semplice, fornisce gli strumenti per conoscere la mente…

La conoscenza di sé fondamento della via spirituale.
Questo è il fondamento della via interiore. Qualunque cosa noi possiamo dire o fare, ha un senso se siamo passati e se passiamo, ogni giorno, attraverso la cruna dell’ago della conoscenza di noi stessi…

Un viaggio incontro a sé stessi senza discepoli e maestri.
Il fine del sentiero è fornire alla persona gli strumenti per conoscersi e trascendersi: questo può realizzarsi più agevolmente se la persona non è lasciata sola e se viene accompagnata in questo processo. Nel sentiero all’insegnamento corrisponde una pratica di accompagnamento…

La compassione che sorge dalla contemplazione.
Quando sei davanti a te stesso, così come sei, quando sei davanti all’altro, così come è, quando ti è evidente il tuo limite e quello dell’altro, quando tutta la realtà manifestata non parla che di una limitazione in atto, piccole tessere di un infinito mosaico…

Nella fiducia della vita l’incontro con il dolore.
Nessuno è solo, abbandonato a se stesso. Nessuno è scaraventato nella vita senza gli strumenti per affrontarla, per manifestare se stesso, per vivere i processi che la vita gli presenta…

Nella pienezza della propria umanità.
Non è dalla negazione di sé che può germogliare qualcosa, ma è nella discesa dentro l’intimo proprio essere, nell’accettazione, nell’accoglienza, nella comprensione del proprio limite e del proprio talento…

Aderire alla vita.
Nella radicalità del gesto del vivere, dove tutta la realtà, così come appare ai sensi e al sentire interiore si manifesta, affiora la trascendenza al gesto stesso. Lì, in quel pensiero, in quell’emozione, in quell’azione…

Siamo intrisi di divenire, mentre niente diviene.
Il seme non diviene pianta, il cucciolo non diviene adulto, l’assassino, vita dopo vita, non diventa santo. Non c’è nessun divenire, ogni cosa, essere, persona, è quel che è in quel momento presente…

Identità e contemplazione: due dimensioni che non si incontrano.
A noi non interessa la speculazione filosofica ma la realtà e l’esperienza della realtà. Quella che per l’uomo è l’identità ai nostri occhi appare come una connessione, su diversi piani di consapevolezza, di elementi tra loro non connessi…

Se vuoi comprendere questo tentativo nel silenzio.
Qui, in una forma discreta e assolutamente ordinaria e insignificante, prende corpo un’esperienza interiore che ha le stesse motivazioni interiori dei tanti ricercatori, monaci, eremiti, che a tutte le latitudini e in ogni tempo sono andati incontro all’esistenza…

L’evoluzione dell’uomo da ego ad amore.
Nel sentiero raramente parliamo di evoluzione; ci focalizziamo sull’essere, sull’adesso, su quello che la vita ci presenta. Quello che accade ci trasforma, lo sappiamo, ma non poniamo l’accento sulla nostra trasformazione quanto sull’arrendersi alla vita. Perchè? (…)

Un canto dall’eremo.
Di chi sono queste giornate?
Sono mie, sono tue?
O sono semplicemente questo accadere che giunge
e che ti sprofonda dentro? (…)

Una questione centrale nella via spirituale.
La questione centrale è che tutte le persone debbono, mano a mano, spostare la loro consapevolezza dal piano più denso a quello più spirituale?Direi proprio di no, direi che la questione centrale è il superamento della logica sequenziale dei piani di focalizzazione e consapevolezza…

Contemplare è smettere di cercare.
Quante parole! Le parole parlano di noi, le persone che incontriamo parlano di noi, le notizie al telegiornale parlano di noi: se abbiamo orecchie per ascoltare e strumenti concettuali per interpretare, ci possiamo accorgere che tutta la realtà parla di noi…

Canto dello zazen

Fin dall’origine tutti gli esseri sono dei Buddha.
Come acqua e ghiaccio:
senz’acqua non c’è ghiaccio.
Fuori degli esseri viventi non ci sono Buddha.
Non conoscendo ciò che è vicino,
essi cercano la verità lontano.
Come uno che immerso nell’acqua urli “Ho sete!”,
come il figlio di un uomo ricco che vaghi su questa terra fra i poveri.
La causa del nostro circolare fra i sei mondi
è che noi siamo sugli oscuri sentieri dell’ignoranza.
Da oscuro sentieri a oscuro sentiero,
come possiamo sfuggire alla ruota del samsàra?
La meditazione zen del Mahàyàna va al di là delle nostre lodi.
Il dono, la moralità e le altre perfezioni [pàramità],
la ripetizione del nome [nenbutsu] e la disciplina,
gli innumerevoli meriti, tutto viene dalla pratica della meditazione.
Con il merito di una singola pratica
distrugge gli innumerevoli peccati accumulati.
Dove saranno allora i cattivi sentieri per lui?
Il paradiso della Terra Pura non è lontano.
Chi ascolta questa verità anche per una sola volta
con il cuore umile e riconoscente,
la loda e l’abbraccia,
acquista cumuli di meriti infiniti.
E se si volge all’interno e coglie la vera natura del Sè,
– quel vero Sè che è il Non-Sè –
va oltre la conoscenza basata su astute parole.
Le porte si aprono, causa ed effetto non sono più:
non c’è dualità nè triade, a la Via corre dritta.
assume come forma l’aspetto di non-forma.
Va e torna, ma non lascia mai la casa.
Assume come pensiero la forza del non-pensiero.
Cantare e danzare, tutto è voce del Dharma.
Com’è vasto il cielo della concentrazione infinita!
Irradia la luna piena della quadruplice Saggezza!

Poesia di Hakuin Ekaku Zenji 1685-1768